IL REGNO DELLE ULTIME POSSIBILITA’ – Steve Yarbrough

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Quando scrivo queste poche righe, Il regno delle ultime possibilità è l’unico romanzo disponibile in Italia di Steve Yarbrough, autore del Mississippi come William Faulkner, Eudora Welty, John Grisham. Grazie a Nutrimenti, casa editrice da sempre attenta ai fenomeni letterari americani meno reclamizzati dai media, ho avuto modo di conoscere questo scrittore, del quale, confesso, sapevo ben poco. Comincerò dalla fine: Yarbrough scrive meravigliosamente, e se gli altri suoi romanzi seguono questi  standard (non posso saperlo),  il nostro Steve merita la stessa considerazione di certi autori più popolari e blasonati di lui, nati grosso modo alla fine degli anni Cinquanta. “Il regno delle ultime possibilità” è un romanzo solido nella struttura, con personaggi credibili, e contiene molti dei topoi della narrativa americana: il viaggio, un certo vissuto familiare, i fallimenti professionali, la crisi economica, la provincia con i suoi riti omologanti. Kristin e Cal sono una coppia di cinquantenni che dalla California trasloca nel Massachusetts. Lui è un musicista disoccupato, lei docente di un’università prestigiosa, costretta dalla recessione a trasferirsi in un college statale poco distante da Boston. Kristin conosce Matt, il suo vicino di casa, molto più giovane di lei, e se ne innamora. Matt, che un tempo faceva  il librario, come gli altri due protagonisti del racconto ha alle spalle un matrimonio e un lavoro finiti male. Oggi si guadagna da vivere in una gastronomia italiana ma la passione per la letteratura non l’ha mai abbandonato, tanto che a sugellare la relazione con Kristin sarà proprio un libro: Le braci di Sandór Márai, uno dei tanti che fanno capolino nel romanzo (tra una pagina e l’altra Yarbrough semina citazioni di diversi scrittori, e a un certo punto del racconto  fa perfino rivivere Richard Yates e lo fa incontrare con Matt –  il romanzo è, tra le altre cose, un generoso tributo alla letteratura del Novecento. La relazione extraconiugale di Kristin occupa buona parte della storia; la descrizione a due voci che ne fa Yarbrough non è mai banale, scontata. I due amanti si studiano, sono trattenuti, sì trattenuti: c’è qualcosa che impedisce loro di vivere appieno il sentimento che li ha colti improvvisamente quella sera in cui Matt si era adoperato per liberare la cantina allagata dei suoi nuovi vicini. Il silenzio, lo sguardo, l’abbraccio. Kristin “aveva perso l’uomo che amava e ne aveva sposato un altro per qualcosa di meno dell’amore”, ma è abbastanza per mandare all’aria il suo attuale matrimonio? “Ognuno dei due avrebbe usato l’altro per un po’ di tempo, per placare qualche bisogno insoddisfatto”. Yarbrough ha scritto un romanzo tenero e doloroso, una storia d’amore e di solitudini nella quale ciascuno può ritrovare una parte di sé, riconoscersi insomma. Yarbrough racconta la quotidianità alla maniera di Carver e di altri autori di quella tradizione (Amy Hempel). Il detto e il non detto si alternano in una narrazione sempre limpida e vivace. La lingua è scarna ma melodiosa, calda, poetica.

Angelo Cennamo                                                 

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WALLACE E FRANZEN, AMICI E RIVALI

