IL MONDO SECONDO GARP – John Irving

Il mondo secondo Garp - Irving

Di John Irving – al secolo John Wallace Blunt Jr – scrittore e sceneggiatore del New Hampshire, molti ricorderanno il bestseller uscito nel 1985 che ispirò un film di grande successo, diretto da Lasse Hallström e premiato agli Oscar del 2000: Le regole della casa del Sidro, interpretato da una giovanissima Charlize Theron e da Michael Caine. Sette anni prima, nel 1978, Irving si era consacrato tra i maggiori romanzieri americani con Il mondo secondo Garp, pietra miliare della letteratura Usa del tardo Novecento, uno dei romanzi più amati e venduti di sempre.

Il mondo secondo Garp è il quarto libro pubblicato da Irving, dopo Libertà per gli orsi del 1969, La cura dell’acqua uscito nel 1972 e Doppia coppia del 1974. Negli stessi mesi, due autori postmoderni come Don DeLillo e Philip Roth avevano dato alle stampe, rispettivamente, Cane che corre e Lo scrittore fantasma. Con i suoi romanzi, Irving segue un percorso narrativo diverso rispetto ai suoi, fino a quel momento, più celebri colleghi, meno avanguardista. Imbastisce le sue trame con una prosa classica, dickensiana, preferendo la tradizione popolare del romanzo ottocentesco allo sperimentalismo in voga tra gli autori di culto. Il mondo secondo Garp è un libro che fin dagli esordi ha spiazzato tutti per l’originalità dei suoi contenuti e per la complessità dei molti temi trattati: il sesso, il matrimonio, l’infedeltà coniugale, la famiglia, le differenze dei ruoli uomo-donna, gli albori del movimento femminista, gli alti e bassi di una professione difficile e rischiosa come quella dello scrittore, la resilienza di fronte alle avversità della vita. Irving ha mescolato ogni cosa con grande abilità, costruendo un romanzo folle e comico al tempo stesso, venato di malinconia e carico di emozioni altalenanti, dalla prima all’ultima pagina. Scrive Irving nell’introduzione del libro che il primo a leggere il manoscritto di Garp fu suo figlio Colin, che nel 1978 aveva appena dodici anni. E che la sorpresa più grande fu che lo stesso Colin spiegò al padre quale fosse il senso del romanzo, per l’autore inafferrabile, e quale l’argomento cardine dell’intera narrazione. La paura di morire? Le tentazioni della lussuria? Il rapporto uomo- donna? No: questo libro parla delle paure di un padre, disse Colin. E aveva ragione: quella di Garp è infatti una storia imperniata sul rapporto genitori-figli. Nella prima parte, sul legame ossessivo, soffocante, tra Jenny Fields – la madre “sessualmente sospetta“, la ricca infermiera divenuta icona del movimento femminista dopo aver pubblicato la propria autobiografia “In questo sudicio mondo o sei la moglie di qualcuno o sei una puttana” –  e il giovane Garp, il figlio avuto, anzi preteso da Jenny da un militare “rincitrullito” a causa di un incidente aereo durante la seconda guerra mondiale. Nel prosieguo della storia è Garp, lo scrittore frustrato, insoddisfatto per i suoi romanzi incompresi, che si occupa con apprensione dei figli mentre la moglie insegna al college e si trastulla con il suo giovane amante. Garp è un padre premuroso, curioso, ansioso. Quando Duncan, il figlio più grande, va a dormire a casa di un compagno di scuola, a pochi isolati da casa sua, lui sente il bisogno di andarlo a trovare, di verificare di persona dove abita l’amico e sapere cosa fa sua madre. Garp cucina, rassetta la casa, accompagna Duncan e Walt – il secondogenito – a scuola e in palestra, si preoccupa delle loro condizioni di salute. Nel racconto di Irving, Garp è uno scrittore, un lottatore libero e un marito non sempre fedele. Ma è soprattutto un padre: è questo il ruolo che emerge di più nella sua pazza parabola esistenziale. E Irving lo tratteggia con maestria, incuneandosi tra le pieghe più morbose e indecifrabili della sua personalità bizzarra. E inventando intorno a lui una fauna di personaggi picareschi, profondamente umani.

