LA TRILOGIA DELLA PIANURA di Kent Haruf

 

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BENEDIZIONE

Dopo aver letto romanzi come Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo – la cd Trilogia della pianura – non possiamo fare a meno di chiederci perche’ uno scrittore come Kent Haruf in Italia sia così poco conosciuto. E perché a pubblicare i suoi libri sia una minuscola e arrembante casa editrice milanese, la Enneenneeditore, anziché un colosso dell’editoria come Rizzoli o Mondadori. Di Haruf si fa fatica a trovare anche pochi cenni biografici. Di lui sappiamo che è originario di Pueblo, nel Colorado, che è morto due anni fa, e che prima di approdare alla narrativa ha fatto svariati mestieri: l’infermiere, il carpentiere, il bibliotecario.

Benedizione, uscito per la prima volta in America nel 2013, racconta l’ultimo mese di vita di un uomo al quale è stato diagnosticato un cancro. Dad Lewis, questo il nome del protagonista, vive con la moglie Mary nella sua vecchia casa di campagna nella periferia di Holt, una cittadina immaginaria del Colorado – Stato situato nella zona centrale degli Usa, dal paesaggio mozzafiato, dominato da aspre catene montuose e da pianure sconfinate che d’estate profumano di mais. L’America contadina, romantica, nazionalista e puritana dei coniugi Lewis è un piccolo mondo antico fatto di valori semplici e indissolubili dove le parole computer e smartphone sono bandite dal racconto, e perfino l’adulterio può diventare causa di licenziamento. Intorno alla  figura del vecchio Dad e al suo capezzale ruotano diversi personaggi, mai gregari ma cooprotagonisti di una storia lenta e avvolgente che sa intrattenere e commuovere al tempo stesso: la figlia Lorraine, segnata da una precedente tragedia familiare e venuta da Denver per assistere i genitori nei giorni più dolorosi; il reverendo Lyle, malvisto dalla comunità di Holt perché predica la tolleranza negli anni in cui il suo Paese è in guerra contro l’integralismo islamico; la vicina di casa Berta May, che vive in compagnia della nipotina Alice rimasta orfana della madre; le signore Johnson: Willa e sua figlia Alene “donna di mezza età sola e isolata, l’insegnante senza marito che passa la vita in mezzo ai figli degli altri, una che un tempo prima aveva avuto un breve, eccitante momento di passione ma poi aveva fatto marcia indietro”; Frank Lewis, il figlio omosessuale di Dad e Mary, scappato di casa dopo il diploma e mai più tornato.

Benedizione è un romanzo corale in cui le vite dei personaggi si intrecciano le une alle altre in un afflato di valori e di sentimenti autentici che resistono al logorio della modernità. Un libro ricco di poesia e di suggestioni country che affronta i temi delle relazioni umane, della malattia e della ricerca della redenzione con molto garbo e con delicatezza. Il Colorado di Kent Haruf somiglia molto al Maine di Elizabeth Strout, così come la contea di Holt ci ricorda Crosby, il villaggio dove la scrittrice di Portland ha ambientato i racconti di Olive Kitteridge. Stesse atmosfere che evocano un’America lontana  dai grattacieli e dal frastuono delle metropoli; un Paese rurale, attraversato da mandrie di bovini al pascolo e solcato da strade polverose di terra battuta. In una delle scene più pittoresche del romanzo, Lorraine e le signore Johnson, per trovare refrigerio dalla calura estiva, si denudano e fanno il bagno nell’abbeveratoio del bestiame, tra le mucche che riposano, il fango e il letame. Pagine indimenticabili di una letteratura sobria e minimalista che merita di essere riscoperta e approfondita.

 

CANTO DELLA PIANURA                                                      

Con la sua trilogia della pianura Kent Haruf fa rivivere Hemingway, ha scritto qualcuno. Può sembrare un azzardo ma è proprio così. Ad Haruf mancherà forse il guizzo del fuoriclasse, la citazione dotta, la frase ad effetto che non si dimentica, d’accordo, ma dal grande maestro della letteratura americana lo scrittore di Pueblo ha ereditato lo stile asciutto, la prosa minimalista e soprattutto una vocazione paesaggistica che ignora la solita America dei grattacieli e dei ghetti metropolitani. Con Haruf si viaggia su strade sterrate, solcate da trattori e da mandrie di bovini. Gli altopiani del Colorado prima di tutto. Poi i sentimenti, veri, autentici, profondi, senza sovrastrutture mentali, tic e nevrosi. Canto della pianura e’ il secondo capitolo di un trittico emozionante e ricco di poesia iniziato con Benedizione e concluso con Crepuscolo. Una raccolta di storie indipendenti – divise in paragrafi brevi e alternati – che però si intrecciano l’una all’altra formando una sola trama. I protagonisti di queste storie sono gli abitanti della cittadina immaginaria di Holt. Uomini semplici che si svegliano all’alba per spaccarsi la schiena nei campi o negli allevamenti di bestiame, e che sanno divertirsi con poco. Vite insignificanti ma indispensabili per la voce stupenda, quieta e luminosa con cui Haruf racconta i suoi luoghi  leggiamo nella quarta di copertina.

