IL BREVETTO DEL GECO – Tiziano Scarpa

 

 

Il brevetto del geco - Tiziano Scarpa

 

 

Davvero curioso questo romanzo di Tiziano Scarpa – scrittore veneziano dalla vena postmoderna, consacratosi tra i migliori autori della sua generazione nel 2009 con Stabat mater, vincitore del Premio Strega e del Premio Mondello.  Il Brevetto del geco esce nel 2015 e subito richiama l’attenzione della critica e dei lettori per le sue trame originali e per la qualità della scrittura, eccelsa. Scarpa scrive due storie indipendenti l’una dall’altra attraverso paragrafi alternati, con pochi personaggi ed una enigmatica voce narrante, senza corpo, che di tanto in tanto interviene tra le vicende dei protagonisti per commentarle con spunti ironici, talvolta poetici:  l’interrotto.

Federico Morpio  è un artista fallito. A trentanove anni si ritrova con meno di mille euro sul conto e un orizzonte professionale poco rassicurante. “Ventun anni prima aveva scommesso tutto quello che aveva, senza nessuna garanzia – aveva scommesso tutto quello che era. Aveva scelto di fare l’artista” L’arte è tutta la vita di Federico, la sola cosa che conta “Che cosa ne sarebbe di lui, senza l’arte? Era una domanda a cui era impossibile rispondere. Senza l’arte non si sarebbe ridotto al fallimento. Ma, d’altra parte, si sarebbe disconnesso dalla realtà. Sarebbe diventato indifferente a tutto”. Federico osserva il mondo, ma quello che vede sembra acquistare senso e consistenza solo attraverso la propria immaginazione e il proprio talento artistico “Eccolo lì, davanti a lui il mondo. Che senso aveva dargli retta, che senso aveva viverlo, se non per ricavarne un’opera?”.

La protagonista della seconda storia è Adele, una ragazza sola e malinconica che un notte scopre nella cucina di casa sua un animaletto insolito e prodigioso: un geco. Adele attribuisce a quella visione un significato religioso “Non aspettava altro che un indizio d’infinito passasse a prendersela, come un centauro vestito di cuoio nero che smarmitta sotto casa”. Il geco non vuole uscire dalla stanza. Se ne sta lì, aggrappato alle piastrelle della cucina con le sue zampette a ventosa. Improvvisamente però scivola in una pentola e non riesce più a ritrovare l’equilibrio. Pare che i gechi si attacchino a tutte le superfici. Tutte, tranne una: il politetrafluoroetilene, più conosciuto con il marchio commerciale di Teflon, ovvero il rivestimento antiaderente delle pentole. Era questo il segno che attendeva? Adele ne è convinta. Inizia così la sua graduale conversione al cristianesimo, un bizzarro percorso di fede fatto di arte sacra e naturalismo, attraverso il quale la ragazza troverà prima l’amore casto di Ottavio per poi essere coinvolta nell’inquietante missione etica di una setta religiosa chiamata i Cristiani Sovversivi: rapire donne incinte per non farle abortire.

Federico nel frattempo è riuscito, almeno per il momento, a liberarsi dei propri affanni grazie all’eredità lasciatagli dal padre “ Non aveva mai accettato che suo padre lo finanziasse da vivo. Ora che era morto, lo stava aiutando a fare il passo più importante della sua carriera di artista, troncandola“. Le due storie, quella di Federico e di Adele, finiranno per incrociarsi per puro caso nelle ultime pagine del racconto, in un finale probabilmente deludente o comunque non all’altezza della prima parte del romanzo.

Il brevetto del geco è un libro di non facile lettura per le sue iperbole lessicali, per alcuni passaggi surreali, specialmente quelli legati alla figura dell’interrotto e alle vicende di Adele. Ma è un romanzo ricco di spunti interessanti, legati alla storia dell’arte e alla condizione di precarietà vissuta e meditata da Federico Morpio. Scarpa è uno scrittore colto e originale. L’anno in cui vinse con Stabat mater partecipò al Premio Strega anche un altro autore di talento: Giorgio Vasta, con uno dei romanzi più straordinari scritti in Italia negli ultimi vent’anni Il tempo materiale. Vasta, Scarpa, Veronesi, Piperno, Fontana, Ricci, Ferrante, Missiroli: la letteratura italiana è viva e gode di ottima salute.