Angelo Cennamo

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IL NIX – Nathan Hill

Nathan Hill

Chiamarsi Jonathan, per un aspirante scrittore americano, è già un buon inizio, visti i precedenti di Franzen, Lethem, Safran Foer, Englander e del naturalizzato francese Littel. Dell’esordio di Nathan Hill, napoletano della Florida – non sapevo che ci fosse una Naples anche negli Usa – ne avremmo sentito parlare diversi anni fa se il giovane autore di The Nix non fosse incappato nella peggiore disavventura che possa capitare a chi scrive: il furto del pc con dentro appunti, racconti e un romanzo completo. Un brutto colpo che ha costretto Hill a ricostruire pazientemente il suo libro e a rimandare il debutto al 2016. Eccolo allora il romanzo che negli Usa è diventato un caso editoriale prima ancora che venisse pubblicato.

Il Nix racconta la storia di Samuel Anderson, un giovane insegnante di letteratura inglese che di notte è schiavo di un gioco online chiamato “World of Elfscape”, una specie di other life virtuale nella quale il protagonista si connette con milioni di persone di tutto il mondo per combattere elfi, draghi e orchi. Samuel sa che quella distrazione elettronica è una follia, un inutile passatempo che lo allontana da impegni e decisioni importanti, ma non riesce proprio a liberarsene. Dieci anni prima aveva firmato un contratto e ricevuto una barca di soldi per scrivere un libro che non ha più scritto. Quel tempo è scaduto e il suo editore intende fargli causa. Samuel è disperato. Ma proprio quando tutto sembra precipitare, arriva una telefonata che può cambiare il suo destino: un avvocato intende convocarlo perché risulta essere il figlio di una donna che ha aggredito il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Il video dell’attentato rimbalza da un canale televisivo all’altro e su internet ha milioni di visualizzazioni. Faye Andresen, la madre di Samuel, che ha un passato da movimentista hippy e un arresto per prostituzione, a sessant’anni è diventata clamorosamente un’eroina Liberal contro il fascismo repubblicano. Samuel non la vede da più di vent’anni, dal giorno in cui lei abbandonò improvvisamente la famiglia per una ragione sconosciuta “me ne vado per un po’. Non avere paura” gli disse. E’ dietro quella fuga che si cela il mistero del Nix: una leggenda norvegese di uno spirito che può assumere diverse forme e che ogni tanto appare con le sembianze di un cavallo bianco per rapire i bambini. Uno strano incantesimo che separa le persone che si vogliono bene: il Nix è di solito qualcuno che credi di amare. Del passato di Faye, Samuel non sa nulla, ma ora il professore ha una doppia opportunità: ritrovare sua madre dopo la sua fuga misteriosa, e ripagare l’editore scrivendo un libro verità su di lei. Le due storie, quella della giovane Faye negli anni del college e della contestazione pacifista, e di Samuel sull’orlo del licenziamento a causa di una denuncia di una sua allieva fannullona che non vuole farsi bocciare, scorrono separate attraverso lunghi flashback per poi intrecciarsi nel presente. Ne viene fuori un racconto polifonico, lungo circa 760 pagine, con una solida struttura narrativa, ricco di colpi di scena e di umorismo, scritto con uno stile che ricorda molto quello di Jonathan Franzen – in alcuni passaggi ci sembra di rileggere Purity  – e del miglior Michel Chabon.

Il Nix è un romanzo perfettamente calato nella modernità, che affronta molti temi interessanti: i rapporti familiari, l’ossessione per la competizione, la crisi della cultura umanistica – per l’allieva fannullona di Samuel studiare Shakespeare è solo una perdita di tempo – la devianza e la compulsività della connessione a internet, il sogno tradito dei movimenti pacifisti degli anni sessanta, il tutto condito da un pizzico di mistero e di magia. Nathan Hill, che ha già ricevuto apprezzamenti entusiastici da parte della critica e un’opzione per una versione cinematografica del libro, non poteva ambire a un esordio migliore. Lui, Bret Anthony Johnston, Garth Risk Hallberg, Joshua Cohen, Tiffany McDaniel, sono tra i migliori talenti della nuova letteratura Usa.

Angelo Cennamo

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IT – Stephen King

IT

Può una città intera essere posseduta? Questa è la storia di sette bambini finiti casualmente in un incubo durante la calda estate del 1957. Siamo a Derry, una tranquilla cittadina nello Stato americano del Maine. Dopo un violento nubifragio, il piccolo George fa navigare tra i rigagnoli di una strada la barchetta che suo fratello Bill gli ha costruito con un foglio di giornale. La strada è deserta. Tutto intorno è silenzio. La barchetta scivola veloce sull’acqua e va ad infilarsi in un crepaccio proprio sotto il marciapiede. George si avvicina alla buca per recuperare il suo giocattolo, ma trova la morte. Ad ucciderlo è un’entità demoniaca che non ha un nome né un volto. Un mostro multiforme arrivato milioni di anni fa a Derry da chissà quale galassia, e che ogni ventisette anni esce dalle fogne della città per seminare il terrore. Lo chiamano It e il suo travestimento più inquietante è quello del clown Pennywise, il pagliaccio ballerino che intenerisce i bambini con i suoi palloncini colorati prima di assassinarli con efferatezza. Un gruppuscolo di ragazzini nati perdenti stringe un patto di sangue per uccidere il mostro. Tra di loro c’è Bill, il fratello maggiore di George, detto anche “Bill tartaglia” per via della sua balbuzie.

