IL CASO ALASKA SANDERS – Joël Dicker

Non date retta a chi vi dice che Joël Dicker non è un bravo scrittore. La letteratura è fatta di tante cose, è vero, ma nessuna di queste viene prima dell’intrattenimento: se non intrattiene, un romanzo ha fallito. Di cosa parliamo quando parliamo di Joël Dicker, bestsellerista svizzero tornato in libreria con “Il caso Alaska Sanders” – duecentomila copie vendute in meno di una settimana. Parliamo di un autore capace di intercettare i gusti di un lettorato ampio, soprattutto giovanile, coniugandone la parte alta con quella più popolare. Dicker è uno scrittore pop, inutile storcere il naso. Nei suoi romanzi non ci sono astuzie né acrobazie linguistiche, la sua prosa è architettura più che “decorazione di interni”. Dicker non si scrive addosso, non si arrampica sulla grammatica dei colti per esibire latinismi o citazioni shakespeariane; va dritto al punto: storia-personaggi-ambiente. Dicker è l’Ikea della narrativa: in quello che scrive conta prima di tutto la funzione, poi lo stile. Il New England che usa da sfondo delle trame è perfino più vero del New England reale perché lui – scrittore svizzero – è un amplificatore dell’America. Ogni cosa nei libri di Dicker è esageratamente, maniacalmente americano. “Il caso Alaska Sanders” contiene un’infinità di stereotipi sulla cultura yankee, ma ciò che sorprende è che non si tratta di clichè finti: tutto è assolutamente e inspiegabilmente credibile. Uuuh! I romanzi di Dicker sono dei bei posti, disse una volta Sandro Veronesi. Vero. Entrarci è un po’ come andare al cinema o stare sul divano a vedere una fiction tv. Non scrive romanzi, scrive sceneggiature, dicono i suoi detrattori, ignorando che la letteratura si nutre di altri linguaggi. E meno male. 

Non mi addentrerò nell’ingarbugliatissimo meccanismo giallo, dico solo che fino alle ultimissime battute del romanzo il caso di Alaska Sanders rimane aperto, anzi apertissimo, e la giostra dei suoi personaggi non smette mai di girare vorticosamente, prima in un verso poi in un altro, tenendo il lettore inchiodato alla storia come nella tradizione dei migliori page turner.  

Dicker muove le pedine con cura e precisione – date, eventi, circostanze – su diversi piani temporali e non fa mancare riferimenti anche agli altri due romanzi della semi-serie di Goldman: “La verità sul caso Harry Quebert” e “Il libro dei Baltimore”. È necessario aver conosciuto le trame precedenti per comprendere appieno il nuovo romanzo? No, ma fossi in voi inizierei da lì. “Il caso Alaska Sanders” è una storia di ricatti e di errori giudiziari. Il doppio fondo dello scrittore che indaga per scrivere il suo libro è una traccia costante, la trovata migliore del mood Dicker, e il risultato appare magnifico: tra “Twin Peaks” e “Dio di illusioni di Donna Tartt”. Bello davvero.

Angelo Cennamo  

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LA CASA DI MARZAPANE – Jennifer Egan

Bix Bouton, guru della tecnologia, è il fondatore di Mandala, l’azienda informatica che nel 2016 lancia “Riprenditi l’Inconscio”, un progetto rivoluzionario che prevede l’esternalizzazione delle coscienze. La folgorazione a Bouton è arrivata nel corso di una discussione casuale, poi da un libro intitolato “Modelli dell’affinità”, pubblicato da una ricercatrice fuggita in sudamerica per studiare la predicibilità delle inclinazioni umane. È questa la traccia intorno alla quale ruota la storia o le storie di “The Candy House” – “La casa di marzapane” – l’ultimo romanzo di Jennifer Egan, premio Pulitzer nel 2011 con “Il tempo è un bastardo”, che del libro appena uscito è una specie di prequel.

