LE QUATTRO DITA DELLA MORTE – Rick Moody

Rick Moody, scrittore newyorchese della generazione di Foster Wallace e Jonathan Franzen (autori che non cito a caso), negli anni Novanta si era imposto tra gli enfant prodige della nuova narrativa americana con un dittico di romanzi niente male, in Italia passati inizialmente inosservati poi ripubblicati un decennio più tardi da La Nave di Teseo: “Rosso Americano” e “Tempesta di ghiaccio”. Nel 2002, con “Il velo nero”, opera impressionante non solo per la mole ma anche per i saliscendi emotivi ivi contenuti, e per l’ampiezza dei registri narrativi, Moody raggiunge forse il picco più alto della sua maturità di scrittore. “Le quattro dita della morte” esce otto anni dopo (lo stesso anno, il 2010, Jennifer Egan pubblica “Il tempo è un bastardo” – anche questa citazione non è casuale). La storia è ambientata in un futuro relativamente prossimo (2025) ed è strutturata in tre parti.

Montese Crandall, scrittore frustrato con una moglie gravemente malata ai polmoni, per sbarcare il lunario vende figurine di baseball e altri cimeli sportivi. Nelle prime battute del romanzo lo troviamo a un reading tristissimo, davanti a tre quattro persone fintamente assorte mentre lui declama i suoi racconti composti da una sola frase. La svolta arriva con una strana partita a scacchi: contro uno degli spettatori presenti Montese si gioca la possibilità di romanzare il remake di un vecchio film Horror intitolato “La mano strisciante”.

A meno di duecento delle ottocentonovatatre pagine del libro, la storia raccontata da Moody, come una scatola cinese, si apre a quella raccontata da Crandall di una rischiosissima missione su Marte con lo scopo non dichiarato di recuperare un batterio letale chiamato “M.thanatobacillus”. A una delle tre astronavi che come le caravelle di Colombo partono per la spedizione sul pianeta rosso, Crandall dà il nome della nave di Melville: “Pequod”. Il viaggio dei nove personaggi di Moody in cerca del batterio mortale non è meno epico e avventuroso di quello del capitano Achab, e neppure meno complesso dal punto di vista narrativo, anzi. Il massimalismo di Moody, ironicamente riflesso nel superminimalismo del suo alter ego, dilaga in più direzioni, si inerpica per sentieri impervi, si destruttura secondo il mood (Moody) postmoderno, evolve nel Fantasy e nell’Horror. A metà romanzo, la nota di Crandall-Moody (due pagine fitte in perfetto stile “Infinite Jest” di Wallace) arriva come un pit stop salvifico per il lettore, che da quel momento potrà orientarsi con maggiore disinvoltura tra divagazioni labirintiche e trame parallele. Della missione nello spazio sopravviverà solo un braccio umano, mozzato all’altezza del gomito e senza il dito medio. Un braccio strisciante e contagioso che porta con sé nuovi misteri, l’apocalisse. 

Angelo Cennamo

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RUMORE BIANCO – Don DeLillo

Tutti vogliono possedere la fine del mondo” scrive Don DeLillo nell’incipit di “Zero K”. È la frase che dà inizio al racconto ma che di fatto chiude il cerchio di una narrazione più ampia, iniziata molti anni prima, nel 1985, con un suo libro gemello. “Rumore Bianco” è un romanzo sulla paura della morte, sulla dipendenza dalla tv e la curiosità morbosa per le catastrofi “ogni tanto il nostro cervello si spegne. Ogni tanto abbiamo bisogno di una catastrofe per interrompere il bombardamento incessante di informazioni a cui siamo sottoposti”.

La nuova traduzione di Federica Aceto, uscita più o meno in contemporanea con una discussa versione cinematografica (tradurre in immagini i libri di DeLillo richiede più incoscienza che talento), è una buona occasione per sfogliare di nuovo questo classico della letteratura dei nostri tempi, una delle vette più alte del postmodernismo americano, opera sulla quale poggia buona parte della produzione di David Foster Wallace.

