Di certi autori si dice che scrivano sempre lo stesso libro. Houllebecq è tra questi. Che i protagonisti dei romanzi di Don DeLillo, tutti, siano vinti da un profondo senso di impotenza, disincanto, ineluttabilità, e che nelle sue trame si aggiri sempre lo spettro della morte, è un dato “la morte è un’esperienza religiosa. Ma anche un fatto tecnico”, si legge in uno dei dialoghi più interessanti di Giocatori, romanzo del 1977, che fa da corollario ad altre narrazioni newyorchesi come Americana e Cosmopolis. Lyle, agente di cambio, e sua moglie Pammy sembrano una coppia felice, appagata “Che tra loro ci fosse un accordo era indubbio. Slealtà e desiderio. Non era necessario distinguerli. Il corpo di lui, quello di lei. Sesso, amore, monotonia, disprezzo”. Eppure i due sono annoiati dal lavoro e dalla vita coniugale. Pammy trascorre le sue giornate in un World Trade Center non ancora sfregiato dal fondamentalismo islamico, ma il terrorismo, più in generale l’idea dell’apocalisse, in questa storia ha un ruolo dominante. Pammy chiama gli ascensori delle Torri Gemelle “posti”; ogni parola ha un peso specifico e obbedisce ad un’estetica che nelle opere di DeLillo è necessaria quanto lo svolgimento del racconto. DeLillo è uno scrittore difficile, gelido, non genera empatia, ma il vigore della sua prosa minimal, i riflessi filosofici delle sue storie formano un’alchimia esplosiva. A pagina 80 il romanzo decolla definitivamente così come i destini differenti di Lyle e Pammy. Lui avvia una relazione con una segretaria misteriosa, un personaggio ambiguo legato ad una cellula terroristica; lei parte per il Maine con una coppia di omosessuali e diventa l’amante di uno dei due. Le trame si sdoppiano arricchendosi di segreti e nuovi motivi di tensione. Giocatori non è tra i romanzi migliori di DeLillo – alcune parti possono risultare eccessivamente piatte, il postmodernismo spesso deamplifica emozioni, slanci – ma è pur sempre un libro di DeLillo, ultimo gigante con McCarthy, Stephen King e Richard Ford, di una letteratura rimasta orfana di Philip Roth.
Angelo Cennamo