L’opera della Egan, a metà tra realismo e fantascienza, si colloca nel grande filone internettiano degli ultimi anni che va da “Il cerchio” di Dave Eggers al recente “Nessuno ne parla” di Patricia Lockwood, passando per “Il libro dei numeri” del neo-Pulitzer Joshua Cohen.

Con l’idea geniale, anche narrativamente parlando, di esternalizzare le coscienze e di condividerle attraverso un processo collettivo, Jennifer Egan apre un grosso “file” sul senso e il significato della memoria: l’America, che ha costruito il proprio successo sulla rimozione del passato, sembra dirci l’autrice, si condanna ora alla rimozione dell’oblio. Il download programmato da Bix Bouton, infatti, consente a ciascuno non solo di ritrovare vecchi ricordi perduti ma di guardare anche nella vita degli altri. Il tema, evidentemente di ampio spettro, è vicino a quello di un precedente capolavoro della letteratura americana: “It” di Stephen King, nel quale una banda di ragazzini sfigati dimenticherà ventotto anni più tardi di aver combattuto contro il mostro che possiede sotto varie forme la città di Derry.

Ma “Riprenditi l’Inconscio” ha a che vedere anche con un’altra ossessione dei nostri tempi: l’abuso dei social. La trovata di Bouton di fatto decreta la morte/superamento di Facebook, Twitter, Instagram per introdurre l’umanità ad una consapevolezza forse più autentica. L’operazione messa a punto dal protagonista della storia, e di riflesso dalla sua autrice, è sicuramente geniale. 

L’architettura e la polifonia del romanzo sono le stesse del già citato “Il tempo è un bastardo”, del quale ritroviamo anche alcuni dei personaggi: la cleptomane Sasha, oggi scultrice avanguardista nel deserto della California, e il discografico Bennie Salazar. È un cerchio che si chiude nel migliore dei modi quello della Egan, dopo il passo falso di “Scatola nera” e il non esaltante “Manatthan beach”. Insomma “La casa di marzapane”, che era stato annunciato tra i libri più attesi di questi anni, non ha deluso le aspettative, e nonostante qualche imperfezione legata ad eccessi di labirintismo o smarginature, soprattutto nelle parti ergodiche (le più ostiche), colpisce per la modernità-postmodernità dei contenuti, le intuizioni e le acrobazie linguistiche della Egan, l’armonia e la perfezione degli incastri. 

Angelo Cennamo

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VERSO NORD – Willy Vlautin

C’è una serialità sotto traccia che lega i romanzi di Willy Vlautin – scrittore e musicista del Nevada, dalla prosa minimalista, cristallina, che lo fa somigliare ad autori come Chris Offutt e Kent Haruf – la rappresentazione di un’America lontana dai bagliori del successo, dalle conquiste civili, dal progresso tecnologico. L’umanità sconfitta e fuori dai radar di Vlautin non è diversa dai personaggi delle storie disturbanti di Richard Yates: psicopatici, alcolizzati, frustrati, figli abbandonati, disoccupati, spesso in fuga o alla ricerca di un riscatto, come i fratelli Flannigan di “Motel Life” o il Leroy Kervin di “The Free”. “Verso Nord” non fa eccezione se non nella voce del protagonista, che stavolta è una giovane donna. Il romanzo risale al 2008, il secondo di Vlautin, ma Jimenez (editore attento alla fenomenologia d’oltreoceano) lo ha riportato in libreria, aggiungendo un altro tassello, il quinto, alla bibliografia di questo autore di talento ancora poco conosciuto in Italia.

Allison ha vent’anni, un padre finito chissà dove, una madre annichilita, una sorella più giovane. Quando scopre di essere rimasta incinta del suo fidanzato, sbandato come lei, alcolizzato e violento, la ragazza decide di fuggire da Las Vegas per cercare migliore fortuna a Reno. Se il viaggio è il fulcro del romanzo – “Più a Nord vai e meglio è” le dice Jimmy, il fidanzato manesco – la fragilità della ragazza ne è il corollario. Allison è sempre insicura, senza alcuna stima di sé, con lo sguardo rivolto al passato e con uno strano disturbo della personalità: nei momenti di maggiore inquietudine intrattiene lunghe “conversazioni” con Paul Newman. Una vita come tante, spesa tra bar, sale Bingo, strade statali, discount, bettole, parcheggi di camionisti, lavori precari. È questa l’America disperata e tradita di Willy Vlautin, terra di sogni che non si avverano. 