Jack Gladney è un professore di studi hitleriani in un campus universitario dove gli scarti della cultura pop americana hanno oscurato qualunque altra forma di apprendimento. La quarta moglie di Jack, Babette, soffre di vuoti di memoria e di nascosto si sottopone a una terapia sperimentale per superare le proprie ossessioni, le stesse del marito. “Il rimpianto più profondo è la morte. L’unica cosa da affrontare è la morte. Non penso ad altro. Il punto è uno solo: non voglio morire”, dice Jack al suo collega Murray (tra i personaggi più interessanti del romanzo) nelle ultime pagine. È la frase che racchiude il senso del libro agganciandolo al suo gemello, il cui protagonista, Jeffrey Lockart, affida il sogno della resurrezione alla tecnica avveniristica della criogenesi.

DeLillo ci porta nella quotidianità di una famiglia progressista con figli di matrimoni precedenti, larga come la trama del romanzo, che non scorre mai in divenire ma procede in orizzontale attraverso il racconto delle sensazioni e delle manie dei protagonisti “E se la morte non fosse altro che un rumore?”. Il vero problema, dice Heinrich, il figlio sofista e catastrofista della coppia, sono le radiazioni che ci circondano ogni giorno: radio, tv, forno a microonde, fili elettrici. I campi elettrici e magnetici sono la nostra rovina. Il luogo più luogo del romanzo, che è ricco di immagini simboliche come “il fienile più fotografato d’America” – chi scatta la foto non lo fa per catturare un’immagine ma “per consolidarla…fotografano l’atto stesso di fotografare” – è un luogo chiuso, senza finestre, illuminato giorno e notte dai neon, sommerso dalla plastica e dalla carta, involucri, buste, etichette, dal ronzio sottile, quasi impercettibile dell’aria condizionata e dei banconi refrigeranti: il supermercato. Qui la storia si inspessisce di richiami filosofici e sociologici, e si trasforma in una specie di nevrosi collettiva che porterà i personaggi a un vero delirio, dapprima a seguito del deragliamento di un carro cisterna che genererà una nube tossica, poi attraverso la ricerca ossessiva di un farmaco che promette l’annientamento della paura.

Della nuova traduzione di Federica Aceto colpisce prima di tutto la scelta del tempo verbale. “Non ho scelto il passato prossimo perché la vecchia traduzione (di Mario Biondi) era al passato remoto”, ha precisato la Aceto in un suo post su Facebook. Il protagonista narra di eventi passati da non si sa quanto, ma ogni tanto “sbuca il presente nel flusso del suo racconto e già notando questo per me il passato prossimo non dico che si sia imposto ma mi ha bussato sulla spalla. E io ci ho pensato”. Una buona pensata, direi, che è servita a conferire alla narrazione una maggiore scorrevolezza e a renderla emotivamente più calda e coinvolgente. Non credo che la nuova traduzione sia stata dettata da questioni di marketing (l’uscita imminente del film) e neppure motivata dal tentativo di attualizzare il linguaggio dell’opera (la versione di Biondi non è vecchia), piuttosto dalla aspirazione, legittima, di riproporla con una voce diversa. 

Angelo Cennamo

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SILLABARIO ALL’INCONTRARIO – Ezio Sinigaglia

“Questo libro nasce dalla malattia”. Un’indagine a ritroso alla ricerca della causa del male, alla stregua di un romanzo giallo (il metodo è lo stesso: si parte dagli ultimi indizi per risalire al nome del colpevole). Ma se nel giallo la trama è delineata in ogni suo aspetto, qui la sequenza inversamente alfabetica dalla Z di “Zoo” alla A di “Aldilà” ma anche di “Al di là… cioè andare oltre” è un incerto divenire, un saggio “senza disciplina, un diario, incompleto ma ricco di fatti e di personaggi, di digressioni”. “Non la traduzione in prosa di un progetto narrativo”, precisa l’autore, ma di fatto lo è. “La cecità è il suo movente, la ricerca di appigli la sua metodologia, un buio appena rischiarato la meta”. Una cura o il tentativo di una cura, dunque. Un libro terapeutico. Il percorso arzigogolato incuriosisce, pungola il lettore, che indaga, e indagando prova a interpretare le parti più buie. Come il Berto de “Il male oscuro” che fugge dal Veneto per vomitare in pochi giorni il suo magma di parole nell’eremo di Tropea, Sinigaglia lascia la sua Milano per recludersi con il figlio Umberto in un paesino della Sardegna, Geremeas. Nella casa sul mare di tanto in tanto vanno a trovarlo degli amici “Non vado io dall’umanità: è l’umanità a venire da me”. S come Solitudine, e come Silenzio “Il silenzio è il mio segreto. Lo porto con me fin dall’infanzia”. Ma le assonanze con Berto non finiscono qui. La P di Sinigaglia è una delicata ricognizione del ruolo paterno. La morte del padre “di qui potrebbe prendere origine uno dei canali radicolari del dente del mio disagio” e pensando al figlio adottivo “quello di padre è un mestiere così scomodo e così poco gratificante che lo si fa il meno possibile: si cerca di sottrarsi: è umano, è comprensibile”. Sulla Q di Quattrini non c’è molto da dire “È semplice: non ne ho”. La F di Freud è un passaggio chiave, uno snodo. Cosa c’è di losco o di sbagliato in questo maledetto peregrinare scritto quasi trent’anni fa?

