CAOS CALMO – Sandro Veronesi

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Quarantatré anni, manager di una nota azienda televisiva, benestante: Pietro Paladini può dirsi un uomo felice. Ha appena concluso una gara di surf con suo fratello Carlo e ora è disteso al sole della Maremma, beato, a pensare al matrimonio imminente con Lara. Un imprevisto beffardo però sta per deviare il corso degli eventi e travolgere tutto. Una donna scompare tra le onde, Pietro, di istinto, si tuffa nell’indifferenza di tutti, perfino del marito di lei. In quei minuti drammatici in cui rischia la propria vita per salvare quella di una sconosciuta, Pietro non immagina che poco distante dalla spiaggia, nella sua villa, sta per consumarsi un’altra tragedia: Lara viene stroncata da un aneurisma sotto gli occhi della figlia Claudia.

E’ questo l’antefatto di Caos calmo, il romanzo che nel 2006 vinse il premio Strega e fece conoscere nel mondo Sandro Veronesi, consacrandolo tra i migliori autori del panorama letterario italiano.

Ora Pietro è un giovane vedovo con una figlia di dieci anni e un futuro tutto da riscrivere. Ma è qui che il romanzo prende quota rivelando l’estro del suo autore. Da questo momento infatti l’esistenza del protagonista entra in una surreale fase di stand by durante la quale il tempo sembra rallentare e ogni cosa viene vissuta da una visuale completamente diversa da quella del cinico uomo d’affari della prima parte. Pietro smette di lavorare e decide di trascorrere le giornate davanti alla scuola elementare di Claudia. Una scelta a tutti incomprensibile, puerile, che Pietro però non fa per elaborare il suo lutto, per superare un dolore che forse non riesce neppure a provare fino in fondo, ma per risvegliare la sua coscienza di uomo e conoscere meglio il lato oscuro degli altri. Tutto nasce da una scommessa fatta con Claudia il primo giorno di scuola, al rientro dalle vacanze. Si fa per dire. Poi i giorni diventano due, tre, quattro, fino a che quella sosta si trasforma in un rituale assurdo e definitivo. Cos’è che spinge Pietro a rimanere lì, chiuso in macchina o seduto sopra una panchina per giorni e giorni? Una strana sensazione che lo riporta indietro, uno stallo che lo salva dalla sofferenza. E’ il caos calmo della fanciullezza. Un caos gioioso, privo di drammaticità, il caos degli zaini, degli astucci, dei quaderni, il caos dei bambini che contagia anche i loro genitori che, all’uscita di scuola, in quel breve lasso di tempo –  dieci minuti non di più – mollano la civiltà  alla quale sono inchiodati tutto il giorno e si comportano come i figli, lasciando l’auto in doppia fila, rischiando di perdere il cane o di farsi investire. In quel giardinetto Pietro trasferisce tutto il suo mondo: firma i contratti, telefona, riceve amici, parenti e colleghi di lavoro preoccupati per una fusione che potrebbe causare il licenziamento di alcuni di loro, Pietro compreso. Quel luogo fuori dal tempo, quell’oasi felice, via via diventa una sorta di confessionale dove tutti i protagonisti del racconto vanno a rivelare segreti e a sfogare le proprie sofferenze. Un giorno Pietro riceve la visita della donna che ha salvato in quella tragica mattinata al  mare. I due vivranno un’intensa notte di sesso nella stessa casa in cui Lara è morta pochi mesi prima, mentre Claudia dorme inconsapevole nella sua cameretta. Sarà l’ultimo guizzo di follia al quale Pietro si abbandonerà prima di ritornare alla faticosa normalità.

Caos Calmo è il miglior romanzo di Veronesi. Una bella fiaba moderna scritta con uno stile massimalistico e argomentativo dal sapore americano, ironico e profondo al tempo stesso. La prosa di Veronesi è scorrevole, briosa, e sorprende il lettore con un vortice di digressioni divertenti ed originali: Elenco delle compagnie aeree con cui ho volato: Alitalia, Air France, British Airways, Aeroflot, Iberia, Air Dolomiti, Air One, Sudan Air, Lufthansa; Aerolineas Argentinas, Egypt Air, Cathay Pacific, American Airlines, United Airlines, Continental Airlines, Delta, Alaska Airlines, Varig, KLM, TWA, Pan Am, Meridian, Jat. Così Pietro Paladini se ne va a zonzo nella memoria per non pensare al presente.          