Angelo Cennamo

 

 

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LETTERE 1932-1981 – John Fante

Lettere - Fante

“Alla metà del 1930, un giorno partì. Aveva un dollaro e 33 centesimi. Con l’autostop e prendendo il treno senza biglietto, arrivò a Los Angeles”.

Leggendo il fitto e straziante epistolario raccolto in Lettere 1932-1981 capiamo perché i libri di John Fante raccontano sempre storie autobiografiche: perché la vita di Fante è stata un romanzo, avventuroso, commovente, con un finale tragico. Dalla pensioncina di Bunker Hill, a Los Angeles, l’aspirante scrittore scriveva spesso alla “Cara madre” per tenerla al corrente delle sue disavventure ma anche delle buone prospettive di lavoro: “ Cara mamma, sono ridotto ai miei ultimi 15 dollari, ma alla fine qualcosa di buono è saltato fuori, e credo comincerò a lavorare lunedì o martedì prossimo. Se si concretizzerà, guadagnerò cinquecento dollari alla settimana per otto o dieci settimane”. Accadrà di rado.

Alla cugina Jo, Fante  preannuncia la pubblicazione di quello che si rivelerà a distanza di anni il suo capolavoro Chiedi alla polvere : “Sto finendo il mio romanzo, si intitolerà Ask the dust. Parla di una ragazza che amavo, ma lei amava un altro”. Perfetta la sinossi. Romanzo di successo, sì,  ma passeranno molti anni prima che il grande pubblico se ne accorga. Anche per questo la povertà non smette di inseguirlo “La povertà ha un effetto disastroso sul mio lavoro” scriverà John ad un amico per chiedergli un prestito, uno dei tanti. Per sbarcare il lunario Fante decide allora di lavorare per il cinema; nonostante la depressione seguita al crollo di Wall Street, nel mondo della celluloide circola ancora molto denaro. Una scelta obbligata e in contrasto con le sue aspirazioni di romanziere ”John dovrebbe  limitarsi a scrivere libri. Scrivere dei film, per quello che ne so, è uno spreco di talento e di tempo. Anche se ora il salario del cinema ci fa comodo” dirà la moglie Joyce ad un editore amico di suo marito. Aveva ragione. Ma sarà soprattutto grazie a soggetti e sceneggiature che Fante riuscirà a tirare avanti e ad avere nuove opportunità per scrivere i suoi libri.

Chiedi alla polvere racconta la storia di un giovane scrittore, Arturo Bandini, alter ego di Fante, che dopo anni di stenti e delusioni trova finalmente il grande successo. Il romanzo diventerà un besteseller solo  grazie ad una futura riscoperta di Charles Bukowski. A un suo lettore affezionato che lo inonda di lettere, l’autore scrive così : ”Vuole sapere se io sono Arturo Bandini, e io le dico che lo sono – in particolare l’Arturo di Chiedi alla polvere, anche se non interamente l’Arturo del mio primo libro. La storia d’amore di Chiedi alla polvere è quasi vera nel senso che una volta sono stato infatuato della ragazza del romanzo, e lei, secondo me, è affascinante nella vita reale  tanto quanto ho cercato di farla apparire nel romanzo. Oggi è a Spring Street a Los Angeles, lavora nello stesso bar che ho descritto nel romanzo, essendoci tornata dal manicomio, dal deserto, e punta verso il Nord. Se un giorno avrò la fortuna di incontrarla a Los Angeles la porterò là e gliela farò vedere e conoscere”.

Questo romanzo Fante lo ha amato moltissimo, non c’è dubbio. Certamente più di Full of life il libro che più di tutti gli fece guadagnare popolarità e denaro: “Full of life è stato scritto per soldi. Non è un romanzo molto bello”.