“Che branco di miserevoli erano stati: Stan Uris con quel nasone da ebreo; Bill Denbrough che a parte: “Hi-yo, ragazzi!” non sapeva dire niente senza balbettare così spaventosamente da farti torcere le budella; Beverly Marsh con i suoi lividi e le sigarette nascoste nella manica della camicetta; Ben Hanscom, così grosso da sembrare una versione umana di Moby Dick; e Richie Tozier, con quei fondi di bottiglia che aveva per occhiali e i suoi voti da primo della classe e la sua lingua saggia e quella faccia che sembrava supplicare di essere squinternata e ricomposta in forme nuove ed eccitanti. C’era una parola per definirli? Oh sì. C’è sempre una parola. Nel loro caso era: impiastri”. In questo gruppo di sfigati emarginati, per completare il quadro, poteva mai mancare un amichetto “negro”? Certo che no. Il suo nome è Mike Hanlon. Con lui si aggiunge anche Eddie, un asmatico psicosomatico che se ne va in giro con un inalatore placebo in tasca.

Sconfiggere il mostro per il club dei perdenti è evidentemente un’impresa impossibile, se non altro perché It si trasforma in continuazione, assumendo sembianze sovraumane e dipanando la sua furia anche attraverso fenomeni sociali incontrollabili come il razzismo, l’omofobia e il bullismo. Henry Bowser, Victor Criss e Belch Huggins sono l’incarnazione di una gang violenta che tormenta e minaccia di morte ogni singolo membro del club. Eppure il piccolo esercito di Bill, un giorno di luglio del 1958, si ritrova faccia a faccia con il mostro, e dopo aver ingaggiato con lui una lotta serrata e spavalda, lo costringe incredibilmente alla fuga. E’ solo il primo round di una sfida che riprenderà ben ventisette anni dopo, quando a Derry ricominceranno quegli strani delitti: uccisioni di bambini, persone che scompaiono nell’indifferenza, quasi, degli abitanti del posto e dei media, che, per chissà quale ragione, preferiscono occuparsi d’altro. E’ come se ogni cosa facesse parte di un disegno più grande.

I piccoli eroi nel frattempo sono diventati adulti. Non sono più dei perdenti ma uomini di successo, professionisti affermati. Bill è un famoso scrittore di libri horror; Stanley Uris, che da bambino veniva preso in giro “Urina, sporco ammazzacristiani” è un ricco commercialista; Richard Tozier, il quattrocchi rincorso e picchiato da tutti, è diventato un noto deejay “L’uomo dalle mille voci”. Ben il ciccione è finito sulla copertina di Time come il più promettente giovane architetto d’America. Magro, atletico, affascinante. Eddie Kaspbrak gestisce un servizio di limousine a New York, mentre Beverly è diventata un’apprezzata disegnatrice di moda.‎

Cosa ricordano di quella tragica esperienza vissuta tanti anni fa? Nulla. Hanno rimosso tutto, cancellato ogni traccia. Il solo a ricordare è Mike, l’afroamericano, l’unico dei sette che è rimasto a Derry. Gli americani costruiscono il loro successo sull’oblio, sembra volerci dire Stephen King. E’ la loro forza ma anche una debolezza, perché talvolta finiscono per ripetere gli errori del passato. Ma i neri non dimenticano. Mike Hanlon, il depositario della memoria, sa che It è tornato, chiama i suoi amici e li convoca a Derry per l’ultimo atto di quella sfida infernale.

Siamo alla seconda parte della storia. E’ il 28 maggio del 1985. Cosa accade la sera di quel 28 maggio nella vasca da bagno di Stanley Uris, da pagina 64 a pagina 68, non ve lo dico. Ma qualunque cosa vi suggerisca la parola “suspense” non si avvicina neppure lontanamente a quanto leggerete in quel paragrafo del libro.