Angelo Cennamo

 

 

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INFINITE JEST – David Foster Wallace

 

INFINITE JEST NEW

Mi siedono in un ufficio, sono circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sedia. Maneggiare un romanzo di David Foster Wallace è un’esperienza meta-letteraria. Un viaggio senza ritorno nelle viscere dell’umanità, il tentativo di esplorare un luogo sconosciuto di noi stessi e del mondo che ci sta intorno da una prospettiva nuova, inusuale, a metà strada tra l’iperrealismo e la follia. Ma perché uno scrittore oscuro e difficile come Foster Wallace piace così tanto? Difficile spiegarlo. Forse perché in quelle oscurità ritroviamo le nostre malinconie, le nostre insicurezze. Perché non esisteva scrittore vivente dotato di un virtuosismo retorico più autorevole, emozionante e inventivo del suo: I tergicristalli dipingono arcobaleni neri sul parabrezza luccicante dei taxiInfinite Jest  è un libro che per la sua mole – 1.280 pagine fittissime – incute terrore e scoraggia anche i cultori più incalliti della parola scritta. Lasciare però quel malloppo di carta in bella vista sulla scrivania alla stregua di un fermacarte qualunque o di un vecchio almanacco, temendo che la smisurata lunghezza possa annoiare o peggio logorarci i nervi fin dai primi capitoli – può accadere se non si è rodati al postmoderno spinto – è più di un peccato veniale: è negarsi a una rigenerazione emotiva che dopo tutto finisce per amplificare la nostra qualità di lettori – dopo aver letto Wallace si diventa lettori terribilmente esigenti. Una catarsi dunque. Ma prima della catarsi, il supplizio, sfiancante, ai limiti della sopportazione. Infinite Jest  è un romanzo meravigliosamente faticoso. Nei momenti di scoramento si ha voglia di lanciare il mattone contro la parete della camera da letto e maledire il critico della rivista o l’amico – in questo caso nemico – che ne ha consigliato l’acquisto. Ma dura poco. Dura poco perché dai libri di Wallace e dallo stu-po-re che generano le sue trame è difficile stare lontani. Quel vigore narrativo sempre sopra le righe, quella capacità rara di destare curiosità con un semplice dettaglio o con un dedalo di assurde coordinate dentro il quale ritrovare il soggetto della frase principale può diventare un vero rompicapo: è questo il genio letterario di Wallace. Infinite Jest  è un murales di emozioni profonde, dipinto con una prosa schizofrenica e così argomentativa da cancellare quasi la distinzione tra narrativa e saggistica. Un romanzo fluviale senza trama e senza un vero finale che racconta di una società rassegnata al proprio annientamento psichico e fisico. In un tempo imprecisato e sponsorizzato gli Usa avranno inglobato il Messico e il Canada in una supernazione chiamata ONAN. Wallace ambienta il romanzo all’interno dell’ETA ( Enfield Tennis Academy), un liceo per giovani promesse del tennis che sognano di  giocare nell’ATP “lo Show”, e all’Ennet House, un centro di riabilitazione per alcolisti e drogati che puzza del tempo che passa. Come tutti i protagonisti della storia, i ragazzi dell’ETA sono sopraffatti dalla noia e invischiati nell’uso di sostanze ricreative.  Infinite Jest è anche il titolo di un film misterioso che ipnotizza gli spettatori condannandoli ad una pericolosa assuefazione. Un’arma letale che può cambiare il corso degli eventi. Eccoci  dunque al tema del romanzo: la dipendenza. Dipendenza da qualunque cosa, non solo dall’alcol e dalle droghe. Forse anche dallo stesso libro che imprigiona il lettore più intrepido fino alle note del post scriptum in una sorta di stato catatonico: il magnetismo di Wallace è un argomento da approfondire, da studiare. Dicevamo della trama come espediente dell’autore per raccontare molto altro attraverso divagazioni su fatti, luoghi e personaggi, seguendo i consueti schemi labirintici ai quali the genius ci ha abituato per guidarci nel suo mondo enigmatico e ricco di suggestioni: dilatazioni spazio-temporali, periodi lunghi e frammentati senza mai un capoverso, punteggiatura fantasiosa. Un tracciato avventuroso che ci lascia senza fiato, attoniti. Del realismo isterico di Wallace e dell’impossibilità di cogliere fino in fondo tutte le sfaccettature della sua grammatica mentale non si può dire di più. La cosa più faticosa della mia vita dice Edoardo Nesi che del libro ha curato la traduzione in italiano. Cos’altro aggiungere: Infinte Jest  è un romanzo monumentale in ogni senso – il tomo è alto quanto il palmo di una mano – scomodo anche nell’approccio fisico. Ma è un’opera superba, irripetibile, che attraversa molti generi, una scheggia di autentica bellezza tra i classici della letteratura moderna.