Mentre scrivo queste poche righe, Lorenza Foschini ha presentato, si dice così, il Sillabario al premio Strega. È solo l’inizio di un viaggio lungo e accidentato, lo è sempre stato per gli outsider come Sinigaglia, è “il destino di uno scrittore inedito”, avulso o di insuccesso. “Non voglio soldi, voglio lettori” diceva Richard Yates. La parabola di Sinigaglia non è molto diversa da quella di Mr “Revolutionary Road”. Questo romanzo (uscirà il 16 febbraio pubblicato da TerraRossa Edizioni) difficilmente lo troverete dietro una vetrina in bella mostra. Cercatelo tra gli scaffali della libreria come si cerca una pepita d’oro nel letto di un fiume.

Angelo Cennamo

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QUESTA È L’ACQUA – David Foster Wallace

Raccolta di sei testi (cinque racconti più la trascrizione di un discorso che Wallace tenne il 21 maggio del 2005 ai laureati del Kenyon College) che non ha equivalenti in nessun altro Paese del mondo, Stati Uniti compresi. La breve prefazione di Don DeLillo è un accorato intervento che lo scrittore newyorchese fece il 23 ottobre del 2008 al Memorial dedicato al collega e amico, aggiungerei discepolo, morto per suicidio il mese prima, per la precisione: il 12 settembre del 2008 (Wallace aveva quarantasei anni).

Nella raccolta spicca “Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta”. Si tratta del primo testo mai pubblicato da Wallace, uscito tre anni prima de “La scopa del sistema” – il romanzo d’esordio che rielabora la sua tesi di laurea in filosofia e che rivela il genio di Ithaca tra gli astri nascenti della nuova narrativa americana. Il racconto apparve nel 1984 sulla rivista universitaria “Amherst Review”, ma qualche anno dopo Wallace lo rivisitò e ripropose sotto altre forme in “Brevi interviste con uomini schifosi” col titolo “La persona depressa”. È la cosa più intima e autobiografica scritta da Wallace, una specie di presa di coscienza del proprio disagio psichico, e col senno di poi anche una tragica premonizione. Il suicidio, scrive il giovane autore e studente, non è che un gesto di coerenza: quando il depresso lo attua è già morto. Nell’allegoria della fiction il pianeta Trillafon è una seconda opportunità concessa al malato che sceglie di curarsi con i farmaci invece di sottoporsi a interventi più invasivi. Su Trillafon c’è acqua, c’è ossigeno, ma non è come vivere sulla Terra, abitarci è un surrogato della vita vera. 

Il Solomon Silverfish del racconto omonimo (pubblicato nel 1987) è un avvocato sessantenne “sassone segreto, celta teorico” alto, col riporto, che quando s’incazza dà fendenti all’aria. Sua moglie Sophie è malata di cancro e lui, per alleviarle il dolore, le compra da un suo cliente “Troppo Carino” dosi di marijuana. Con uno stratagemma, nel cuore della notte, Solomon viene processato dai familiari della moglie perché per sposarla si sarebbe finto ebreo, ma l’unione autentica che lega i due ormai da trent’anni prescinde da qualunque credo religioso. Solomon ci viene raccontato da diverse prospettive attraverso un’ingegnosa polifonia.

Una delle doti che più ci sorprendono di Wallace è la naturalezza con la quale è riuscito a mescolare (anche nello stesso periodo) una lingua coltissima col parlato della strada: Wallace è un intellettuale pop, coniuga punti estremi e sa interpretare in chiave comica, con una levità che sfiora la poesia, i momenti più critici della propria sofferenza.