Franzen e Wallace

Uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi trent’anni della letteratura americana è stata l’amicizia-rivalità tra Jonathan Franzen e David Foster Wallace. Entrambi nascono come autori postmoderni: Wallace esordisce nel 1987 con La scopa del sistema, la rielaborazione della tesi di laurea in filosofia; Franzen, due anni dopo, pubblica La ventisettesima città, il suo libro meno conosciuto, cui seguirà, nel 1992, Forte movimento, il giallo ambientalista che in tempi non sospetti e ad altre latitudini anticipa la vicenda napoletana della Terra dei Fuochi. E’ qui che le strade dei due scrittori iniziano a divergere. Wallace rimane fedele al suo ruolo di status author, sperimenta nuovi linguaggi allargando il perimetro narrativo dei maestri del genere: DeLillo, Pynchon, Barth; La ragazza dai capelli strani e Brevi interviste con uomini schifosi  sono raccolte originalissime e innovative, al netto delle critiche di Bret Easton Ellis che nel primo dei due libri vede i riflessi di Meno di zero. Infinite jest, lo zenit di un percorso geniale e ineguagliabile che consacrerà Wallace tra i grandi scrittori contemporanei. Franzen si rimette in discussione puntando alla tradizione. Diventa un contract author, stipula cioè un patto con i lettori: ditemi cosa volete leggere e io ve lo scriverò. Nel 2001, Le correzioni inaugura un filone nuovo, ma nel solco di una narrativa classica nella quale lo scrittore di Western Springs sembra sentirsi più a suo agio. Franzen ha deciso di raccontare l’America attraverso storie e conflitti familiari, prerogativa tutta femminile fino ad allora. Il grande successo de Le correzioni apre le porte ai successivi romanzi Libertà e Purity, che confermano proprio quella linea dickensiana. Di Franzen e Wallace insieme, a noi italiani, resta il ricordo di una fugace apparizione a Capri. Era il giugno del 2006. Antonio Monda li aveva invitati sull’isola per il festival Le Conversazioni. Con loro c’erano anche altri giovani protagonisti della letteratura anglosassone: Zadie Smith, Jeffrey Eugenides, Nathan Englander. Di lì a poco – il 12 settembre del 2008, nel corso della lunga preparazione del suo libro forse più ambizioso ( poi divenuto Il re pallido) – Wallace avrebbe mollato definitivamente le redini della propria stabilità emotiva e si sarebbe impiccato nella sua casa di Claremont, in California. Franzen – chi altro? – ne avrebbe celebrato gloria e intimità in Più lontano ancora, il saggio-orazione funebre che traccia le tappe di questa amicizia ormai leggendaria.

Angelo Cennamo

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IL LAUREATO – Charles Webb

IL LAUREATO - Charles Webb

Quando, nel 1963, esce in America The Graduate, Charles Webb ha poco più di vent’anni. Webb lo ha scritto ai tavoli di un bar immaginando una storia forse realmente accadutagli. Il successo è misurato e non immediato. Sarà la versione cinematografica – il film arriva nelle sale nel 1967 – con Dustin Hoffman nei panni del protagonista e le canzoni di Simon e Garfunkel a trascinare le vendite del libro e ad arricchire il giovane scrittore californiano, che su questa storia e poco altro ha costruito il benessere di se stesso e della propria famiglia.

The Graduate – in Italia Il Laureato – ci offre lo spaccato di un’America borghese, serena, al netto dell’assassinio di JFK , dove non è ancora maturato il ribellismo pacifista del ’68. L’America soleggiata de Il nuotatore di John Cheever: patinata, gaudente, ottimista, fatta di ville e di party in piscina. Benjamin Braddock è tornato a casa fresco di studi universitari. Davanti a lui stanno per spalancarsi le porte del successo, il “sogno” è lì che lo aspetta. Ma Ben è cambiato, è esausto, disorientato, sembra precipitato in un vuoto esistenziale che lo spinge a rifiutare ogni cosa del suo recente passato familiare: la ricchezza, l’istruzione, perfino l’affetto dei genitori, e a sentire il bisogno di mischiarsi con la gente vera. Ben è il simbolo di quella frattura generazionale che qualche anno più tardi segnerà l’inizio e il perdurare della nuova stagione contestatrice. Lo scontro, nel romanzo di Webb, assume i contorni del sesso e della seduzione. Lei è Mrs Robinson – al cinema Anne Bancroft – la moglie del socio di Mr Braddock, padre di Ben, quarantenne alcolizzata, inquieta, e madre di Elaine, altro personaggio chiave della storia. Elaine viene risucchiata nel gioco perverso tra sua madre e il giovane laureato. Per Ben diventerà la sola via d’uscita da quel pantano di sentimenti confusi che lo sta annientando, l’ancora di salvezza. Elaine ha il volto dell’amore: ossessivo, preteso, irrinunciabile, ma il prezzo da pagare sarà altissimo. Il laureato è essenzialmente un romanzo di dialoghi, con frasi brevi, precise, dal ritmo sostenuto, cinematografico è il caso di dire. La trama è semplice ma potente. I personaggi, indimenticabili, a cominciare dallo squinternato Benjamin Braddock e dalla sua amante “God bless you, please, Mrs. Robinson. Heaven holds a place for those who pray, hey, hey, hey”. Un capolavoro della letteratura del Novecento, nascosto, scavalcato forse da un film altrettanto straordinario: per tutti, l’immagine di Benjamin resta quella del giovane Dustin Hoffman.