Angelo Cennamo

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L’ECLISSE DI LAKEN COTTLE – Tiffany McDaniel

Nel suo ultimo romanzo, DeLillo immagina che il mondo si fermi per via di un blackout tecnologico, l’umanità de “Il silenzio” è sconnessa da internet e da se stessa. Il buio di Tiffany McDaniel, giovane scrittrice dell’Ohio – ah questo Midwest! – è buio vero, è assenza di luce, un lento spegnimento del sole che ingoia tutto e tutti: persone, animali, continenti.

“L’eclisse di Laken Cottle” arriva in Italia sull’onda del successo dei libri precedenti “L’estate che sciolse ogni cosa” e “Il caos da cui veniamo”, sempre con Blue Atlantide. Laken Cottle ne è il protagonista. Mentre la terra si oscura, Laken cerca disperatamente di tornare a casa dalla propria famiglia. Il suo viaggio è il viaggio di Ulisse, la metafora cioè della continua ricerca di una redenzione forse impossibile, di un’empancipazione dall’errore e dal malvagio che permea ognuno di noi. Il buio che soffoca la terra è come l’eclissi della mente che nasconde la verità, qualcuno spiegherà a Laken nelle ultime scene del suo peregrinare. E allora non resta che annullarsi, rimuovere sovrastrutture, false convinzioni, paure, pregiudizi, per ritrovare la giusta rotta per Itaca. 

Dicevo prima del Midwest, la landa piatta e ventosa de “Il re pallido” di Foster Wallace o dei più recenti “Shotgun lovesongs” di Nickolas Butler e “Ohio” di Stephen Markley, ma anche terra feconda di romanzieri e di storie in cui perdersi come questa.

C’è sempre qualcosa di mistico nei libri di Tiffany McDaniel; “L’eclisse di Laken Cottle” è una fiaba dark sul senso del divenire e sul destino che ci attende. Tiffany McDaniel si fa tentare dal gotico ma vola più in alto, è un po’ Borges un po’ Shirley Jackson; quanta poesia e quanta magia nella sua prosa briosa, nei suoi doppifondi. La luce, le ombre, l’incanto.

Angelo Cennamo

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JOSHUA COHEN VINCE IL PULITZER

Poco prima che venisse annunciato il vincitore del premio Pulitzer per la fiction del 2022, avrei scommesso un paio di euro, non di più – non mi piace scommettere – sull’affermazione di “Crossroads” di Jonathan Franzen o di “Smarrimento” di Richard Powers. Più su Franzen. Perché, perché quella di Franzen mi era parsa una bellissima storia familiare, degna o quasi de “Le correzioni”, il suo libro migliore, premiato nel 2001 col National Book Award. E poi perché Franzen il Pulitzer non l’ha mai vinto e questa poteva essere una buona occasione, forse irripetibile, per coronare una carriera più che dignitosa. A vincere è stato invece “The Netanyahus” di Joshua Cohen, romanzo che sarà pubblicato in Italia da Codice nei primi di settembre del 2022, con tanti saluti a “Crossroads” e a “Smarrimento” che non sono entrati neppure nella terzina dei finalisti.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di Joshua Cohen. Di lui molti di voi ricorderanno quel librone verde uscito qualche anno fa, alto quanto il palmo di una mano, con una strana numerazione delle pagine – “Il libro dei numeri” – ambientato nel mondo di internet, i cui protagonisti hanno lo stesso nome dell’autore: un gioco di storie concentriche e inquietanti sull’identità e i pericoli del web. Opera complicatissima, oscura ma al tempo stesso geniale. Cohen è cresciuto ad Atlantic City, nel New Jersey, e nel 2017 fu giudicato da “Granta” tra i più interessanti scrittori americani. Quarant’anni, faccia da nerd, con una vaga somiglianza a David Foster Wallace, ha al suo attivo sei romanzi – non tutti pubblicati in Italia – e diverse raccolte di racconti, saggi, alcuni apparsi sul New Yorker e altre riviste importanti degli Stati Uniti. “The Netanyahus” è una strana commedia che mescola verità e finzione. Il libro prende spunto da un episodio raccontato all’autore dal critico Harold Bloom. A suo tempo Bloom si era trovato a fare da chaperon a Benzion Netanyahu in visita alla Cornell University dove quest’ultimo, specializzato in storia ebraica del Medioevo, insegnerà tra il 1971 e il 1975.