“Altra matematica” (pubblicato nel 1987) è un brevissimo racconto d’amore (oltre ogni altra apparenza), nel quale ci colpisce in particolare la curiosa sperimentazione dialogica. 

“Crollo del ’69” (pubblicato nel 1989), il primo tentativo di Wallace di confrontarsi coi temi dell’economia e della finanza, temi che riprenderà e approfondirà qualche anno più avanti in opere ben più complesse (Infinite jest per esempio). “Ordine e fluttuazione a Northampton” (pubblicato nel 1991), tra i testi più geniali e comici scritti da Wallace, racconta un triangolo amoroso piuttosto stratificato sul piano concettuale, nel senso che la storia è ricca di divagazioni filosofiche e scientifiche e per questo può risultare di non facile lettura. Il libro si conclude col celebre discorso che Wallace tenne ai giovani laureati del Kenyon College nell’Ohio. Era il 2005, l’anno di “Considera l’aragosta”. Poco dopo Wallace avrebbe messo mano a quel librone rimasto incompiuto, riassemblato alla meglio e pubblicato postumo col titolo de “Il re pallido”. In una delle loro ultime conversazioni telefoniche, alla domanda di rito dell’amico Jonathan Franzen “Come ti senti oggi, Dave?”, lui rispose “Un po’ peculiare”. Questo era, questo è David Foster Wallace. 

Angelo Cennamo

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WHY VISIT AMERICA – Matthew Baker

La raccolta “Why visit America” (“Perché l’America”), pubblicata negli Stati Uniti nel 2020 e arrivata in Italia lo scorso anno con Sellerio e le traduzioni di Veronica Raimo e Marco Rossari, dopo un primo riscontro favorevole da parte della critica non ha avuto altrettanti consensi in termini di vendite. Non è una novità, penserete: quando mai si è visto che certe robe sperimentali hanno superato la soglia delle mille-duemila copie vendute? Quanto vende in Italia William Vollmann? Matthew Baker – appuntatevi il nome di questo scrittore se nel 2022 dovesse esservi sfuggito – non sarà paragonabile al più anziano Vollmann (i due sono diversi per stile oltre che per questioni di magmaticità), ma è una delle voci più innovative della nuova narrativa Usa, e questa sua raccolta è tra le cose migliori uscite da quel paese da un bel po’ di anni a questa parte (mi vengono in mente tre quattro titoli: “Corpus Christi” di Bret Anthony Johnston, “Il libro dei numeri” di Joshua Cohen, “Topeka school” di Ben Lerner, “L’estate che sciolse in ogni cosa” di Tiffany McDaniel, poco altro). Il look da ragazzo punk: volto emaciato, felpe e giacche di pelle fuori misura, e l’asimmetria della bizarra capigliatura, fa somigliare Baker alla vorticosa rappresentazione dei suoi mondi: stratificati, folli, iperbolici, stupefacenti.

I racconti – “tredici, uno per ogni striscia della bandiera americana” – richiestissimi anche dalle case cinematografiche (per “Ergastolo” si è scatenata un’asta feroce) – ci mostrano un’America del futuro prossimo distopica, o utopica se preferite, ridisegnata col compasso e il righello della provocazione: settantenni improduttivi che decidono volontariamente di uscire di scena, criminali puniti con la rimozione dei ricordi anziché con il carcere, maschi che si lasciano schiavizzare da femmine superbe e dominatrici sessuali.Baker nemico di un Occidente assuefatto al consumo e ossessionato dal desiderio di piacere? Il ragazzo è ironico, diverte e si diverte; in ognuna delle sue storie finiamo per riconoscerci tutti, non ci serve che allungare lo sguardo, proiettarlo poco più in là delle conquiste del digitale, lavorare di fantasia (quello sempre). Racconti spiazzanti, dunque, diversi l’uno dall’altro, (quasi) mai noiosi, coraggiosi/oltraggiosi, originali o emulativi di un’originalità perduta (nella giovane coppia che si mette alla ricerca di uno sponsor per finanziare i costi del matrimonio è impossibile non rivedere la cronologia di “Infinite jest” di David Foster Wallace, anzi sembra quasi che al genio di Ithaca Baker voglia concedere un tributo). Baker lavora per sottrazione, gioca a ribaltare la realtà costruendone una nuova, parallela, secondo la logica dantesca del contrappasso, dispensando equità e giustizia, invertendo regole e convinzioni, e ricorrendo a una scrittura chirurgica, millimetrica, sinuosa quanto basta.