Pochi i personaggi, tra i quali spiccano Tom Guthrie, un insegnante di storia sposato con una donna depressa che scappa dai figli e dal marito per ritrovare se stessa, e gli inseparabili fratelli McPheron, due anziani  allevatori che ospitano e accudiscono una minorenne incinta cacciata di casa. La storia dei McPheron è una perla preziosa per l’originalità della trama e lo spessore letterario dei protagonisti. Raymond ed Harold sono due cowboy solitari che non si sono mai sposati e non hanno mai avuto a che fare con una donna. La comparsa improvvisa di Victoria Roubideaux  porterà nelle loro vite una ventata di freschezza e un entusiasmo prima d’allora sconosciuto. Pagine indimenticabili di grande narrativa che evocano l’epopea del vecchio west e raccontano un’umanità non ancora perduta.

CREPUSCOLO

Le storie della contea di Holt, della sua campagna piatta e sconfinata, ci conducono nelle viscere dell’America più autentica  e ci raccontano un’umanità di altri tempi, semplice, genuina, lontana dall’apatia e dalle nevrosi delle metropoli. Con Crepuscolo si conclude la trilogia della pianura, la saga che Kent Haruf ha ambientato nel suo Colorado, terra di mandriani e di gente umile, legata alle sane tradizioni contadine che si tramandano di padre in figlio. Nell’ultimo tratto di questo viaggio lento e meravigliosamente ricco di poesia ritroviamo alcuni dei protagonisti dei due precedenti romanzi della trilogia ‎Benedizione e Canto della pianura : Tom Guthrie, l’insegnante cow boy con i suoi bambini Ike e Bobby, Victoria Roubideaux, la ragazza madre ora alle prese con gli studi universitari, ma soprattutto i fratelli McPheron, i due anziani allevatori che ospitano Victoria nella loro fattoria e che attraverso di lei scoprono l’universo femminile, fino a quel momento sconosciuto. In Crepuscolo la storia dei McPheron prende corpo e diventa il centro del romanzo, probabilmente il migliore della trilogia. L’episodio del tragico duello tra Harold e uno dei suoi tori è un capolavoro di rara bellezza che ci riporta alle pagine più avventurose ed intense di Hemingway, e rivelano la cifra del talento di Haruf, scrittore capace di grandi slanci emotivi e prodigo di immaginazione. Le vicende dei McPheron e di Victoria si intrecciano ad altre storie non meno suggestive e interessanti, come quella di DJ, il ragazzino di undici anni che vive con il nonno malato di polmonite e della povera famiglia Wallace, costretta ad abitare  in una roulotte sgangherata e a subire l’arroganza di un parente alcolizzato e violento. Crepuscolo è un romanzo sul confronto generazionale, ambientato in una sperduta contea del Colorado dove le persone anziane non vivono ai margini della società ma sono rappresentate come una risorsa, un punto di riferimento per i più giovani. E’ questo uno dei messaggi della trilogia country di Haruf:  Holt è un paese per vecchi.

Angelo Cennamo

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LA TRAMA DEL MATRIMONIO – Jeffrey Eugenides

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Negli ultimi giorni di giugno del 2006, per le stradine di Capri si aggiravano tre giovani scrittori americani ospiti di un noto festival letterario. Di quella indimenticabile presenza sull’isola circola in rete una foto destinata a rimanere nella storia. I tre, apparentemente frastornati dal jet lag, sono posizionati l’uno di fianco all’altro, in tenuta casual, appoggiati alla ringhiera della piazzetta, confusi in mezzo agli altri turisti inconsapevoli. Jeffrey Eugenides, Jontahan Franzen e David Foster Wallace, quell’estate del 2006 erano a 40 minuti di aliscafo da casa mia: dovevo raggiungerli. Franzen, allora, aveva già pubblicato il suo capolavoro Le Correzioni e si apprestava a scrivere il quarto romanzo Libertà. Eugenides era reduce dal grande successo di Middlesex, che nel 2003 gli era valso il premio Pulitzer per la narrativa. David Foster Wallace, dopo la fatica di Infinity Jest – romanzo impressionante anche per numero di pagine, circa 1.300  – di lì a poco sarebbe ripiombato nel tunnel della depressione e morto suicida a soli 46 anni.