Angelo Cennamo                                       

 

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SUTTREE – Cormac McCarthy

Suttree

“Eccoci arrivati in un mondo dentro il mondo. In queste lande straniere, queste foibe e sodaglie interstiziali che i giusti vedono dalle auto e dai treni, un’altra vita sogna”.

Knoxville, Tenessee, un uomo fugge dai suoi affetti più cari e si trasferisce in una baracca su un fiume. Il suo nome è Cornelius Suttree. Come un randagio solitario, Suttree sopravvive pescando pesci gatto che rivende in città, in quel mercato che sembra “un lazzaretto di generi alimentari e flora e umanità menomata”. Il suo mondo è un girone dantesco popolato di ladri, negri, ubriaconi e puttane. Una fauna di derelitti e di balordi con vissuti di galera e di grande sofferenza che incontra navigando con la sua barca e nei bar sgangherati di quella landa oscura fatta di “anonime costruzioni di carta catramata e lamiera, abitazioni fatte di nudo cartone e pisciatoi di assi traballanti inghiottiti da un turbinio di mosche”. Le giornate di Suttree sono un susseguirsi di ore avvilenti, oberate di una fatica inconcludente, precaria, tra i rottami squallidi di quella campagna povera, spettrale, sulle sponde di un fiume sporco ma vitale che scorre silenzioso oltre ogni solitudine, e “sotto il flusso dell’acqua cannoni e affusti, orecchioni incagliati che arrugginivano nel fango, barche a chiglia decomposte in mucillagine. Leggendari storioni dal corpo corneo e pentagonale, pesci gatto e carpe cupree e lucenti come lasche, con il loro ventre pallido e senza sprue, una densa fanchiglia tempestata di vetri rotti, ossa e barattoli arruginiti e cocci di stoviglie venate di crepe nere di fango“. In mezzo a quella brodaglia e a quegli scarti Suttree è “come feccia sul fondo di un calice”, un uomo che non ha propositi, né di tornare da dove è venuto né di raccontare quello che ha visto. Il suo è un girovagare senza fine, senza meta, che un giorno lo porterà ad abbandonare definitivamente quei luoghi palustri, prossimi ormai alla contaminazione di una nuova civiltà urbana “camminando per l’ultima volta lungo quella stretta strada si sentì scivolare di dosso ogni cosa. Finché non gli rimase più nulla di cui disfarsi. Era tutto scomparso. Nessuna scia, nessuna traccia“. Io, vagabondo che non sono altro.
Se non ha mai letto Cormac McCarthy della letteratura non hai capito nulla, disse una volta David Foster Wallace a un amico regista, al quale suggerì di fare di questo libro una trasposizione cinematografica. Chi ha conosciuto il McCarthy di Merdiano di sangue, Cavalli selvaggi, La Strada, leggendo Suttree – romanzo del 1979 tradotto in Italia solo 30 anni dopo – scoprirà una versione completamente inedita del grande maestro di Providence che Harold Bloom indica tra i superquattro viventi con Delillo, Pinchon e Roth, per via di uno stile tutt’altro che asciutto ed essenziale al quale McCarthy ci ha abituati con i suoi straordinari racconti western. Al contrario, Suttree è un romanzo dalla prosa rigogliosa, massimalista, argomentativa, poetica, ricca di metafore e di descrizioni suggestive che sembra aver lasciato una traccia profonda nella letteratura recente: “L’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati” – “I tergicristalli dipingono arcobaleni neri sul parabrezza luccicante dei taxi (Infinite Jest  – David Foster Wallace). La storia di Cornelius Suttree è romanzo senza trama e senza un vero finale. Un diario o un lungo flusso di coscienza che ci ricorda l’Ulisse di Joyce e in alcuni passaggi anche la Divina Commedia di Dante: “particella di materia attonita che si essicca nel fango conciante, la terra damnata della defunta alchimia cittadina”. Un’opera superba dalla scrittura ricercata, immensa e inimitabile.