Negli anni ’60,  una nuova opportunità: Fante conosce il produttore Dino De Laurentiis e verrà diverse volte in Italia per scrivere un film che dovrà avere come protagonista Jack Lemmon. Per una serie di contrasti interni alla produzione il film non sarà mai ultimato. Di quella esperienza ci restano le lettere scritte alla moglie e ai figli dall’Hotel Vesuvio di Napoli. Pagine davvero deliziose che  raccontano di una città povera per essere uscita da poco dalla guerra, ma al tempo stesso romantica e affascinante “Il posto è incantevole e il cibo meraviglioso. La mia camera dà su via Caracciolo, il lungomare che costeggia la baia. Dal balcone vedo tanti bambini che giocano scalzi per strada e si divertono. Sono felici. Qui a Napoli ci sono molti negozi di moda, i prezzi sono bassissimi. Anche molte librerie”.       

Tra alterne fortune e debiti di gioco – pare che in una sola partita riuscisse a perdere anche 1000 dollari –  Fante conobbe i suoi momenti migliori negli anni ’70, grazie alla riscoperta dei suoi romanzi e al supporto dell’amico fraterno Charles Bukowski. In questi anni venne pubblicato un altro suo capolavoro:  La confraternita dell’uva, il romanzo che racconta il difficile rapporto con il padre, lo scalpellino italiano che emigra negli Usa e con il quale John trascorre un’intensa settimana di lavoro in montagna, con i suoi amici, avvinazzati più di lui.

Ed eccoci alla nota forse più dolente di questa lunga storia: l’alcol. Vini e liquori si riveleranno una vera e propria maledizione per tutta la famiglia Fante: John si ammalerà di diabete, perderà la vista e vivrà gli ultimi anni su una sedia a rotelle, senza gambe. “Caro Carey, la perdita più grande dopo quella di una gamba è la capacità di scrivere . E’ come lottare con un pesante pneumatico appeso al collo. Cado spesso. Non potrei vivere senza Joyce: mi pulisce il culo, mi fa la barba. Sono fortunato. Resta in piedi, Carey, non cadere.”

Fante morì l’8 maggio del 1983. Aveva 74 anni. Quando nel 1980 la Black Sparrow press ristampò Chiedi alla polvere su richiesta di Bukowski, era stato dimenticato quasi del tutto come romanziere. L’editore John Martin non l’aveva sentito mai nominare. Poi cominciarono a ristampare le sue opere in tutto il mondo, soprattutto in Francia, dove Fante è tuttora più popolare che negli Usa.

Angelo Cennamo

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MUCHO MOJO – Joe R. Lansdale

 

 

Mucho Mojo - Lansdale

Mojo è un termine africano che indica una magia cattiva di tipo sessuale. Lo strano rituale che fa da sfondo alle vicende raccontate in uno dei romanzi noir più riusciti di Joe R. Lansdale, autore texano dai mille registri narrativi ed ultimo maestro del pulp, genere che fa storcere il naso ai puristi della letteratura fine per i suoi contenuti rozzi e violenti: sangue e merda, per intenderci. “Ecco, uno dei miei libri preferiti torna disponibile in una nuova edizione. Queste sì che sono soddisfazioni” scrive Lansdale nella prefazione dell’ultima ristampa del romanzo che vede come protagonisti Hap Collins e Leonard Pine, la coppia di amici strampalata e divertente intorno alla quale ruotano le storie più intricate e comiche di Lansdale.

Leonard eredita da suo zio Chester una casa fatiscente, circondata da un brutto giro di spacciatori, e centomila dollari in contanti. Trasferitisi nella vecchia abitazione per ristrutturarla e poi rivenderla, i due amici fanno una scoperta agghiacciante: sotto le assi di legno del pavimento trovano lo scheletro ingiallito e frantumato di un bambino. Con l’aiuto di due poliziotti e di un’affascinante avvocatessa di colore ( Florida Grange), Hap e Leonard iniziano un’indagine complicatissima dai risvolti macabri ed imprevedibili. I due, infatti, scoprono che da alcuni anni in quel quartiere si commettono degli strani infanticidi di figli illegittimi, bambini poveri e di colore. Un misteriosa procedura che ha origine da una vicenda quasi freudiana, dietro la quale si nascondono figure insospettabili.