Non sappiamo quanto quella trasferta napoletana abbia ispirato Jeffrey Eugenides nella composizione de La trama del matrimonio, romanzo pubblicato nel 2011 e arrivato finalista lo stesso anno al National Book Critics Circle Award. E’ facile supporre però che proprio quella vacanza trascorsa in sua compagnia abbia fatto venire all’autore l’idea di ricalcare la figura di uno dei protagonisti della storia “Leonard Bankhead” su quella dello sfortunato amico David. La trama del matrimonio è il nome del seminario che una studentessa di lettere, Madeleine Hanna, ha deciso di frequentare prima di dedicarsi alla tesi di laurea. Madeleine si è iscritta alla facoltà di Lettere per la più banale delle ragioni: perché ama leggere. I suoi autori preferiti sono: Jane Austen, George Eliot e Henry James. Le letture di Madeleine e dei suoi compagni di corso sono una parte essenziale del romanzo, una presenza quasi ingombrante, ossessiva. Al punto che a Eugenides verrebbe la voglia di dire: d’accordo, Jeffrey, sei un vero intellettuale, hai una biblioteca fornitissima, ora però lasciaci leggere il tuo libro in santa pace. La trama del romanzo è il più classico dei triangoli: Mitchell  – giovane e goffo laureando in storia delle religioni – si innamora di Madeleine, la quale però si invaghisce del più affascinante Leonard, lo studente con la bandana che lotta di nascosto contro la depressione. Mitchell non si arrende, ma la grande occasione per fare colpo sulla ragazza, la sciupa, forse per un eccesso di timidezza. Passano gli anni, Madeleine dovrà fare i conti con le turbe psichiche di Leonard e con i suoi continui ricoveri in ospedale. Ma lo ama e decide di sposarlo anche contro il volere della famiglia. Mitchell nel frattempo è in giro per il mondo alla ricerca di una nuova dimensione spirituale. Il pensiero di Madeleine continua a tormentarlo. Non sa del matrimonio. Un giorno, per una strana coincidenza, i tre si ritroveranno ad una festa, con conseguenze imprevedibili. “Non esiste la felicità nell’amore tranne che alla fine di un romanzo inglese” diceva Trollope.

La trama del matrimonio è un bel romanzo con qualche imperfezione; mancano il vigore e le suggestioni di Middelsex – il libro che lo ha preceduto – ma scrivere due capolavori di fila sarebbe stato complicato anche per un fuoriclasse come Eugenides.

Angelo Cennamo

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ZUCKERMAN SCATENATO – Philip Roth

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Nei suoi libri, Philip Roth si diverte spesso a simulare e dissimulare le storie che racconta, a invertire i ruoli dei protagonisti, a mascherare la verità e nel contempo presentare come reali fatti che non sono mai accaduti. Lo fa per parlare di se stesso sotto mentite spoglie, per filtrare o schermire la propria biografia, evitando così di darla in pasto al pubblico nella sua nuda realtà. L’invenzione di Nathan Zuckerman, il suo alter ego, è l’espediente letterario attraverso il quale Roth conduce questo gioco abile, sottile, beffardo, con i lettori, alimentando percorsi e intrecci narrativi sempre originali, virtuosi e sorprendenti. Zuckerman è Roth, ma fate attenzione: non sempre Roth è Zuckerman. E quando sembra che lo sia, non è detto che lo sia per davvero. Un oscuro gioco di specchi che ritroviamo anche in altri romanzi.

Zuckerman scatenato è un libro freudiano nel quale ci sembra di scorgere da una diversa angolazione il Philip Roth di Lamento di Portnoy, il primo grande successo dell’autore di Newark, il romanzo che lo ha consacrato in America e nel mondo‎, uscito negli stessi anni in cui è ambientata la storia di Nathan Zuckerman. Nella finzione del racconto – e non solo di questo racconto – il romanzo è intitolato Carnovsky, ed è un libro che dissacra la tradizione ebraica, al punto da provocare la morte del padre di Nathan e da attirare sul giovane autore molte antipatie oltre che una grande popolarità e altissimi guadagni. Zuckerman è assediato, tormentato dai fan che gli chiedono pareri, suggerimenti; ha tutto quello che si può desiderare dalla vita, ma il successo che lo ha inaspettatamente travolto finirà prima o poi per isolarlo dagli affetti più cari e trasformarlo, proprio per i contenuti eretici del libro, in un possibile bersaglio.  

Zuckerman scatenato non è tra i capolavori di Philip Roth, ma è un romanzo divertente, graffiante, che appartiene al cosiddetto periodo del “figlio”, ovvero a quel primo gruppo di romanzi nei quali Roth si ribella alla famiglia, ai valori puritani della borghesia americana, e si scontra con la tradizione ebraica. ‎Patrimonio, uscito qualche anno dopo, ‎segnerà l’inizio di una nuova stagione creativa, sicuramente la più feconda della sua vasta produzione letteraria. Sono questi gli anni in cui Roth indosserà, almeno nella letteratura, i panni del padre, per scrivere i suoi romanzi migliori: Il Teatro di Sabbath, La Macchia Umana e Pastorale Americana. 