Ritrovarsi dopo tutto quel tempo è per i perdenti di Bill un’esperienza sicuramente emozionante, ma anche molto dolorosa. Fare i conti con gli spettri dell’infanzia, con la paura di quei giorni, ricordare l’indicibile, mette agitazione “una parte di loro non era mai cresciuta, non aveva mai lasciato Derry”. Ora ogni tassello di quella vicenda riacquista limpidezza e si rinnova nella sua dimensione tragica. I lividi riaffiorano come i ricordi rimossi, e perfino la balbuzie di Bill ritorna quella di un tempo. Sono le ultime cento delle 1.315 pagine che compongono il romanzo, quelle del gran finale, del redde rationem.

It è il capolavoro di Stephen King, ed è anche uno dei libri più conosciuti della sua vasta produzione letteraria. Esce nel 1986, a pochi mesi di distanza da un altro grande romanzo: Amatissima – Beloved nella versione originale – di Toni Morrison, premio Pulitzer nel 1988. Quelle di Morrison e di King sono storie diverse ma accomunate da uno stesso tema: la rimozione del ricordo. Come i sette amici di It, infatti, anche la protagonista di Amatissima vorrebbe dimenticare la tragedia di sua figlia, da lei stessa uccisa per sottrarla all’orrore della schiavitù.

Il romanzo di King è prodigioso, trascinante fino all’ultima riga. Relegarlo sotto l’etichetta del genere “horror” è un’ingenerosa diminutio, dal momento che il libro affronta argomenti anche più interessanti della paura generata dal mostro, come l’infanzia, l’amicizia e il successo, che in Amarica viene spesso costruito sulla damnatio memoriae. Un romanzo di formazione, dunque, dalle venature fantasy e horror, nel quale ritroviamo brandelli di altre opere celebri: Oliver Twist di Charles Dickens e, perché no, Le Avventure di Augie March di Saul Bellow. Potevano bastare settecento o ottocento pagine a King per raccontare le peripezie dei suoi perdenti? Probabilmente sì, ma la storia avrebbe perso una parte consistente del suo fascino, quella che indiscutibilmente possiedono tutte le narrazioni voluminose, dall’Ulisse di Joyce a Il cardellino di Donna Tartt.

Angelo Cennamo

      

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LA CARTA E IL TERRITORIO – Michel Houellebecq

La carta e il territorio - Houellebecq

Meglio la realtà o la sua rappresentazione?

La carta e il territorio è il romanzo più complesso ed originale di Michel Houllebecq, vincitore del premio Goncourt nel 2010. Il libro racconta la vita di Jed Martin, un pittore e fotografo parigino “tranquillo e senza gioia, definitivamente neutro“. Manca poco alla vigilia di Natale. Quella sera Jed la trascorrerà nella casa di riposo di suo padre, un ex impresario edile, rimasto vedovo nei primi anni di matrimonio a seguito del suicidio della moglie. Jed è cresciuto da solo, in collegio, leggendo molti classici ed appassionandosi alla storia dell’arte. Cosa avranno da dirsi lui e suo padre? Poco o nulla “Nei paesi latini, la politica può bastare ai bisogni di conversazione dei maschi di mezza età o di età avanzata; essa viene talvolta sostituita nelle classi inferiori dallo sport“. La cena nel grigio ospizio è un incontro tra due solitudini, silenzi prolungati intervallati da sguardi pensierosi, assenti fino al commiato. Un appuntamento di circostanza, si direbbe, deprimente, triste come l’ambiente che li circonda e come l’atmosfera che pervade tutta la narrazione. Un giorno i due si ritrovano in un lungo viaggio, in autostrada. Jed compra una carta Michelin. Una folgorazione “L’essenza della modernità, dell’apprendimento scientifico e tecnico del mondo vi si trovava mescolata con l’essenza della vita animale“. E’ l’inizio della sua rivoluzione estetica, la svolta che lo porta a fotografare solo carte Michelin e ad innamorarsi di Olga, una russa molto affascinante “una delle cinque più belle donne di Parigi“.

Il grande successo non tarda ad arrivare. Ha il volto e la scrittura di un grande autore francese, personaggio schivo e notoriamente sociopatico: Michel Houllebecq “Era di dominio pubblico che Houellebecq era un solitario con forti tendenze misantropiche; era tanto se rivolgeva la parola al suo cane”. Lo scrittore vive in un luogo sperduto della campagna irlandese. Jed vola da lui per chiedergli di scrivere il catalogo di una sua mostra. L’incontro tra i due è esilarante. L’erba del giardino è altissima e trascurata. La casa, grande, con molte stanze vuote e scatoloni a terra, fa pensare che Houellebecq ci si sia trasferito da poco “Si è appena sistemato qui? Sì. Insomma, sono tre anni“. Il pittore e lo scrittore sono identici: entrambi annoiati, apatici, insofferenti, delusi dall’umanità “dopotutto anche lui non provava per la vita che un amore incerto, passava per qualcuno di piuttosto riservato e triste”. Da questo momento, il romanzo si trasforma in un divertente gioco di specchi nel quale l’autore della storia si riflette nel protagonista e nel suo doppio. Il ritratto che Jed dipinge allo scrittore per ripagarlo del catalogo è l’espediente letterario attraverso il quale Houellebecq, prima ancora di essere ammazzato per mano di uno sconosciuto, scompare dalla realtà per diventare un’opera d’arte, la rappresentazione di sé.