“A mordant, linguistically deft historical novel about the ambiguities of the Jewish-American experience, presenting ideas and disputes as volatile as its tightly-wound plot”.

Questa la motivazione con la quale la giuria ha attribuito l’ambito riconoscimento. Ma del nuovo libro di Cohen avremo modo di riparlarne prossimamente, in occasione della pubblicazione italiana, e in uno del suo autore, scrittore sicuramente fuori dall’ordinario, con Ben Lerner e il giovanissimo Matthew Baker tra le voci più significative del nuovo avanguardismo americano. 

Angelo Cennamo

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CITTÀ IN FIAMME – Don Winslow

“Oh, allora tutta Troia mi sembrò sprofondare tra le fiamme…”. 

Si apre con una citazione dell’Eneide di Virgilio “Città in fiamme”, l’ultimo romanzo di Don Winslow, il primo di una nuova trilogia – “Città di sogni” e “Città in cenere” saranno le prossime due uscite – ispirata all’epica della letteratura greca e latina: Iliade, Eneide, Odissea. Trilogia già tutta scritta perché Winslow ha annunciato che lascerà la letteratura per dedicarsi a un nuovo progetto, non meno ambizioso della narrativa: impedire a Donald Trump di ritornare alla Casa Bianca. 

Il romanzo è ambientato a Providence, nel Rhode Island, il più piccolo degli Stati Uniti, un fazzoletto di terra affacciato sull’Atlantico, tra il Connecticut e il Massachusetts, a pochi passi dal villaggio dove Winslow è cresciuto. Providence è abitata perlopiù da irlandesi e italiani, ci sono arrivati tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo; di fatto l’hanno colonizzata con i loro usi, tanti figli, il malaffare, la religione cattolica “I vecchi yankee odiavano gli snelli irlandesi e gli italiani unti…venuti a rovinare la loro bella città protestante con candele e santi cattolici…”. Nella fiction gli irlandesi sono i Murphy e i Ryan; gli italiani i Moretti, Sal Antonucci e soprattutto Pasco Ferri, il vertice di una piramide criminale che per via di una donna (Pam) si consumerà in una guerra feroce, sanguinosa, imprevedibile, e in una spirale di vendette, accordi traditi, alleanze precarie minate dal sospetto e dal tentativo di cambiare assetti, emanciparsi da ruoli marginali. I protagonisti sono numerosi ma è Danny Ryan che Winslow pone all’attenzione dei suoi lettori. Danny è la pecora nera della famiglia; marinaio, esattore per i clan, rapinatore di camion, è arrivato a sposare Terri, la figlia del boss John Muprhy ma deve accontentarsi delle briciole. Il canovaccio è collaudato, “Città in fiamme” è un crime in piena regola: i dialoghi sono perfetti come gli stacchi tra una scena e l’altra e i profili di ognuno dei personaggi. La storia di Madeleine è un romanzo dentro il romanzo: se Pam somiglia a Elena di Troia, la madre di Danny è una specie di Filumena Marturano che osserva e vigila sulla vita di Danny da lontano. 

Il molo di “Frankie Machine”, il mood irlandese di “Corruzione”, le spiagge de “La pattuglia dell’alba”, i clan della trilogia del “Cartello”: non farò classifiche ma in questo libro c’è il meglio di Don Winslow…I won’t rank but the best of Don Winslow is in these pages.