Angelo Cennamo  ‎

 

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LE FANTASTICHE AVVENTURE DI KAVALIER E CLAY – Michael Chabon

Kavalier-and-Clay-CoverApri un libro di Michael Chabon e ti ritrovi al cinema a vedere l’America: lui, lei, gli altri, la metropoli, i suoni, i colori, parole che scorrono come immagini su uno schermo che somiglia alla pagina di un giornale a fumetti. Quella dei fumetti è un’arte che Chabon conosce alla perfezione, come la magia, l’illusionismo, il mondo dello showbusiness. Le Fantastiche avventure di Kavalier e Clay  è un romanzo che vale il premio Pulitzer per la narrativa. Siamo nel 2001, Jonathan Franzen pubblica Le correzioni e Joyce Carol Oates Blonde  –  sui cieli d’America quell’anno dev’esserci stata una fortunata congiunzione astrale.

Il giovane ritrattista e aspirante mago Josef Kavalier scappa da Praga, occupata dai nazisti, per raggiungere suo cugino Sammy a New York. La fuga cinematografica di Josef ricorda un famoso numero di Henry Houdini, idolo di Josef e di tanti ragazzi della sua generazione. L’approdo a New York è la sua salvezza, l’agognata libertà. Non solo. I due cugini  diventano in breve tempo un’affermata coppia di disegnatori  e danno vita al più celebre eroe dei fumetti: l’Escapista. Con le loro storie fantastiche Joe e Clay spopolano ovunque, anche alla radio e in tv. Il successo e il denaro però non sono tutto, non bastano a ripagare la sofferenza per gli orrori della guerra e il distacco dagli affetti più cari. Josef è preoccupato per le sorti della sua famiglia rimasta in Europa e fa di tutto per ricongiungersi con il fratellino Tommy, forse la guerra non li ha separati  per sempre. A New York ha trovato l’amore, la popolarità, ma quel vuoto deve essere colmato a qualunque costo. Tra alterne vicende e ribaltamenti imprevedibili, le avventure degli inseparabili  Joe e Clay attraversano tre decenni di storia americana, incrociando i destini di molte altre celebrità, del cinema, della musica, dello sport. Un viaggio in lungo e in largo nella cultura pop a stelle e strisce, coloratissimo, vibrante, sincopato come una jam session di Duke Ellington. Si ride, si piange, il Grande Romanzo Americano è servito. Benvenuti nel fantastico mondo di Michael Chabon.

Angelo Cennamo

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OBLIO – David Foster Wallace

OBLIO Wallace

Sono solo tre i romanzi che David Foster Wallace ci ha lasciato prima di congedarsi dalla vita, quella sera di settembre del 2008: La Scopa del sistema, la vertiginosa rielaborazione della tesi di laurea in filosofia; Infinite Jest, l’opera fluviale di oltre 1.200 pagine che lo ha consacrato tra i migliori scrittori della sua generazione o, se preferite,  “Il principe della letteratura contemporanea americana” secondo la definizione di Details; Il Re pallido, il romanzo sulla noia al quale Wallace stava lavorando prima di morire, assemblato e pubblicato postumo dal suo editor Michael Pietsch. Un librone che nella stesura iniziale doveva contare cinquemila pagine, aveva confidato Wallace all’amico Jonathan Franzen in una delle loro ultime conversazioni telefoniche. Nel 2004 esce Oblio, una raccolta di otto romanzi brevi con i quali Wallace dimostra di avere una certa ecletticità anche di stile. Otto storie diversissime tra loro e con registri narrativi differenti. Recensire i libri di Foster Wallace è un’operazione complicata perché si finisce quasi sempre per omettere dei tratti significativi o di non rendere bene il senso – talvolta perfino di non capire il vero significato – dei suoi contenuti. Le opere di Wallace – sia in riferimento ai temi trattati che alla loro esposizione – hanno pochi precedenti. Per definirne lo stile convulso e smarginato qualcuno è ricorso a quel “realismo isterico” già coniato per la scrittrice anglo-giamaicana Zadie Smith. Wallace è spesso indecifrabile, i suoi scritti sfuggono a qualunque etichetta o classificazione. Wallace piace perché meglio di tanti altri autori contemporanei sa cogliere in profondità il marcio della società americana e sa raccontare il disagio di chi ci vive: uomini e donne molte volte segnati da traumi infantili, da nevrosi. È un autore schizofrenico, Wallace, magmatico, eccentrico, di un’intelligenza matematica: le sue narrazioni sono una sequela di virtuosismi che spaziano in una complessità non sempre alla portata del lettore medio. L’esposizione frammentata  – tipica dello stile postmoderno – finisce per annullarne anche la sequenza temporale. Attraverso descrizioni fittissime (massimalismo argomentativo), Wallace sembra condurci in un eterno presente, in una dimensione emozionale che non ha confini nitidi. Talvolta il finale delle storie viene astutamente anticipato nello svolgimento della trama – trama? – Di Oblio ci colpiscono l’originalità degli argomenti scelti e l’imprevedibilità delle storie: Mister Squishy  è una merendina da testare sul mercato. Nel romanzo che dà il titolo alla raccolta, un marito si sottopone a dei test clinici per scoprire se la moglie, quando lui russa, non può sentirlo russare perché sta dormendo. Il protagonista de Il canale del dolore è uno scultore di cacche umane, la cui moglie la donna mostruosamente obesa più sexy che Atwater abbia mai visto arriva a tradirlo goffamente tra i sedili di un’auto col giornalista che realizza lo scoop. Ma è in Caro vecchio neon che Wallace si supera con un superbo e preveggente gesto narrativo nel quale la fiction si sovrappone alla tragica verità che sta per palesarsi. Se non avete mai letto David Foster Wallace, iniziate da qui.