Angelo Cennamo              

  

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DIO DI ILLUSIONI – Donna Tartt

Dio di Illusioni Tartt

“Dioniso è maestro di illusione, colui che sa far crescere una vite da un legno di nave e in generale rende capaci i suoi devoti di vedere il mondo come non e’ “.

In un tempo recente ma indefinito, il giovane incompreso Richard Papen lascia la California e l’area di servizio dove vive con i genitori per trasferirsi in un college esclusivo del Vermont. Qui conosce Julian Morrow, un eccentrico professore di greco che seleziona i suoi studenti secondo criteri personali più che accademici. Morrow è un uomo carismatico, un fine intellettuale in passato amico di Ezra Pound e di T.S. Eliot, un oratore meraviglioso che considera il suo lavoro “una gloriosa forma di gioco“. Ma ha delle strane manie: i suoi corsi sono riservati a una cerchia ristretta di studenti che in lui avranno il solo ed unico maestro: “dopotutto anche Platone aveva un solo maestro, e così Alessandro“. Richard, che ha voglia di studiare il greco antico, ne rimane immediatamente affascinato, al punto di accettare senza riserve la sua rigida imposizione. Con lui ci sono altri 5 ragazzi, ricchi e viziati, più avanti nella conoscenza dei classici rispetto all’ultimo arrivato, verso il quale sembrano provare fin da subito una certa diffidenza. Bunny, Francis, i gemelli Charles e Camilla, ed Henry formano una conventicola snob e fuori dal mondo “nessuno dei cinque era minimamente interessato alle cose del mondo… alla luce elettrica Henry preferiva le lampade al cherosene” presa unicamente dallo studio della letteratura e dei miti greci. Richard inizialmente osserva il gruppo dall’esterno. Con molta fatica prova a penetrare quel muro invisibile di piccoli segreti, sotterfugi e di complicità  oltre il quale non riesce a vedere: “volevo cullarmi nell’illusione che fossero del tutto sinceri nei miei confronti, che eravamo amici, senza segreti. Invece di molti fatti non mi tenevano al corrente“. Richard ammira molto Julian Morrow, ma anche Henry, l’allievo più erudito e promettente ( il vero protagonista del romanzo) : “la loro ragione, i loro occhi e orecchi vivevano entro i confini di quei veri antichi ritmi – il mondo a me noto non era la loro casa – e, lungi dall’essere visitatori occasionali di quella terra, al pari di me stesso, turista ammirato, ne erano piuttosto abitatori permanenti“. Una sera i compagni di Richard, trascinati dallo studio ossessivo del greco e dal fanatismo di Morrow, cedono all’alcol e alla droga per raggiungere l’estasi dionisiaca. In un bosco fuori città celebrano un baccanale in piena regola, con preghiere, misteriosi riti magici e pratiche sessuali. Siamo al momento cruciale del racconto. In preda all’ebbrezza e a quello stato di scomposta esaltazione, Henry, forse senza rendersene conto, uccide un uomo. Bunny quella sera non c’è, ma l’assassino e i suoi complici faticano a nascondere il misfatto. Ora Bunny sa tutto, scherza, allude, ricatta: “aveva un carattere imprevedibile e si fiondava nella vita guidato solo dalla fioca luce dell’impulso e dell’abitudine“. Dentro quella imprevedibile spirale di violenza dovrà finirci anche lui. Il destino del gruppo è segnato, quel mondo di eccessi e di pericolose complicità comincia piano piano a sfaldarsi, a crollare un pezzo alla volta. “A cosa pensava Richard mentre vedeva morire Bunny? Non al fatto che stava aiutando i suoi amici a salvarsi, ma a piccole cose, insulti, insinuazioni, crudeltà che in quel momento, a distanza di mesi, chiedevano vendetta“.