Mucho Mojo è il più classico dei libri gialli, un romanzo dall’impianto narrativo perfetto e ben collaudato: due amici sfigati come protagonisti – uno bianco, l’altro nero e omosessuale – la relazione sentimentale tra una donna di colore, colta e disinibita, e un bianco nullatenente e senza ambizioni; una dose massiccia di comicità e di suspense, scazzottate alla Bud Spencer e Terence Hill, birre ghiacciate, sesso, volgarità, e soprattutto il grande talento di Joe R. Lansdale, scrittore capace di raccontare la quotidianità nella sua crudezza come pochi altri della sua generazione.

“Ma a Stile libero quando si decideranno a ristampare Mucho Mojo?” chiede un fan italiano sul blog di Lansdale. Accontentato.   

 Angelo Cennamo          

          

 

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SEMINARIO SULLA GIOVENTU’ – Aldo Busi

Seminario sulla gioventù - Aldo Busi

“Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Nulla, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo ad un risolino di stupore, stupore di essercela presa per così poco.”

Inizia così uno dei più bei romanzi italiani della seconda metà del Novecento. L’incipit di Seminario sulla gioventù di Aldo Busi è una carezza che intenerisce il cuore e che ci spalanca gli occhi sull’inafferrabile senso del divenire. Seguiranno tante altre pagine di passione, solitudine, disincanto. In un paesino della campagna lombarda travagliata dalla seconda guerra mondiale e dalla fame, vive Barbino, un ragazzino vispo e sensibile, curioso della vita. Sua madre sgobba tutto il giorno per mantenere lui con i suoi tre fratellini e un marito violento e scansafatiche. Si arrangia come può, al mercato, in osteria, e Barbino le va dietro, imparando a fare il bucato, perfino a ricamare. È sempre lì, Barbino, con le altre donne del paese a fare centrini, ad ascoltare discorsi e confidenze “Le donne raccontavano storie, gli uomini si raccontavano storie” spesso noiose. La scoperta del sesso passa attraverso la vestaglia di mamma, luogo proibito di odori e di sensazioni nuove, impronunciabili. Barbino la indossa e vola con la fantasia: canta, danza. Intanto in paese le voci corrono. Il maestro elementare Petenfio lo circuisce in cambio di una tazza di latte “Non sarebbe stato facile dire chi dei due era preda dell’altro.” Lo scandalo esplode quando Barbino denuncia in un tema gli abusi dell’insegnante di religione, anche lui, praticati su alcuni alunni della scuola, vittime silenziose di un clima di ignoranza e di omertà contro il quale il giovane protagonista si ribella con tutte le proprie forze, a costo di cambiare aria e abbandonare il campo. Inizia così un lungo e avventuroso vagabondaggio fatto di numerosi incontri e di esperienze imprevedibili. Barbino lavora nei bar di Venezia e di Milano dove conosce nientemeno che Eugenio Montale, per poi trasferirsi in Francia. Trovare una sistemazione a Parigi, a migliaia di chilometri da casa, non è semplice. Il giovane si barcamena tra mille mestieri: barista, cameriere, sguattero, sempre per pochi franchi e alla ricerca di un letto. Come un randagio, la notte se ne va in giro per gabinetti pubblici e altri luoghi malfamati a scambiare sesso con altro sesso, sognando l’amore vero, la chimera. Una donna francese, Arlette, lo accoglie a casa sua e lo accudisce come un’ancella. La parte centrale del romanzo è imperniata sul rapporto-scontro tra i due. Arlette è una donna sola e annoiata, sa dell’omosessualità del suo ospite, ma non si rassegna: se ne innamora ma pretende da lui l’impossibile. Barbino è ambizioso: studia, impara la lingua, si lascia tentare dal mondo della danza e dal Folies-Bergère; poi, grazie a una raccomandazione, sceglie di lavorare nella tipografia di una banca, ma non per molto: dopo la Francia, lo attende l’Inghilterra “Non ho né nido né nicchia, né padre né madre né fratelli né amici né amanti né prole. Volo”.