Angelo Cennamo

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LA CAMERA AZZURRA – Georges Simenon

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“Se io mi ritrovassi libera, faresti in modo di renderti libero anche tu?” Tony Falcone non aveva dato peso a quelle parole, coperte quasi dal rumore del treno “Lui e Andrèe erano due solo a letto, in quella camera azzurra che con una sorta di sfrenatezza impregnavano del loro odore”. Tutto sarebbe rimasto confinato in quello spazio, pensava lui, fuori dal tempo e dalla verità. La Camera Azzurra – pubblicato nel  1964 – è uno dei romanzi più riusciti del prolifico Georges Simenon, lo scrittore belga famoso per aver ideato il leggendario Maigret. Eppure la parte migliore della produzione letteraria di Simenon comprende una corposa serie di racconti e di romanzi che non sono ascrivibili alla categoria dei cosiddetti polizieschi – brutta espressione, poco adatta anche a definire le storie che hanno come protagonista il celebre commissario parigino. Il tema de La Camera Azzurra è tra i più abusati nella letteratura: l’adulterio. Scrivere un romanzo di successo parlando di tradimenti dopo tutto quello che è stato raccontato sull’argomento dall’Iliade in poi, passando per Otello e Desdemona, richiede buone dosi di coraggio e di talento. Doti che non sono mai mancate a Simenon, autore eclettico, dalla vena inesauribile, capace di attraversare qualunque genere letterario e di pubblicare un romanzo dopo appena venti giorni di lavoro metodico. Da grande maestro della narrativa, Simenon riesce a catturare l’attenzione del lettore con ogni dettaglio, anche il più insignificante: un rumore di passi, una luce che filtra attraverso la porta socchiusa, il gesto lento e silenzioso di un passante, il respiro affannoso di un bugiardo.

La Camera Azzurra è la storia di un’attrazione fatale che non si interrompe neppure davanti a un duplice omicidio. Ogni giovedì pomeriggio Tony e Andrèe vivono ore di passione in un albergo fuori città. Tutto era cominciato per caso: una ruota bucata, lo sguardo invitante di lei, il cedimento palpitante di lui, proprio lì, sul ciglio della strada. Per Madame Despierre quegli incontri furtivi, concordati con un segnale dietro la finestra, sono una vera ossessione, una mania devastante che le imprigiona il corpo e l’anima. Un uragano di lussuria e crudeltà che travolge due famiglie e l’incolpevole Tony, anche lui come la sua amante condannato dal vortice di quella insana passione più di quanto non faranno i giudici della Corte d’Assise: “Mai, neppure nei momenti in cui  i loro corpi erano stati più uniti, l’aveva trovata così bella, così raggiante”. Il Simenon che non ti aspetti, il sublime narratore dell’eros violento e irrefrenabile, dell’abbraccio mortale di due complici sfacciati e insaziabili. Com’è lontano Maigret.

Angelo Cennamo

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LE VITE DI DUBIN – Bernard Malamud

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“La vita di ogni uomo è la mia non vissuta. Si scrive delle vite che non si possono vivere. Vivere in eterno è una brama umana.”

William Dubin ha varcato la soglia della mezza età. Dopo anni trascorsi a scrivere necrologi su un giornale locale, ha deciso di fare il biografo “sentì che i frammenti della sua povera esistenza si sarebbero potuti concatenare in un’unita’”. Vive a Center Campobello, un paesino di poche migliaia di anime nello Stato di New York, al confine con il Vermount, insieme a sua moglie Kitty, una vedova conosciuta in un modo curioso “lei si era inventata un annuncio per offrire se stessa, lui aveva reagito in modo fantasioso. In questo caso si era trattato di un matrimonio combinato“. Combinato sì, ma abbastanza riuscito, dice Kitty. Per quanto la figura di Nathaneal, il primo marito di lei, sia troppe volte materia di discussione tra i due; a volte Dubin “aveva l’impressione di aver sposato il matrimonio di sua moglie”.

