ROBICHEAUX – James Lee Burke

La biografia di James Lee Burke, classe 1936 (millenovecentotrentasei!), originario di Houston ma vissuto nella Louisiana, non è molto diversa da quella di tanti romanzieri americani della sua generazione: mille mestieri, da geometra a giornalista, poi docente universitario, impiegato in una compagnia petrolifera, e un rapporto tormentato con la scrittura che lo ha visto inciampare numerose volte prima di consacrarsi come autore di successo del genere crime proprio con la fortunata serie di Dave Robicheaux, il personaggio che gli è riuscito meglio e che al cinema ha avuto i volti di Alec Baldwin e Tommy Lee Jones. E sì perché di porte in faccia Burke ne ha prese parecchie; pensate che uno dei suoi romanzi più tribolati, “The Lost Get-Back Boogie”, fu bocciato dalle case editrici più di cento volte, ben oltre i diciotto tentativi falliti di Joyce per il suo “Ulisse” o i trentadue di Douglas Stuart per “Shuggie Bain”. Per quanto sia uno scrittore abbastanza prolifico e conosciuto negli Usa, le storie di Burke per anni hanno latitato dalle nostre librerie. “Robicheaux” è un romanzo del 2018, in Italia è arrivato con Jimenez – editore sempre attento alla narrativa d’oltreoceano – e la traduzione di Gianluca Testani. Parliamo chiaramente di un crime, e della migliore specie: se non avete fatto ancora i conti con Mr. Robicheaux, affrettatevi a conoscerlo, entrare nel suo ambiente, frequentare amici e nemici, la ristretta cerchia familiare oggi ridotta alla sola figlia Alafair (uno dei quattro figli di Burke si chiama così).

Di “Robicheaux” ci sorprendono soprattutto due cose. La prima: il profilo del protagonista (il vissuto, i ricordi, la dipendenza dall’alcol – le uscite e le ricadute – i modi spicci, la ruvidezza dei dialoghi, il rapporto con la figlia, le radici con la storia e i luoghi). La seconda: i paesaggi della Louisiana, essenziali nell’economia di questa e delle altre storie della serie, e che nell’interazione con il poliziotto (anche voce narrante) conferiscono al romanzo quella poeticità che solo la letteratura del sud sa regalarci. In una delle scene più belle del libro vediamo Dave incamminarsi verso casa sotto la pioggia, e nella nebbia rivolgere un cenno di saluto al timoniere del rimorchiatore che sta risalendo il bayou “Avrei voluto farmi una bevuta con lui. Avrei voluto essere sulla sua barca e navigare indietro nel tempo e trovare un posto dove non c’erano orologi né calendari”.

Robicheaux si muove su più fronti: vuole vincere una volta per tutte la sua guerra con l’alcol, e nel corso di un’indagine è costretto a difendersi dal sospetto di essere lui stesso l’assassino dell’uomo che ha tolto la vita a sua moglie Molly in un incidente stradale. Burke semina indizi, svia, cambia registro, fa ruotare intorno al protagonista un cast di personaggi spietati e indimenticabili; costruisce una magnifica storia di vendetta, razzismo e misoginia, collocandola in uno dei luoghi più affascinanti d’America “Metà della Louisiana è sott’acqua, l’altra metà è sotto accusa”.

Angelo Cennamo

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CINQUE ANNI FA CI LASCIAVA PHILIP ROTH