Seminario sulla gioventù è un romanzo fluvuale “una colata di parole” scrive Piero Bertolucci nella postfazione del libro, che ha visto la luce dopo ben diciassette stesure per poi essere ripubblicato negli anni Duemila con l’aggiunta di un capitolo inedito Seminario sulla vecchiaia. Aldo Busi si è spesso autodefinito il più bravo scrittore italiano, e io gli credo; la sua prosa torrenziale – massimalismo argomentativo – rigogliosa, il suo italiano sontuoso, forse inarrivabile, ci sommergono di poesia e di bellezza. Busi ci prende a schiaffi con frasi crude, ma mai volgari, per poi ammansirci con locuzioni dolci e miste di dolore. “Non è un romanzo autobiografico”, ha precisato più volte l’autore. Io invece penso che questo romanzo somigli a Busi più della sua stessa vita.

Angelo Cennamo          

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LA NOIA – Alberto Moravia

La Noia - Moravia

 

“Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà”.

Dino è un uomo annoiato dalla ricchezza, indifferente a tutto e alienato dalla vita sociale. Dopo essere fuggito dalla villa di famiglia e dagli agi nei quali vive sua madre, decide di darsi alla pittura e si trasferisce in via Margutta, nello stesso stabile in cui ha lo studio un vecchio pittore, Balestrieri, noto erotomane, invaghitosi di una sua modella diciasettenne. Proprio durante uno dei ripetuti ed ossessivi slanci amorosi, Balestrieri muore tra le braccia di Cecilia, questo il nome della sua giovane musa ispiratrice e personaggio cardine del romanzo. Cecilia è una ragazzina apparentemente gracile, insignificante; poco loquace, senza idee e senza valori, priva di curiosità e di interessi, completamente apatica ed incapace di esprimersi se non attraverso il sesso “il volto lo aveva rotondo, da bambina; ma una bambina cresciuta troppo in fretta e iniziata troppo presto alle esperienze muliebri.” La Lolita di Moravia ci ricorda un’altra ragazzina disinibita e viziata della letteratura italiana del Novecento, la Laide Anfossi di Un Amore di Dino Buzzati. Come Laide fa impazzire di gelosia l’attempato Dorigo, risucchiandolo nel vortice di un sentimento ossessivo e autodistruttivo, allo stesso modo, la comparsa di Cecilia nella vita di Dino travolge ogni cosa trasformandosi in una presenza angosciante, un delirio infinito dal quale il protagonista non riesce più a liberarsi. Dino scopre di amare Cecilia lo stesso giorno in cui decide di lasciarla. Vedendola sotto braccio con un altro uomo, un attore spiantato e più giovane di lui, è colto da un inspiegabile ed irrefrenabile attacco di gelosia. Inizia allora a seguirla, a spiarla. Decide di pagarla dopo aver fatto sesso, pur di imparare a disprezzarla e riuscire a mandarla via. Dino è un paranoico, e la sua ossessione, così morbosa e paradossale, anziché allontanarlo dall’amante crudele, lo spinge a rilanciare e a proseguire la relazione anche dopo la confessione del tradimento di lei. Tutto sembra perduto. Dino è incapace di sottrarsi al giogo infernale della sua insana passione e alla condanna che si è autoinflitto. Arriva addirittura a  pensare che solo sposando Cecilia riuscirà ad accettare la dura realtà e ad annoiarsi di lei. L’ennesima illusione.

“Eccola la chiave alla base di tutto, la chiave della vita moderna e della vera felicità: essere, in una parola, inannoiabile” David Foster Wallace.

La Noia è un romanzo del 1960, il cardine di una trilogia ideale che Alberto Moravia – al secolo Alberto Pincherle – ha iniziato con Gli Indifferenti e concluso con La Vita interiore. Dire di Moravia che è uno dei maggiori scrittori del Novecento italiano, sarebbe scontato. Non lo è invece azzardare una verità alla quale non tutti danno la giusta risonanza, e cioè che è proprio con Gli Indifferenti  il romanzo d’esordio che Moravia cominciò a scrivere quando non aveva ancora compiuto diciotto anni – e non con i libri di Sartre e di Camus, che ha inizio la corrente dell’esistenzialismo.

Moravia ha saputo raccontare il suo tempo con la scrittura del suo tempo: minimalista, moderna, lasciandoci pagine indimenticabili che a distanza di anni conservano intatto smalto e freschezza. La Noia è uno dei libri migliori, forse il più rappresentativo della poetica e dell’identità moraviana.