La routine noiosa e solitaria di William comprende lunghe passeggiate in campagna. Una fuga necessaria per meditare, pensare ai suoi figli lontani – il primo nato dal precedente matrimonio di Kitty –  e distrarre la mente dagli impegni professionali. Una specie di vagabondaggio naturalistico fuori dal tempo e dalla malinconia che lo pervade. Ora William sta lavorando alla biografia dello scandaloso poeta inglese D.H. Lawrence: appunti, cartelle da scrivere, ricerche fatte e ancora da fare. Giornate intere chiuse nello studio ad elaborare la monografia che verrà. Tutto scorre come sempre sul binario della ripetizione e di una metodica oramai collaudata. E mentre i giorni si susseguono, lenti e uguali uno all’altro, William non può sapere che di lì a poco quella ritualità triste e sonnolenta, quel rullo incessante di momenti ordinari, quel ciclostile di abitudini, sarà scompaginato da una nuova e inaspettata presenza. Che tra le pareti di casa sua, tra i gesti, le movenze di quel matrimonio forse già logoro, nei fogli disordinati del libro che ha appena cominciato a scrivere, sta per abbattersi un urugano di lussuria con le  sembianze della giovane domestica assunta da Kitty. Fanny Bick e’ una studentessa universitaria, procace, disinibita, che fatica a controllare le proprie pulsioni sessuali. Sogna di trasferirsi a New York, nel frattempo si guadagna da vivere facendo lavoretti saltuari. Non passeranno molte ore prima che la ragazza si faccia trovare nuda nello studio di William per offrirsi alle sue cure. La casa è vuota, Kitty è uscita per delle commissioni. Il biografo potrebbe approfittarne – e Dio solo sa quanto desidererebbe stringere a sè quel corpo così giovane e sinuoso. Eppure la respinge. Un appuntamento rimandato, si direbbe. I due si ritrovano infatti a Venezia per una vacanza segreta, lontano da tutti, a seimila km da Kitty e da Lawrence. Eccoli per calli e canali come una coppia in una romantica luna di miele. Ma qualcosa va storto. Anche qui. Prima i crampi di lei, poi la fregola di visitare chiese e musei di lui. E il sesso?

Il volo da Venezia a Stoccolma per rivedere Gerald, il figlio adottivo fuggito in Svezia per non combattere in Vietnam, e’ per William il goffo e disperato tentativo di riallacciare un contatto, ma anche il modo per giustificare alla propria coscienza l’allontanamento da sua moglie. E se anche Kitty avesse un segreto da confessargli?  ‎
Il ritorno a casa è avvilente, William è atteso da un duro inverno. Tra alti e bassi, però, l’avventura erotica con Fanny prosegue. Di tanto in tanto i due amanti si vedranno di nascosto a New York, nell’appartamento di lei. Perfino a Campobello, nel nuovo studio che William ha ricavato dalla stalla dietro casa sua. Giorni di intensa passione che aiuteranno il biografo a comprendere meglio la personalità di D.H. Lawrence, e a calarsi in un rischioso intreccio sentimentale che sembra giovare anche al suo matrimonio.


Pubblicato nel 1979, Le Vite di Dubin  è con L’Uomo di Kiev e Il Commesso, uno dei tre capolavori di Bernard Malamud. Meno conosciuto e celebrato degli altri due romanzi, ma non inferiore a questi per intensità e qualità della scrittura, come riconosce lo stesso autore. Una commedia brillante sulle contraddizioni delle nostre esistenze e sulla suggestione degli attimi fuggenti: “vivere significa investire nella vita“, dice il protagonista in un passaggio cruciale del racconto. Ma anche un tributo alla bellezza e alle opportunità che sa regalarci la letteratura, moltiplicatrice di esperienze e di emozioni altrimenti mai vissute. Isaac B. Singer, Saul Bellow, Philip Roth e Bernard Malamud sono i maggiori protagonisti della narrativa ebraica americana. Malamud meno impetuoso di Roth e più minimalista di Bellow. Eppure il suo immenso talento, in Italia, sarebbe pressoché sconosciuto se una casa editrice attenta e coraggiosa come la Minimumfax non avesse deciso di pubblicare le sue opere, testimoniando così la traccia profonda e indelebile che esse hanno lasciato nella letteratura del Novecento.


‎Angelo Cennamo

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LE CORREZIONI – Jonathan Franzen

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Le storie di Jonathan Franzen le amiamo per tante ragioni. Le amiamo perché ci aiutano a convivere con la modernità senza subire il fascino e la compulsività dei suoi riti omologanti. Lo stile garbato, ironico, la capacità di scavare nella parte più intima dei personaggi fanno di Franzen uno dei migliori autori della narrativa americana e non solo americana, e dei suoi libri – romanzi, saggi, editoriali – un’isola felice in mezzo a tanta roba inutile, tv spazzatura e grafomania da social.