Angelo Cennamo

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LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI – Elena Ferrante

La vita bugiarda degli adulti - Elena Ferrante

Anni Novanta. Giovanna è una ragazzina fragile, insicura, figlia di due insegnanti della Napoli bene, e voce narrante di questa storia che Elena Ferrante fa uscire a cinque anni di distanza dall’ultimo capitolo della quadrilogia de L’amica geniale. Cinque anni, il tempo nel quale si è consacrata tra le più popolari scrittrici del pianeta con oltre undici milioni di copie vendute, film, documentari, fiction, e il solito rebus sull’identità sul quale fingiamo di interrogarci senza venirne a capo. Domenico Starnone? Anita Raja? Entrambi? Nessuno dei due? Poco importa.

Resta il fatto che misurarsi col successo di un’opera così complessa e perfettamente calata nel contesto spazio-temporale come la lunga vicenda dell’amicizia di Lila e Lenù, non poteva non risultare per l’autrice una sfida impegnativa, quasi improba, un fardello che assorbe energie, idee, creatività. Una scommessa complicata sotto ogni punto di vista, insomma. L’ha vinta, la Ferrante, questa sfida? Secondo me, no. La vita bugiarda degli adulti nella sua prima parte si sviluppa intorno alle paure della giovane protagonista, quella per esempio di diventare brutta come la sorella di suo padre “sta facendo la faccia di Vittoria”. Vittoria è il personaggio meglio riuscito del libro. Ignorante, rancorosa, scorbutica, sboccata: mi ha ricordato Federì, l’artista incompreso di Via Gemito, il romanzo con cui Starnone si aggiudicò il premio Strega nel 2001. Già, Starnone. La strana amicizia nata tra la piccola Giannì e la ribelle zia Vittoria, allontanata da tutti per aver intrattenuto diciassette anni prima una relazione con un uomo sposato con figli, poi deceduto, è la traccia più interessante del racconto, che, come dicevo, nella sua prima parte si sviluppa con dei toni frizzanti ed originali. E’ mancato però tutto il resto. La storia di Giovanna, con lo scorrere delle pagine, sembra avvitarsi su stessa senza seguire una direzione convincente. A deludere è prima di tutto la visione del tempo. Il romanzo è ambientato negli anni Novanta, ma la Ferrante questi anni non ce li mostra né con le immagini né con le parole: il lessico, i dialoghi “La feci entrare, aveva sul braccio una camicia da notte con un merletto bianco”, le situazioni in cui vengono a trovarsi i personaggi, sembrano appartenere a un altro tempo, sospeso tra il dopoguerra e gli anni Sessanta. E’ qui che la storia finisce per ricalcare le geometrie e la grammatica de L’amica geniale, con la Ferrante che non si avvede di riscrivere lo stesso romanzo. Cosa resta? Certamente l’impronta di una narrativa che riflette bene il mondo femminile, che sa raccontarlo  – è la cifra di Elena Ferrante, da L’amore molesto in avanti, ma che in questo caso si ferma sulla soglia di un nuovo che non riesce a prendere corpo. Che fatica a spogliarsi dei sentimenti e delle voci che brulicano in quello stradone di periferia da dove iniziò l’imprevedibile e vertiginosa scalata verso il successo.