Dio di illusioniThe Secret History nella versione americana  – è il romanzo di esordio di Donna Tartt, scritto venti anni prima del più celebre Il Cardellino, con il quale l’autrice americana vinse il premio Pulitzer nel 2014. È un libro ambizioso, con una trama originale e seducente sia per l’ambientazione spazio-temporale del racconto, a metà strada tra la modernità e l’antica Grecia, sia per la prosa erudita e ricercata che nella tradizione della Tartt risente molto l’influsso dell’arte e della cultura classica della vecchia Europa. Un romanzo di formazione nel quale si fondono sentimenti e ossessioni ai limiti del verosimile, che rendono però la storia ricca di suggestione e di una rara intensità che accompagna il lettore dal prologo – luogo nel quale si preannuncia la morte di Bunny – fino all’ultimo capitolo del libro. Per raccontare le vicende di quella bizzarra conventicola e delle sue illusioni perverse alla Tartt potevano bastare anche quattrocento delle seicentoventidue pagine di cui si compone il romanzo –  Simenon ne avrebbe impiegate al massimo 250. Ma è l’unico limite di un’opera nel complesso vigorosa, armoniosa e magnificamente scritta da una ragazza di appena 28 anni con un grande futuro davanti a sé.

Angelo Cennamo

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MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO – Jonathan Safran Foer

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“Troppi Jonathan nella letteratura” scrive Jonathan Franzen nel suo ultimo romanzo Purity – Coe, Lethem, Miles…Safran Foer, che nel 2005, quando viene pubblicato Molto forte, Incredibilmente vicino, di anni ne ha appena ventotto. Jonathan Safran Foer è tra gli autori più interessanti e visionari della nuova generazione americana. Nonostante la giovane età, al suo attivo ha già diversi racconti, un saggio e tre romanzi ben recensiti. Nei prossimi mesi uscirà il suo quarto romanzo, l’attesissimo Here I am. Con Extremely Loud and Incredibly Close – nella versione Usa – Safran Foer si consacra tra gli scrittori più amati dalla critica e dal pubblico anche fuori dai confini nazionali. Il romanzo racconta la storia di Oskar Schell, un bambino di nove anni che ha perso il padre nell’attentato alle Torri Gemelle. Oskar è un ragazzino intelligente, intraprendente, sensibile, e con molta immaginazione. Un giorno, frugando nel ripostiglio del padre, trova una busta con una chiave. Sul retro della busta c’è una scritta: “Black”. Che vorrà dire? Chi sarà mai questo Mr. Black? E quale serratura aprirà quella chiave? Inizia così un viaggio straordinario di molti mesi che porterà il bambino alla ricerca di tutti i signor Black di New York. Quel girovagare tra i cinque distretti della città farà conoscere a Oskar un’umanità nuova e curiosa come lui, ma soprattutto lo farà sentire più vicino al padre. L’indagine del piccolo protagonista non è però l’unico tema del libro, la sua storia infatti si intreccia ad un’altra vicenda appassionante, quella di suo nonno, un uomo segnato profondamente dalla morte di una ragazza avvenuta durante la seconda guerra mondiale, al punto da rinchiudersi in un misterioso mutismo che lo porta a comunicare col mondo esterno solo attraverso la scrittura, e a scappare di casa alla nascita del figlio Thomas “perché la vita talvolta può essere più dolorosa della morte”.

Molto forte, Incredibilmente vicino è un romanzo dalla struttura insolita, immaginato e scritto da Safran Foer come farebbe un bambino dell’età di Oskar. La tecnica adoperata dall’autore contribuisce a rendere il racconto originale non solo per i contenuti della trama ma anche per il linguaggio stesso della narrazione e per la grafica ( alcune pagine sono occupate da una sola frase o da una sola parola, in altre troviamo delle lettere cerchiate di rosso ). E’ un libro ricco di tenerezza e di poesia che parla dell’assenza, quella del padre sconosciuto di Thomas, che trascorre la propria esistenza lontano dalla famiglia a scrivere lettere mai spedite al figlio. E l’assenza di Thomas, uscito dalla vita di Oskar troppo presto per una tragica fatalità che poteva essere evitata. Tutto il romanzo è giocato sulla doppia sponda temporale delle due storie che inaspettatamente si ricongiungono in un finale commovente ed intenso.