Dopo aver pubblicato nel 1989 La ventisettesima città, e nel 1992 il giallo ambientalista Forte movimento, Franzen sembra destinato a perpetuare i fasti della tradizione postmoderna di Barth, Pynchon, DeLillo, e ad interpretare insieme al suo amico-rivale David Foster Wallace il ruolo dello scrittore avanguardista, lo “status author” che sperimenta nuove forme di scrittura, quasi del tutto indifferente ai gusti del grande pubblico. Con Le correzioni, invece, a distanza di quindici anni dal suo esordio, Franzen dà una svolta radicale al proprio stile preferendo tornare al passato ed assecondare una vocazione più dickensiana: diventa un “contract author”.     

Nei giorni del 2001 in cui sta per essere pubblicato, l’America non è stata ancora scossa dall’attentato dell’11 settembre. Quanto quel tragico evento possa aver fatto cambiare opinione allo scrittore di Western Springs sulla società contemporanea, sui tic e le nevrosi presi di mira, è difficile dirlo. Resta il fatto che il romanzo offre al lettore un dettagliato spaccato familiare nel quale ciascuno può ritrovare una parte di sé: un litigio, un ricordo, un segreto.

Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria

L’incipit è di quelli che non si dimenticano. Le correzioni è un libro ben strutturato, polifonico, e con una venatura noir non dichiarata – impeccabile la traduzione italiana di Silvia Pareschi. Franzen è bravo a raccontare la società americana, l’ipocrisia del suo perbenismo, attraverso la famiglia, la sua disgregazione, i conflitti generazionali. Le correzioni è il Grande Romanzo Americano, alla stregua di Underworld di DeLillo, di It di Stephen King, o di Pastorale Americana di Philip Roth.

I protagonisti  sono una coppia di anziani coniugi del Midwest,  Alfred ed Enid Lambert, logorati dai ricordi e dalle delusioni di una lunga vita matrimoniale, fatta di duro lavoro, di tante rinunce e di frustrazioni taciute. L’uno in preda ai sintomi del Parkinson, l’altra desiderosa di radunare per un ultimo Natale i tre figli, educati secondo i valori tradizionali, sempre attenti a correggere ogni deviazione dal giusto. Chip,  professore universitario che  ha perso il posto al college per avere intrattenuto una relazione sessuale con una sua allieva; Gary, dirigente di banca che non vuole ammettere di essersi ammalato di depressione e di trascinarsi un matrimonio finito; Denise, chef di successo ma dalla vita sentimentale troppo turbolenta e trasgressiva per i canoni educativi dei suoi genitori. Ritrovarsi tutti a casa per l’ultimo Natale, come vorrebbe Enid, sembra impossibile ma forse non tutto è perduto, e chissà che in casa Lambert, dopo la tempesta, non ritorni finalmente il sereno.

Angelo Cennamo

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ZERO K – Don DeLillo

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“Tutti vogliono possedere la fine del mondo”  

Ross Lockart è un uomo forgiato dai soldi. Si era fatto presto un nome analizzando il profit impact dei disastri naturali. La sua giovane moglie, Artis Martineau, è gravemente malata di sclerosi multipla. Ross è tra i finanziatori di Convergence, un’azienda tecnologica che in un luogo segreto e inaccessibile del Kazakistan sperimenta la criogenesi, un’applicazione medica avveniristica che consente il congelamento dei corpi e delle coscienze fino a quando la medicina sarà in condizione di guarire ogni malattia  –  “Zero K” è lo zero assoluto, un’unita di misurazione della temperatura che corrisponde a meno duecentosettantatre virgola quindici gradi Celsius. K sta per Kelvin, il fisico che l’ha teorizzata.

Per sopravvivere alla propria  morte, certa ed imminente, ad Artis non resta che affidarsi al miraggio di questa nuova tecnica. E Ross? Ross è un uomo sano per quanto anziano, ma non vuole abbandonare l’amata compagna al suo oscuro destino. Decidere di seguire Artis nella macabra avventura della criogenesi è però qualcosa di più di una coraggiosa scelta d’amore, è l’opportunità di appagare il più folle dei desideri, quello di possedere anche la morte. “Tutto sarà rapido, sicuro e indolore” spiega il magnate della finanza al figlio Jeffrey, convocato in Kazakistan per un improbabile arrivederci e per una difficile riconciliazione dopo il doloroso divorzio da sua madre. Jeffrey tenta invano di dissuaderlo, è convinto che i medici gli abbiano fatto il lavaggio del cervello. Convergence più che un’azienda supertecnologica sembra infatti una setta di fanatici che promettono la resurrezione a ricchi uomini d’affari: “tempo, destino, possibilità, immortalita‘”. La morte è una creazione culturale, un’abitudine difficile da spezzare: questo è il messaggio che viene inculcato ai pazienti inebetiti che attendono di essere congelati. La permanenza di Jeffrey nel labirinto futuristico di Convergence occupa buona parte del racconto. Come Dante in un girone infernale, Jeffrey vaga tra i corridoi e i cubicoli  silenziosi di quel non-luogo isolato e angosciante, dove si costruisce il futuro, una nuova idea di futuro. Porte chiuse, stanze senza finestre e sulle pareti maxischermi che trasmettono immagini non proprio rassicuranti. Di tanto in tanto, si incontrano dei manichini che riproducono i corpi svuotati e abbandonati al cupo letargo artificiale.