Angelo Cennamo

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LA FORTUNA – Valeria Parrella

Pompei, 79 d.C.. Lucio ha solo diciassette anni quando dalla flotta di Plinio il Vecchio assiste al “prodigio” che fa tremare la terra e apparire per la prima volta il Vesuvio come un vulcano infuocato governato da una forza brutale, spietata, che in poche ore cancella ogni traccia della città e della sua infanzia. “Non era una tromba d’aria, non era un incendio”. 

Due anni dopo “Quel tipo di donna”, Valeria Parrella torna in libreria con un nuovo romanzo, breve come i precedenti ma completamente diverso per genere, trama, stile, personaggi. Ne “La Fortuna” – edito da Feltrinelli – le donne della Napoli contemporanea, per una volta, lasciano spazio ad un giovane uomo vissuto duemila anni fa, testimone, suo malgrado, di un evento destinato a segnare il tempo e la storia del mondo. 

Lucio è il figlio unico di una famiglia pompeiana benestante; vede da un solo occhio, ma “Un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente”. Dalla villa di Plinio arrivano le prime immagini di quell’esplosione indecifrabile. Nello stesso tragico frangente Lucio realizza il suo sogno: gli viene affidato il comando di una nave. Dirigersi verso la costa penetrando la pioggia di fuoco e cenere che oscura tutto il golfo di Napoli è un’operazione rischiosa, ma “Ci sono solo due modi di vivere: uno è avere sempre paura”. Quando il nocchiere de “La Fortuna” – questo è il nome della nave – grida di tornare indietro, Lucio capisce che l’unico modo per superare la paura è attraversarla. La navigazione breve e disperata tra le onde nere come la morte è un viaggio a ritroso nei ricordi: i giochi, le recite, le voci dei bottegai, la scoperta del sesso al lupanare, gli studi a Roma con Quintiliano, l’incontro con Plinio. 

“La Fortuna” è un romanzo sul senso del coraggio, l’accettazione e il superamento delle proprie fragilità; ma anche un libro sull’importanza della memoria, una memoria doppia, quella storica-collettiva che ci riguarda tutti, quella familiare dell’autrice che nei luoghi del racconto ha ritrovato una parte di sé. Tra ricostruzione storica e fiction, Valeria Parrella ci regala un racconto denso di emozioni, epico, scritto in una lingua per lei nuova ma perfettamente aderente alle vicende narrate e alla voce del giovane protagonista.  

Angelo Cennamo

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LA CALDA ESTATE DEL COMMISSARIO CASABLANCA – Paolo Maggioni

Commissario Giuliano Casablanca, detto Ginko. Dalla Omicidi lo hanno imboscato all’Ufficio Passaporti…ma non per molto. Un africano tenta la fuga in Svizzera: muore folgorato sul tetto del treno. Afa, camicie sudate, puzza di piscio e di kebab tra i palazzoni della periferia milanese, il mondo di sotto, l’universo parallelo a quello della mondanità e dell’opulenza. Anche Ginko, come tutti i commissari e i vicequestori che lo hanno preceduto, ha il suo cast di poliziotti simpatici e sgangherati: l’obeso Panettone, il cineromano Zohng, lo sfaticato Minimo Sindacale.

Per un giallista la difficoltà più grande non è tanto saper scrivere, ma ritagliarsi uno spazio credibile, nuovo. In Italia ce n’è davvero poco. Paolo Maggioni lo ha trovato. Maggioni sa intrattenere, ha ritmo, diverte, fa pensare. La sua Milano marginale ricorda quella di “Torto marcio”, il romanzo della svolta di Alessandro Robecchi, lo scrittore che con Massimo Carlotto racconta il Nord Italia meglio di qualunque altro. Maggioni si muove in quel perimetro: un po’ Bisio un po’ Robecchi. Provaci ancora, Paolo.

Angelo Cennamo

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