
A Sorano quella mattina soffiava un vento caldo da est, in direzione della raffineria. Onde di calore si sollevavano dall’asfalto appena rifatto e si propagavano lentamente verso il cielo d’agosto, disegnando sinuosità che distorcevano i portoni e le finestre di via Galileo Ferraris. Era domenica. Dalle tende di un ultimo piano le note di un tango argentino scivolavano sulla strada fino all’incrocio con la Statale, dove la pagina ingiallita di un giornale si separava da un’altra e rotolava lungo tutto il marciapiede prima di avvolgersi alla pensilina del tram. Al numero 122, dietro la saracinesca della sua libreria, Vittorio Brancaccio aveva smesso di pensare a se stesso e alle cose del mondo; tra i suoi piedi e il pavimento mancavano poco meno di due metri, lo spazio minimo per cancellare il disonore e una vita che si era immaginato diversa. Dovranno passare più di otto ore prima che Mario, il figlio prediletto, l’alleato fedele, l’impiegato esperto e devoto, lo veda penzolare dal soffitto vicino alla pala del ventilatore, tra gli scaffali della narrativa americana, la sua preferita, e quelli della saggistica.
Lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai. (Albert Camus)
Era cominciata più o meno così la storia di un’antica libreria in un luogo di confine nella periferia industriale di una grande città, e di una ricca e stimata famiglia napoletana, travolta da una insolita e beffarda sequela di misfatti: i Brancaccio.
Ora sono bambino e sto guardando la signora Anna seduta alla cassa mentre prende appunti su un registro a quadretti. Intorno a lei il rumore del silenzio odora di pulito e del profumo francese che si irradia dal suo collo esile e delicato fino all’ingresso del negozio. Un raggio di sole penetra il pulviscolo che orbita tra i nostri corpi poco distanti prima di posarsi sulle mattonelle verde petrolio del pavimento. L’orologio a muro dietro il bancone segna le cinque e un quarto.
Sig.ra, ecco le cinquecento lire che vi dovevo.
Grazie, tesoro. Mi sorride, allungando la mano bianca e sottile verso la mia, più piccola ed esitante. Poi ricomincia a scrivere mentre i miei occhi restano fissi sui suoi capelli lisci, raccolti sulla nuca da un fermaglio di madreperla.
Ti serve altro, tesoro? No, nient’altro. Grazie. Buona giornata.
Buona giornata anche a te. A presto.
Era da poco finita la guerra quando i fratelli Brancaccio tornarono a Sorano per riaprire la libreria di via Ferraris. I bombardamenti l’avevano risparmiata, ma i muri esterni presentavano delle crepe e la fuliggine della raffineria aveva annerito buona parte degli arredi. Entrando, Vittorio ebbe la sensazione di trovarsi in un cimitero. Chiazze di intonaco si erano staccate dalle pareti e avevano coperto la parte alta degli scaffali e il pavimento. Le ragnatele nere agli angoli del soffitto disegnavano triangoli perfetti. La puzza di zolfo e di detriti era insopportabile. Una trave del soffitto aveva ceduto fino ad incrinarsi pericolosamente in direzione del bancone nascosto sotto una coperta militare che lasciava intravedere solo i lati e la base massiccia. Del salottino di pelle dove i clienti più assidui amavano intrattenersi per conversare e leggere qualche pagina, neppure l’ombra. Qualcuno lo aveva trafugato o forse era stato portato via prima della guerra senza che lui lo ricordasse.
E’ questa la tomba di papà, pensò Vittorio mentre si aggirava prudente tra i resti del mobilio impolverato e le schegge di muratura. Prima di uscire volle dare un’occhiata ai suoi volumi preferiti, quelli della narrativa americana. Si sorprese nel vedere che Faulkner, Hemingway, Melville, Scott Fitzgerald erano rimasti al loro posto, nello stesso ordine alfabetico di sempre. Estrasse Moby Dick. Ci soffiò sopra e pianse.
Oltre il cognome i fratelli avevano ben poco in comune. Mario era alto e ossuto come la madre. Col volto scavato e gli occhi di uno strano colore, a metà tra il grigio e il verde. Vittorio aveva preso dal padre la corporatura robusta, la statura media e i capelli neri e ricci. Mario era un ragazzo pragmatico, laborioso e portato per i lavori manuali. Il suo mondo era popolato di pinze, giraviti e chiavi inglesi. Vittorio non era capace neppure di svitare la lampadina da un’abatjour; usava le mani solo per sfogliare i libri e per scrivere di tanto in tanto delle poesie che dedicava alla moglie. E’ nato per fare lo scrittore, dicevano di lui. Elegante e vanitoso, non si separava mai dal Borsalino e amava indossare i guanti sia d’estate che d’inverno. Vittorio era un vero dandy. Tra i suoi amici figuravano pittori, intellettuali e orchestrali del teatro San Carlo, la sua seconda casa dopo la libreria di via Ferraris. Lo chiamavano Vic per via dei suoi trascorsi in Provenza. Cosa ci era andato a fare?