Angelo Cennamo                        

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BENEDIZIONE – Kent Haruf

KENT HARUF Benedizione

Dopo aver letto romanzi come Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo – la cd Trilogia della pianura – la prima domanda che ci salta in mente è come mai uno scrittore come Kent Haruf in Italia sia così poco conosciuto. La seconda è come mai i suoi libri siano pubblicati da una minuscola casa editrice milanese, la NNEditore, anziché da colossi dell’editoria: Einaudi, Rizzoli, Mondadori ecc. Di Haruf si fa fatica a trovare anche pochi cenni biografici. Di lui sappiamo che è originario di Pueblo, nel Colorado, che è morto due anni fa, e che prima di approdare alla narrativa ha fatto svariati mestieri: l’infermiere, il carpentiere, il bibliotecario.

Benedizione, uscito per la prima volta in America nel 2013, racconta l’ultimo mese di vita di un uomo al quale è stato diagnosticato un cancro. Dad Lewis, questo il nome del protagonista, vive con la moglie Mary nella sua vecchia casa di campagna nella periferia di Holt, una cittadina immaginaria del Colorado – Stato situato nella zona centrale degli Usa, dal paesaggio mozzafiato, dominato da aspre catene montuose e da pianure sconfinate che d’estate profumano di mais. L’America contadina, romantica, nazionalista e puritana dei coniugi Lewis è un piccolo mondo antico fatto di valori semplici e indissolubili dove le parole computer e smartphone sono bandite dal racconto, e perfino l’adulterio può diventare causa di licenziamento. Intorno alla  figura del vecchio Dad e al suo capezzale ruotano diversi personaggi, mai gregari ma cooprotagonisti di una storia lenta e avvolgente che sa intrattenere e commuovere al tempo stesso: la figlia Lorraine, segnata da una precedente tragedia familiare e venuta da Denver per assistere i genitori nei giorni più dolorosi; il reverendo Lyle, malvisto dalla comunità di Holt perché predica la tolleranza negli anni in cui il suo Paese è in guerra contro l’integralismo islamico; la vicina di casa Berta May, che vive in compagnia della nipotina Alice rimasta orfana della madre; le signore Johnson: Willa e sua figlia Alene “donna di mezza età sola e isolata, l’insegnante senza marito che passa la vita in mezzo ai figli degli altri, una che un tempo prima aveva avuto un breve, eccitante momento di passione ma poi aveva fatto marcia indietro”; Frank Lewis, il figlio omosessuale di Dad e Mary, scappato di casa dopo il diploma e mai più tornato.

Benedizione è un romanzo corale in cui le vite dei personaggi si intrecciano le une alle altre in un afflato di valori e di sentimenti autentici che resistono al logorio della modernità. Un libro ricco di poesia e di suggestioni country che affronta i temi delle relazioni umane, della malattia e della ricerca della redenzione con molto garbo e con delicatezza. Il Colorado di Kent Haruf somiglia molto al Maine di Elizabeth Strout, così come la contea di Holt ci ricorda Crosby, il villaggio dove la scrittrice di Portland ha ambientato i racconti di Olive Kitteridge. Stesse atmosfere che evocano un’America lontana  dai grattacieli e dal frastuono delle metropoli; un Paese rurale, attraversato da mandrie di bovini al pascolo e solcato da strade polverose di terra battuta. In una delle scene più pittoresche del romanzo, Lorraine e le signore Johnson, per trovare refrigerio dalla calura estiva, si denudano e fanno il bagno nell’abbeveratoio del bestiame, tra le mucche che riposano, il fango e il letame. Pagine indimenticabili di una letteratura sobria e minimalista che merita di essere riscoperta e approfondita.

 

Angelo Cennamo                                                      

 

 

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