La carta e il territorio è un libro sul denaro, sull’amore, e sul rapporto tra padre e figlio. Ma è soprattutto una riflessione profonda sulla condizione umana e sulla morte. Un romanzo totale, scritto in modo magistrale dal genio eretico della letteratura europea. Un libro a tinte fosche, ma nel contempo venato di molta ironia. Come in altri suoi romanzi, anche in questo Houllebecq sembra riannodare i fili dell’esistenzialismo, e individuare nella finzione artistica la sola via di fuga da una realtà spesso deludente e monotona. La carta è meglio del territorio.

Angelo Cennamo

              

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LEVIATANO – Paul Auster

Leviatano - Paul Auster

“Sei giorni fa un uomo si è fatto saltare in aria sul ciglio di una strada del Wisconsin del nord. Non ci sono testimoni, ma pare che fosse seduto sull’erba accanto alla macchina intento a costruire una bomba, quando questa gli è esplosa ‎fra le mani per sbaglio. Secondo i referti dei medici legali che sono stati appena diramati, l’uomo è morto sul colpo”.

L’incipit di Leviatano – romanzo di Paul Auster uscito nel 1992 e pubblicato in Italia da Einaudi  –  è di quelli che non si dimenticano. La vittima dell’esplosione è Benjamin Sachs: uno scrittore di successo, dal vissuto turbolento e avventuroso. Il primo a scoprire la sua identità è l’amico e collega Peter Aaron, il quale, dopo aver appreso la tragica notizia, decide di ricostruire, passo dopo passo, gli ultimi anni di quella vita sbandata, convulsa e misteriosa, che lui solo conosce. Ben e Peter sono legati da una lunga amicizia nata per caso in un gelido inverno dentro un bar di New York. La scena del loro primo incontro è un gioiello di tecnica narrativa, forse la parte più interessante dell’intero romanzo. In quel tempo lui e Ben sono due giovani scrittori spiantati in cerca di gloria, due sognatori come ne incontriamo tanti nella letteratura americana, dall’Arturo Bandini di Fante al “disperato, erotico, stomp”  Bukowski. Storie parallele che mano mano finiscono per intrecciarsi pericolosamente oltre il dovuto, oltre la soglia dell’adulterio della moglie di Ben, e oltre il naturale rifiuto della crudeltà. Il rapporto che lega Ben a Peter sembra impossibile da scalfire, nonostante tutto.

Leviatano è il titolo che Sachs ha scelto per il romanzo che ha iniziato a scrivere in una baracca del Vermont, lontano dal mondo, dal suo mondo, dopo una brutta convalescenza che lo ha trasformato, cambiato dentro, al punto da spingerlo a rimettere in discussione gli affetti più cari e le proprie ambizioni di scrittore. Il libro finirà per scriverlo Peter, l’unico depositario di una verità difficile da spiegare e forse poco credibile.

Leviatano è un libro ambizioso, scritto magnificamente, che affronta i temi del tradimento e del fallimento. È soprattutto una carambola di eventi – incontri, incidenti, romanzi scritti e romanzi mai finiti – del tutto imprevedibili, governati unicamente dal caso. La vita di ciascuno è in totale balia del caso, scrive Paul Auster sulla copertina. È la cifra, questa, di tutta la sua produzione letteraria e questo libro non fa eccezione. L’impressione però è che questa volta Auster abbia esagerato: la lunga sequenza di eventi fortunosi che sovrasta la storia di Benjamin, la ricerca affannosa, quasi maniacale, della “strana combinazione” che deve per forza legare ogni step della trama, finisce infatti per ostacolare quel naturale processo di compenetrazione tra lettore e personaggio che rende la narrazione più intrigante, e per allontanare la storia da una realtà possibile e ripetibile. L’eccesso di zelo, o forse l’azzardo, che separa un buon romanzo dal capolavoro.

Angelo Cennamo

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