Angelo Cennamo

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LO STATO DELLE COSE – Richard Ford

Lo stato delle cose - Richard Ford

Scrivere il Grande Romanzo Della Nazione è il sogno non confessato di ogni scrittore americano. Richard Ford – autore del Mississippi, pluripremiato e già in odore di Nobel – come altri suoi colleghi illustri, da Bellow a Roth, da Franzen a Foster Wallace, ha lasciato, in questo senso, una traccia importante raccontando le vicende umane e professionali di un uomo qualunque, l’americano medio diremmo, che vuole rifarsi una vita dopo essere inciampato in una serie di dolorosi fallimenti, misfatti, divorzi e allontanamenti dagli affetti più cari. È la quadrilogia di Frank Bascombe, la saga legata al personaggio chiave della folgorante produzione letteraria di Ford, iniziata con Sportswriter (1992), proseguita con Il giorno dell’Indipendenza (1995), e conclusasi con Tutto potrebbe andare molto peggio ( 2015). Nel 2006, Ford ha pubblicato il terzo episodio della fortunata serie: Lo stato delle cose, forse il romanzo più intenso e più completo dei quattro citati.

Siamo nel 2000, l’anno del nuovo Millennio e della sfida elettorale tra Al Gore e George Bush. Bascombe, ex giornalista sportivo ed ora agente immobiliare, ha cinquantacinque anni e un cancro alla prostata. Vive a Sea-Clift, una cittadina immaginaria sulla costa del New Jersey, luogo affascinante ma desolato, specie nei mesi invernali. Alla vigilia del Giorno Del Ringraziamento, Frank fa un bilancio della propria vita e prova a dare un senso al tempo che gli rimane da spendere, il “Periodo Permanente” lo definisce “quella fase della vita in cui ben poco di ciò che diciamo è virgolettato, quando poche voci contrarie ci insinuano dubbi nella mente, quando il passato sembra più generico che specifico, quando la vita è una destinazione più che un viaggio e quando la persona che sentiamo di essere sarà grosso modo come ci ricorderà la gente una volta schiattati“. Quel tratto del percorso, per capirci, l’ultimo, in cui non provi nessuna paura del futuro, perché la vita non è più rovinabile. Nonostante tutto, Bascombe è un uomo sereno, forte e consapevole nei suoi dubbi; sa che non può sfuggire al corso degli eventi ma affronta i giorni che lo separano dalla fine con la passione e la curiosità di sempre. Medita, riflette sul suo passato, ricorda, se ne va in giro lungo la costa alla guida della sua Suburban, osserva il mondo, il suo mondo, fatto di spiagge sconfinate spazzate dal vento, di villette a schiera che compra e vende con il socio Mike – un buddista di origini tibetane, disgraziatamente repubblicano –  di bar semideserti, ristoranti a base di pesce e di stradine attraversate da podisti e surfisti della domenica. Frank deve districarsi tra una ex moglie che vorrebbe tornare da lui, Ann, e la moglie attuale, Sally, che ha deciso invece di lasciarlo per volare in Scozia dal suo primo marito, misteriosamente ricomparso dall’altra parte del mondo dopo essere stato creduto morto in Vietnam. A completare il quadro dei protagonisti, i tre figli di Bascombe, avuti dal primo matrimonio: Ralph, morto all’età di nove anni, Paul, ragazzo goffo, mentalmente limitato, una specie di scrittore che campa scrivendo biglietti di auguri, e che nonostante l’aspetto sgradevole si accompagna a una giovane “Anita Ekberg”; infine Clarissa, l’intellettuale della famiglia, bella, atletica, lesbica ma che si sforza di diventare eterosessuale. L’attesa del Giorno Del Ringraziamento di Frank ci ricorda l’ultimo Natale dei coniugi Lambert ne Le Correzioni di Jonathan Franzen: il desiderio, misto di nostalgia, di allontanare lo spettro della morte e di ricomporre, almeno per una sera, quel che resta di una famiglia sgangherata e litigiosa.