Non fa per me, disse Mario quando sul tavolo della camera da pranzo stile Luigi XV suo fratello srotolò il progetto di ristrutturazione dei locali che aveva fatto preparare dall’architetto Ambrosio, suo vecchio compagno di liceo.
Di libri non ne so nulla, e poi a scuola faticavo parecchio per avere la sufficienza. Non ti ricordi?
Lo ricordo eccome, disse Vittorio.
Ma a quelli ci penserò io, tu dovrai occuparti di altro.
Cos’altro c’è in una libreria oltre i libri? Chiese Mario. Vittorio rise.
I registri, gli ordini, i conti, le fatture. Ti sembra poco?
Ah, ho capito: ti serve un contabile.
Anche, disse Vittorio, dandogli un buffetto sulla guancia.
In quel luogo Vittorio aveva trascorso gran parte della sua vita. Da bambino lui e il padre si divertivano a fare un gioco: dovevano ricordare più titoli e più autori possibili di ciascuno degli scaffali. Uno sforzo di memoria notevole al quale però il piccolo Vittorio era allenatissimo. Tanto che il più delle volte era proprio lui, Vittorio, a dire ai clienti se un volume era o meno disponibile nella libreria. Come quella volta che l’Avvocato Gorrasio chiese di acquistare l’Ulisse di Joyce.
Non lo abbiamo: l’ultima copia è stata venduta la scorsa settimana, disse lui tra lo stupore di tutti i presenti.
Non è possibile, intervenne il padre. Dovremmo avere ancora una copia di Joyce. Guarda meglio.
Ti confondi con “Gente di Dublino”, papà, disse Vittorio. Aveva ragione lui.
Appoggiata al vetro, Anna Serrelli guardava la strada sorseggiando il primo caffè della giornata.
Il traffico su via Ferraris scorreva lento come una processione, e il rumore dei tram di tanto in tanto copriva la radio che lei accendeva tutte le mattine dopo aver messo la macchinetta del caffè sul fornellino a gas nel retrobottega.
Il marciapiede di fronte brulicava di studenti e di donne con le borsa della spesa. La fiaccola sulla torre della raffineria, in fondo alla strada, era una bandiera gialla che sventolava sul cielo grigio e polveroso di Sorano. Anna guardò in direzione della pensilina dove un tram aveva appena rallentato. Scesero dei ragazzi con le cartelle sotto al braccio e una coppia di anziani, Lui non c’era. Strano, pensò, a quell’ora sarebbe dovuto essere già al suo posto, dietro il banco della libreria.
Raccolse i pensieri molesti nella tazzina vuota e si diresse nel retrobottega per darsi una sistemata ai capelli e rifarsi il trucco, ma il clic della porta la costrinse a voltarsi.
Scusate, ho avuto un contrattempo. Non sapeva che lei fosse da sola.
Ho appena fatto il caffè, disse Anna fissando i suoi occhi.
Lo prendi?
Si guardò in giro.
Don Vittorio non è arrivato?, chiese
Non ancora, rispose lei, stirandosi con le mani la gonna stretta sui fianchi.
Si chiamava Ottavio Molinari. Aveva 20 anni, l’età di suo figlio. Il più piccolo, Gianluca. Alto, smilzo, moro e dalla carnagione olivastra. Fresco di studi e con una buona parlantina. Anche per questo Vittorio lo aveva assunto come commesso part-time. Era un giovanotto simpatico, educato, onesto e volenteroso, avrebbero detto di lui un anno dopo, quando della sua vita si sarebbe persa ogni traccia.
Anna se ne innamorò il primo giorno. Dopo le presentazioni, il suo sguardo innocente e virile al tempo stesso le si era posato su uno spicchio di seno che la morbida camicetta color panna lasciava intravedere.
Poi gli occhi guardarono gli altri occhi e i due si ritrovarono in silenzio, come complici di qualcosa che non era ancora accaduto.
“L’amore, pensava, doveva manifestarsi di colpo, esplosione di lampi e fulmini, uragano di cieli che si abbatte sulla vita, la sconvolge, strappa via ogni resistenza come uno sciame di foglie e risucchia nell’abisso l’intiero cuore” (Gustave Flaubert)
Ho fatto un sogno. Eravamo sulla moto, io e te, fermi sotto la prima torre a guardare la fiamma in alto che improvvisamente cambiava colore. Prima viola, poi rossa, di un rosso intenso, poi blu elettrico, poi nera. Era diventata densa, molto densa, pastosa. Veniva giù come la lava del Vesuvio. Il magma scendeva verso di noi inghiottendo ogni cosa. Intorno alla raffineria era un deserto sconfinato, giallo, abbagliante. Faceva molto caldo, non si respirava, gli occhi mi bruciavano. Grondavamo di sudore. Il sellino era diventato rovente e il parabrezza stava cominciando a sciogliersi e ad accartocciarsi su se stesso. Volevo ripartire ma la moto era bloccata. Dai! Forza! Gridavi. Le ruote cominciavano a sprofondare nella sabbia così come i nostri corpi ustionati. Ciao
Angelo Cennamo