Zero K è un romanzo postmoderno, un po’ filosofico un po’ fantascientifico, dalla scrittura gelida, lenta, disadorna, minimalista, con molte frasi brevi: “Entro in camera da letto. Non c’è un interruttore alla parete. La lampada è poggiata sulla cassettiera accanto al letto. La stanza è al buio“, e apatica come il tema della criogenesi e come il volto inespressivo che appare sulla copertina del libro. L’ultimo capolavoro di uno scrittore inarrivabile che ha avuto come suo unico erede David Foster Wallace – la fauna dei morituri che si aggira tra i corridoi asettici e spettrali della Convergence ricorda la “Enfield Tennis Academy” di Infinite Jest, con i suoi giovani tennisti prostrati e assuefatti alla noia – Un’opera ambiziosa per bellezza, originalità e profondità. Un libro che non si dimentica.

Angelo Cennamo

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SULLE TRACCE DI CAMUS

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Sfiorare i 40 gradi all’ombra e trovarsi tra le mani, per una strana coincidenza, uno dei capolavori della letteratura del Novecento. Avevo appena trovato scampo nella nuovissima e refrigerata libreria Feltrinelli di piazza Dei Martiri, dopo un’estenuante udienza di discussione in tribunale, strangolato da una regimental e appesantito da una giacca fin troppo slim, che il mio sguardo cadde su un volume incolonnato sopra il tavolo ovale, quello al centro della sala grande, al piano terra del megastore. Lo straniero di Albert Camus è un romanzo del 1942, in una classifica di Le Monde figurava al primo posto tra i 100 libri imperdibili del XX secolo. Conoscevo il nome di Camus per averlo incrociato forse in qualche testo liceale o chissà dove. Non ricordo di preciso. Sulla quarta di copertina c’era la foto in bianco e nero dell’autore, elegante in giacca e cravatta come me, ancora giovane avvocato, ben pettinato, con due note biografiche. Di nazionalità francese, Camus era nato però poco lontano da Algeri, nel 1913, da una famiglia poverissima. Quella mattina a Napoli c’era una calura soffocante e io stavo per comprare il romanzo del più famoso scrittore africano di tutti i tempi. Vi sembra un caso? Due sere dopo fui invitato da un amico ad un festival letterario che si tiene ogni anno tra le stradine e gli anfratti di un borgo del centro Italia. Trovammo posto in prima fila e attendemmo l’arrivo di un noto critico che di lì a poco avrebbe intrattenuto il pubblico con una lectio magistralis sul rinascimento. Prima di lui, l’intervistatore conversò amabilmente sul palco con un dirigente della Rcs libri, anche lui molto conosciuto. Ad un tratto il discorso si indirizzò non so come su Albert Camus. Zitti un po’. Tesi l’orecchio e pensai all’acquisto di due giorni prima. L’editore citò un dato che per certi versi confermava l’attendibilità della classifica pubblicata da Le Monde. Il dato era il seguente: a distanza di oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, de Lo Straniero, solo in Francia, si vendevano circa duecentomila copie l’anno. Ascoltai la conversazione e pensai, anzi pregustai, la lettura che avrei cominciato forse quella sera stessa, tornando  a casa, al termine dell’interessante kermesse. Come immaginavo; Le Monde, per quanto animato da un legittimo spirito nazionalistico –  i francesi sono maestri nel difendere la loro arte – non sbagliava affatto: Lo straniero era un capolavoro assoluto. Divorai le duecento pagine del libro in poche ore, suggestionato dalla scrittura, dallo spessore filosofico e dall’attualità dell’argomento trattato: l’indifferenza verso tutto e tutti. L’apatia. La solitudine. Moravia ne aveva già parlato nel 1929 nel suo romanzo di esordio, ma il primato dell’esistenzialismo fu attribuito a Sartre e allo stesso Camus. Che botta, ragazzi.

Dopo aver preso Lo straniero corsi ad acquistare La peste, L’uomo in rivolta e Il primo uomo, opera postuma ricostruita da una serie di appunti che lo scrittore aveva con sé, in auto, la sera del terribile incidente che gli costò la vita. Era il 4 gennaio del 1960, Camus aveva 46 anni, la stessa età in cui David Foster Wallace decise che con il mondo poteva bastare. Camus, Albert Camus. In pochi mesi lessi tutto di lui: narrativa, saggi, articoli su riviste. Fu amore a prima vista.

Angelo Cennamo

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