Il country style di Kent Haruf

KENT HARUF Benedizione

Una piccola ma intraprendente casa editrice di Milano, la NN, ha ripescato tre romanzi sconosciuti al grande pubblico di uno scrittore americano morto qualche anno fa. I romanzi raccontano storie diverse ma sono legati dalla stessa ambientazione, da un luogo immaginario che fa da sfondo alle vicende dei suoi protagonisti. L’autore in questione è Kent Haruf, i suoi ultimi libri: Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo, che insieme compongono la cosiddetta trilogia della pianura. Di Kent Haruf sappiamo bene poco: una laurea nel Nebraska, svariati lavori manuali come il carpentiere e l’infermiere, una ristretta produzione letteraria composta da sei romanzi, e una serie di riconoscimenti che qui da noi hanno avuto un’eco quasi impercettibile. Perché amiamo i libri di Haruf e perché la sua prosa asciutta,  minimalista, si distingue da quella di altri autori Usa. Ci piace Haruf perché ha voluto e saputo raccontare un’America diversa e lontana dagli stereotipi della cultura di massa. La contea di Holt, nel Colorado, è un luogo ameno dove l’umanità sopravvive al crepuscolo dei suoi valori fondanti. I romanzi di Kent Haruf sono popolati di uomini semplici che ritrovano nelle proprie radici il senso di una vita spesso ripetitiva ma densa di sentimenti profondi e autentici.  Contadini, mandriani, anziani prossimi alla morte che cercano e sperano in un’improbabile redenzione, donne deluse da  precedenti amori, e figli tormentati dalla lontananza della famiglia. Tutta la letteratura di Haruf è dominata dal paesaggio del Colorado e dalla sua straordinaria fauna umana. La città immaginaria di Holt ( nella realtà Yuma?) ci riporta ad altri luoghi di fantasia della grande narrativa, alla Macondo di Cent’anni di solitudine di Marquez e alla Crosby di Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. Al frastuono delle metropoli, alla devianza giovanile, allo stress della modernità, Haruf contrappone il profumo estivo dei campi di mais e il cigolio delle trebbiatrici. Non ci sono grattacieli nella trilogia del vecchio Kent ma pianure sconfinate attraversate da pascoli di bovini, e sentieri sterrati solcati da bici e trattori. Un incedere lento ma pieno di consapevolezza e di poesia che rende le sue storie intense e commoventi.

Angelo Cennamo

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RICORDARE PASOLINI

PASOLINI Ritratto

La notte tra l’uno e il due novembre del 1975, all’idroscalo di Ostia, veniva ucciso in circostanze tuttora poco chiare Pier Paolo Pasolini. Di quel giorno conservo un vago ricordo  fatto di immagini frammentate, in bianco e nero. Le prime che i telegiornali della rai, gli unici del tempo, mandarono in onda non appena si diffuse la notizia. Il fango, le pozzanghere, le baracche di quel luogo così povero, desolato, rendevano bene l’idea dello squallore e della tragicità dell’evento annunciato. Ma anche il contesto dove Pasolini aveva collocato, ambientato tutta la sua parabola di uomo e di narratore: la periferia. Avevo 7 anni e di quell’uomo dal volto scavato e dai grossi occhiali scuri, ucciso con una brutalità spaventosa e oscena,  non ne sapevo nulla. Sicché scoprii la sua esistenza – l’esistenza del poeta Pasolini – proprio mentre il telegiornale annunciava la sua morte. A distanza di tanti anni da quella notte, l’Italia piegata dal malaffare, dalla corruzione, precipitata nel peggiore degrado culturale e politico dai tempi del fascismo, riesce sorprendentemente a trovare un guizzo, un piccolo sussulto di dignità per ricordare la sua figura nei giorni dell’anniversario del delitto, e riaffermare il senso, il valore della sua opera a beneficio delle nuove generazioni.

Rileggevo le prime pagine di “Ragazzi di vita” e riflettevo su quanto la vicende personali di Pasolini: l’omosessualità, i vizi e i processi collegati in parte anche a quel vissuto così scandaloso e trasgressivo, abbiano finito per sovrastare la bellezza e l’unicità della sua produzione letteraria e cinematografica, relegandola ad una ingenerosa collocazione di nicchia. Non mi sorprende che sia potuto accadere in un Paese bigotto, ipocrita, provinciale come il nostro, dove perfino la cultura diventa motivo di scontro politico o, se preferite, tifo da stadio, tra destra e sinistra. Figurarsi negli anni settanta. Ma perché dopo tutto questo tempo dovremmo ricordare Pier Paolo Pasolini? E qual è il valore dell’eredità che ci ha lasciato? Una risposta a questa domanda possiamo trovarla negli “Scritti corsari”, la raccolta degli editoriali che lo scrittore eretico pubblicò sul Corriere di Piero Ottone. A cominciare dal più noto “Io so”. E’ l’eterna attualità delle sue opere la ragione per la quale ci piace ricordare Pasolini. L’immutata freschezza delle analisi sociologiche, oltre la profondità, la poesia e la modernità dei suoi romanzi e dei suoi film. Pasolini ci manca moltissimo. Ci manca la ferocia e il coraggio delle sue invettive. Ci manca l’anticonformismo con il quale combatteva l’omologazione e l’appiattimento della cultura di massa. La stessa che per tutto questo tempo lo ha collocato ed archiviato nel reparto imperioso degli intellettuali di sinistra. Lui che negli scontri di Valle Giulia difese i poliziotti figli di contadini contro gli studenti “proletari” figli di papà. E che storceva il naso di fronte a capelloni e cantanti beat. Non ha fatto in tempo, Pasolini, a completare la sua mutazione genetica da integralista di sinistra ad eretico reazionario, nel solco di un’altra grande scrittrice e giornalista del suo tempo: Oriana Fallaci. Resta però il ricordo e la traccia indelebile di un artista intorno al quale questo Paese così sgangherato, alla disperata ricerca di simboli e di modelli positivi, fa bene a stringersi per ritrovare un’identità forte, consapevole, e per salvarsi da una regressione che sembra non arrestarsi  mai.

Angelo Cennamo

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