
Scrivere il Grande Romanzo Americano è il sogno di ogni scrittore americano. Qualcuno ci riesce, altri inciampano, si rialzano, ci riprovano. Tra il 1996 e il 1997, Philip Roth e David Foster Wallace tornano in libreria con Pastorale americana e Infinite Jest, opere di spessore – in ogni senso – due capolavori, diversi per genere e contenuti, ma destinati entrambi a lasciare un segno nella letteratura contemporanea. Negli stessi mesi, Don DeLillo, novelist del Bronx ma di chiare origini italiane, pubblica un romanzo mondo che impressiona per la sua mole – circa 900 pagine – e per la profondità dei temi trattati, l’ambientazione suburbana nella quale si muovono i protagonisti, la dimensione umana delle trame: crude, spietate, malinconiche. Underworld è un libro labirintico, un mosaico di eventi e situazioni convulse che copre cinque decenni di storia in un sapiente intreccio di vicende nazionali e personali. Storie di violenza, di tradimenti, di rifiuti e scorie nucleari che diventano la gigantesca metafora di un degrado culturale e sentimentale senza fine. Una lunga sequenza di vicende che si dipanano su diversi piani temporali, in un andirivieni quasi schizofrenico che mescola passato e presente, nel quale non mancano riferimenti e apparizioni di personaggi famosi come Frank Sinatra, Truman Capote o il potente capo dell’Fbi J. Edgar Hoover. Il prologo del libro e’ il racconto dettagliato di un evento sportivo realmente accaduto che ha tenuto milioni di americani col fiato sospeso fino all’ultimo secondo: la sera del 3 ottobre del 1951, proprio mentre i russi fanno brillare una bomba atomica nel deserto del Kazakistan, nello stadio di New York si gioca una storica finale di baseball vinta dai NY Giants con uno spettacolare colpo fuori campo. Seguendo tutti i passaggi di mano di quella palla, DeLillo compone un puzzle minuzioso e articolato, riunendo protagonisti e comparse in una medesima rappresentazione dei fatti.
Il prologo ha il volto di Cotter, il ragazzino che marina la scuola e che scavalca i cancelli dello stadio per assistere alla storica partita. È lui “a contendere la palla a qualcun altro, usando tutta la forza delle mani. Sta tentando di rinsaldare la presa. Sta cercando di isolare la mano del rivale in modo da far leva sulla palla e liberarla dito per dito“. Cotter è il primo possessore dell’ambito cimelio, ed è anche il primo dei mille altri volti che si incontrano nella fiction intricata di DeLillo “Abbiamo pistole industriali che spruzzano vernici a olio, smalto, vernici epossidiche e via dicendo” autore prossimo allo stile argomentativo-pop-funk di Wallace – che il delillismo lo ha arricchito, se possibile, di humor e di poesia.
Underworld ha le tinte fosche di New York, con le sue periferie abbandonate, i suoi tramonti, il groviglio delle tangenziali, le sale biliardo nei seminterrati fumosi, le vernici dei graffiti, i materiali ferrosi dei convogli della metropolitana, il calore giallo e luminoso del deserto dell’Arizona che si sposa con l’azzurro di un cielo senza nuvole, il tanfo della spazzatura, tanta spazzatura, tonnellate di spazzatura, il catrame delle sigarette, il buio della perdizione. Il concentrato di una scrittura nuova, ipnotica e inarrivabile, da contemplare come un’opera d’arte esposta al Metropolitan. Underworld è l’America.
Angelo Cennamo