Angelo Cennamo

   

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SEI MIA – Eleonora de Nardis

 

SEI MIA - Eleonora de Nardis

 

“L’amore che dai non è mai l’amore che ricevi”

E’ la frase, forse, che racchiude il senso di Sei mia, romanzo d’esordio di Eleonora de Nardis, sociologa, saggista, conduttrice televisiva, che mi è capitato di incrociare in una recente trasferta romana in occasione della presentazione del libro di una nostra amica comune (Francesca Sbardellati). Ho divorato il romanzo di Eleonora in treno, durante il viaggio di ritorno – adoro leggere in treno. E’ una storia vera oltre che una storia ispirata ad un fatto vero, scritta in prima persona con un taglio giornalistico – Eleonora è prima di tutto una giornalista. Il ritmo è incalzante, senza pause né cali di tensione, la prosa è leggera, diretta, empatica. Sei mia – come suggerisce il titolo – è un romanzo sul possesso e sulla mistificazione dei sentimenti. Elisabetta, giovane madre e giornalista precaria, trova in Massimo un confidente, “uno scoglio a cui aggrapparsi”, prima ancora dell’avvocato che dovrà aiutarla ad uscire da un passato complicato. Si accende la passione. Lui è sposato con figli, lei sta divorziando. Premure, attenzioni, regali: Massimo è un professionista generoso e danaroso, Elisabetta invece deve far quadrare i conti: fitto, bollette, debiti. Sì, Massimo è decisamente un approdo salvifico, la proiezione di un amore possibile, solido, duraturo. Ma dietro quello sfavillio di promesse iniziali si nasconde ben altro: l’immagine dell’uomo innamorato e galante che Elisabetta ha conosciuto nel momento più buio della sua vita inizia poco alla volta a sbiadirsi. Inizia un nuovo calvario fatto di gelosia, ossessioni, violenza. Elisabetta ne è vittima consapevole, soggiogata dal carisma e dalla forza economica di un uomo che da compagno affettuoso si trasforma in carceriere, molestatore, incubo. Sei mia è un libro spietato, crudo, denso di umanità, anche istruttivo, con un finale amaro ma rassicurante. La parola chiave è Aletheia, che in greco antico è il dischiudimento, la rivelazione, la verità. Nel caso di Elisabetta anche la meritata catarsi.

Angelo Cennamo

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IL COLIBRI’ – Sandro Veronesi

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Leggendo la storia di Marco Carrera, l’oculista fiorentino soprannominato Il colibrì perché fino ai quattordici anni cresceva piccino, più basso dei suoi coetanei, la mente corre ad un altro personaggio di Sandro Veronesi, il più riuscito della sua spessa produzione letteraria: Pietro Paladini. E’ il destino di tutti gli scrittori che hanno alle spalle un capolavoro ineguagliato, osannato, citato, copiato, accaparrato dal cinema, e che inevitabilmente diventa termine di paragone per ogni altro libro successivo. La lista è lunga, da Dave Eggers ad Aldo Busi. Caos calmo ha marchiato a fuoco Veronesi, catapultandolo sull’olimpo dei romanzieri italiani. Attendersi qualcosa di meglio o alla stregua di quel racconto prodigioso, denso di tenerezza, introspezione, comicità, sarebbe stato troppo. Con Il colibrì Veronesi però ci ha restituito se non altro il clima della sua opera migliore. E’ una storia borghese quella di Marco e delle donne che gli girano intorno: la moglie, l’amante, la sorella, sua figlia, legata a lui da un filo invisibile, lo stesso ma diverso che spingeva Pietro Paladini ad accamparsi davanti alla scuola della sua bambina. Il lutto, lì come qui. Il colibrì è una storia di donne – che tradiscono, che amano a distanza, che soffrono tutte, che danno vita a un mondo nuovo – ma è soprattutto un romanzo sull’elaborazione del lutto. Come il soprannome che si porta dietro, Carrera mette tutte le sue energie nel restare sospeso, riuscendo a fermare il tempo e il mondo intorno a sé. E restando immobile, riesce a percorrere una strada lunga e avventurosa perché è il mondo “a scivolare sotto i suoi piedi”. Tutto precipita, ma oltre la dissoluzione di una vita tradita da false convinzioni e dall’illusione dell’amore, davanti a Marco si spalanca la speranza di un futuro migliore, inaspettato, miracoloso. Miraijin, L’uomo del Futuro, è la metafora di un tempo che declina e di un altro che si schiude all’insegna di nuovi ideali. E’ il colpo di coda di una storia che regala stupore e commozione. Sandro Veronesi ha scritto il romanzo che ci aspettavamo da lui, il suo romanzo, il Grande Romanzo Italiano.

Angelo Cennamo

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