Bascombe ci piace perché è uno di noi, le sue paure sono le nostre. Gli alti e i bassi, le cadute, la speranza, il disincanto, la storia della sua vita, così dannatamente americana, amara e beffarda nel racconto magistrale di Ford, acquista la dimensione universale di tutte le altre storie che toccano i sentimenti più profondi e scuotono le coscienze dei lettori. A questo servono i buoni romanzi, a questo serve la letteratura: a non sentirci soli nel grande respiro del mondo.

Angelo Cennamo

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DI RABBIA E DI VENTO – Alessandro Robecchi

 

 

Di rabbia e di vento - Robecchi

Una parte consistente della produzione letteraria italiana degli ultimi anni è composta da libri gialli o noir che dir si voglia. Molti di questi racconti li pubblica Sellerio, casa editrice palermitana dallo stile grafico riconoscibile per l’eleganza delle sue copertine, tutte blu e dal formato rimpicciolito. In principio fu Camilleri, il maestro siculo dal volto pacioso e dalla voce affumicata, che si diverte a fare il verso a Sciascia e a Pirandello, e che di recente ha raggiunto il traguardo prestigioso (?) dei cento romanzi.  A ruota, un gruppo di giovani autori più o meno interessanti: Manzini, Savatteri, Recami, Malvaldi, che con le loro narrazioni poliziesche disegnano nel contempo una road-map simbolica di tic, vizi e slang della nostra Italia sgangherata. È una prerogativa del giallo italiano quella di riuscire ad allargare lo sguardo ad ambienti che neppure la letteratura generalista riesce a sondare, perché presa, forse, più da drammi esistenziali e vicende familiari. Prendete ad esempio Alessandro Robecchi, figura di spicco di questa pregevole scuderia di autori noir. In un Paese che non sembra avere più niente da dire, ripiegato su se stesso e involgarito da social e tv da strapazzo, Robecchi, con l’epediente del giallo, riesce a costruire storie e ad imbastire trame che ci riportano a precedenti illustri e a letterature di altre latitudini, riuscendo a dare dignità e spessore ad un genere troppe volte sottostimato. Di rabbia e di vento è il suo terzo romanzo. Lo schema è quello collaudato del doppio binario investigativo: da una parte, la polizia – il sovrintendente Carella e il suo vice  Ghezzi  –  dall’altra, Carlo Monterossi, autore pentito di “Crazy love” il programma televisivo di cuori infranti, “paccottiglia emotiva e pornografia dei sentimenti” prodotto dalla “Fabbrica Della Merda” e condotto dalla regina della tv popolare, Flora De Pisis “che Dio ci scampi“. Monterossi è un uomo affascinante, single, facoltoso – frequenta alberghi che “hanno più stelle della Via Lattea” e mangia in ristoranti dove “la lista dei whisky ha più pagine dell’Ulisse di Joyce” – ma quel mondo becero e insulso, fatto di lustrini, ricchezza esibita e tanta leggerezza non gli si confà. Meglio allora giocare al tenente Colombo e andarsene in giro con quell’altro amico suo, Oscar, il giornalista di cronaca nera così spregiudicato e addentrato negli ambienti della mala da sembrare uno di loro. Al centro del racconto, il duplice omicidio di un uomo, proprietario di una concessionaria di auto di lusso, e di una escort di alto bordo, colta, con una laurea in lettere presa con 110 e lode ma appesa sulla tazza del cesso, e una doppia, anzi tripla identità. Sullo sfondo di una Milano grigia e operosa, insolitamente ventosa, Monterossi e Falcone gareggiano con la polizia a risolvere il caso di un tesoro scomparso e di un morto che non è morto, disposto a tutto pur di ritrovare il suo prezioso malloppo. Suspance, denaro e niente sesso con la escort. Di rabbia e di vento è un romanzo brillante, veloce, ironico e dal taglio americano. Molto più di un giallo. Di Torto Marcio, il libro che Robecchi ha pubblicato nel 2017, avevo scritto di preferirlo alla saga di Hap e Leonard di Lansdale. Dopo aver letto Di rabbia e di vento, confermo la mia passione per Alessandro Robecchi e per la sua Milano buzzatiana.

Angelo Cennamo

 

 

 

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