Baker è fluido, camaleontico, sceglie di essere disturbante e cinico; a volte pecca di narcisismo (chi non lo è stato alla sua età?). Scrivere e riscrivere questi racconti più o meno brevi, armonizzarli in un flusso vitale che rifiuta il reale e lo sostituisce con il profetico, inventare questo lungo viaggio, epico, attraverso un’America altra che si riflette nell’America vera, non dev’essere stato facile, il risultato tuttavia mi è parso eccellente: in “Perché l’America” riconosciamo il tratto dei libri imprescindibili, quelli che sfidano il tempo e le mode del momento, sparigliando canoni, generi, architetture, significati. Le esplorazioni di Baker sono state accostate a quelle di Houellebecq, Atwood, Borges, Calvino, prima ho citato Foster Wallace, in una specie di mimesi del tutto cambia ma tutto si tiene, reminiscenze di un cut-up che procede per immagini impresse nella mente: letture precedenti, affinità elettive. Esiste ancora uno spazio incontaminato nella letteratura moderna, una foresta di parole vergini, un suolo lunare levigato e senza orme? Non lo so, ma Baker sembra averlo trovato.

Angelo Cennamo

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GLI SCOMPARSI – Tim Gautreaux

Sam Simoneaux viene da un villaggio vicino New Orleans, al confine col Texas, e se lo senti parlare lo capisci subito “dice le ‘a’ come quei cretini dei francesi”. Il suo nome sembra l’anagramma di Tim Gautreaux, scrittore di racconti della Louisiana le cui storie sono state pubblicate su riviste prestigiose come Atlantic, GQ, Harper’s, New Yorker. “Gli scomparsi” di breve ha solo il titolo e le 462 pagine che lo compongono ci appaiono perfino poche per tutto quello che accade nel libro. Il romanzo esce negli Usa nel 2009 ma in Italia arriva solo quattordici anni dopo, con minimum fax e la traduzione di Chiara Baffa. Gautreaux, che è una delle voci migliori della letteratura americana del Sud, ci restituisce il mood di autori leggendari, da William Faulkner e Eudora Welty a John MacDonald, fino ai più recenti Chris Offutt  e Joe Lansdale, il Lansdale di “Acqua Buia”, “In fondo alla palude”, “La sottile linea scura”. Leggendo le avventure dell’Huckleberry Finn adulto e tormentato di Gautreaux veniamo da subito catapultati nella dimensione epica degli anni Venti del Novecento americano e nel mito del Grande Romanzo un po’ Western un po’ Thriller. Sam è un sopravvissuto: appena nato, suo padre lo salvò da una strage nascondendolo dentro una stufa, e vent’anni dopo la nave che lo stava portando in Europa a combattere la prima guerra mondiale approdò in Francia proprio nel giorno dell’Armistizio. Per questo lo hanno ribattezzato “Lucky”. Gautreaux mette tanta carne al fuoco ma dosa bene tutti gli ingredienti: la perdita (della vita e del lavoro), la sete di vendetta, il ricordo molesto, la tentazione dell’adulterio, la musica, il viaggio. Il rapimento di una bambina (Lily) all’interno dei grandi magazzini dove il protagonista lavora come sorvegliante, innesca la storia, lunghissima, con mille capovolgimenti di fronte e con diverse sottotrame. Ritrovare la bambina è per Sam una sfida difficile ma necessaria, non solo per essere riassunto nel negozio dove ha lavorato fino al sequestro della piccola ma anche per colmare quel vuoto esistenziale col quale fa i conti da troppi anni. La parabola di Sam è imprevedibile e pericolosa. L’Ambassador è uno dei battelli che solcano il Mississippi; crociere per turisti spendaccioni e amanti del ballo. È il luogo principale del romanzo, il luogo della rinascita di Sam. Qui lavorano i genitori di Lily e qui ora si guadagna da vivere anche il nostro Lucky, tra risse, sbornie, avvistamenti, e le vibrazioni di quella musica nuova che Toni Morrison ha romanzato meravigliosamente nel suo “Jazz”. L’atmosfera è magica, vigorosa, il miglior propellente di un racconto che altrove sarebbe stato solo il racconto di un rapimento, ma “Gli scomparsi” è molto di più.

Angelo Cennamo

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