Il 22 maggio del 2018 ci lasciava Philip Roth, scrittore originario di Newark (New Jersey). Oltre trenta libri, quasi tutti di fiction, un premio Pulitzer con Pastorale Americana, un National Book Award con la sua opera prima Goodbye, Columbus. Niente Nobel per essere finito, pare, nel mirino dei nuovi ayatollah (Me too, Cancel Culture, eccetera eccetera), quelli che non distinguono la realtà dalla letteratura, a New York come a Stoccolma. La lunga parabola di romanziere la possiamo dividere in due stagioni: quella del figlio (Lamento di Portnoy romanzo simbolo), quella del padre (Seymour Levov il padre di Pastorale Americana ne è l’interprete principale. Roth non è stato padre nella vita ma lo è stato nei libri). Patrimonio – la storia commovente della malattia e della fine di papà Herman – sia pure in una cronologia asimmetrica, è il romanzo cerniera: Roth smette i panni del figlio e diventa padre. Perché è importante leggere Philip Roth. Perché è stato il più grande scrittore della sua generazione e non solo. Perché ha saputo farci ridere raccontando la morte e piangere parlando di sesso. Perché non ha cavalcato l’onda del sentire comune ma si è ribellato ad ogni ordine precostituito: religioso, sociale, familiare. Perché, giocando con la verità e la finzione, ci ha condotti nella sua vita attraverso trame prodigiose e virtuosismi retorici che nessuna intelligenza artificiale riuscirà mai a sfiorare.

Angelo Cennamo

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IL PASSEGGERO – Cormac McCarthy

“Se siete fortunati vi stancherete di questo libro” scrive Mark Danielewski nelle prime battute di “Casa di foglie”. Molti di voi penseranno la stessa cosa leggendo “Il passeggero” di Cormac McCarthy, il romanzo più atteso degli ultimi sedici anni e fatto uscire diviso in due parti, l’altra (“Stella Maris”), il sequel o prequel a seconda dei punti di vista (Joy Williams dice che la sequenza giusta è quella inversa) sarà pubblicata a settembre sempre da Einaudi e con la traduzione di Maurizia Balmelli. Ma chi glielo ha fatto fare a McCarthy di ritornare in pista a novant’anni suonati dopo aver sfornato capolavori come “La strada” – premio Pulitzer nel 2007 – “La trilogia della frontiera” o Meridiano di sangue”, per Harold Bloom Il Grande Romanzo Americano con “Moby Dick” di Melville e “Mentre morivo” di Faulkner? L’idea pare sia partita da lontano: appunti, bozze, rinvii, cassetti chiusi poi riaperti, studi recenti di fisica, e l’urgenza di confrontarsi con il più decisivo degli appuntamenti, scandagliarlo nei limiti del possibile con la scienza, proseguendo oltre attraverso la scrittura. “Il passeggero” è un romanzo-poema che sfugge a qualunque canone o codificazione letteraria, i pochi esempi che mi tornano in mente sono “Ulisse” di Joyce, “Lincoln nel bardo” di Saunders, “Petrolio” di Pasolini. Un’opera non di trama ma di senso, con sequenze disarticolate, parti smarginate oltre la normale tollerabilità/comprensione del lettore medio, ma con momenti di spettacolare profondità e di rara bellezza: spunti, riflessioni, frasi che ci resteranno impresse nella memoria e che rileggeremo o sentiremo pronunciare chissà quante altre volte “condividere la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue”. L’America disegnata da McCarthy non è la terra selvaggia e cruenta dei suoi western più celebri, neppure quella apocalittica dell’ultima versione premiata col Pulitzer, è una nazione cupa, crepuscolare, divisa fondamentalmente in due ambienti: la stanza dell’ospedale psichiatrico dove è ricoverata Alicia (genio della matematica e ragazza schizofrenica); gli spazi aperti nei quali si muove il fratello Bobby, ex pilota di formula due, oggi sommozzatore impegnato in missioni di recupero. Le due parti sono separate e alternate, con un tempo reale e un tempo narrativo che si confondono in una strana asimmetria, e con una serie di rimandi alla figura del padre dei due protagonisti, scienziato di fama internazionale, tra i progettisti della bomba atomica sganciata su Hiroshima. La parte di Alicia è scritta in corsivo ed è la più ostica per i suoi sconfinamenti metafisici: la ragazza, suicidatasi dieci anni prima, nelle sue continue allucinazioni viene visitata da creature immaginarie tra le quali si impone la figura di Kid. Kid è un nome ricorrente nella letteratura di McCarthy: c’è un personaggio di nome Kid anche in “Meridiano di sangue”. Uno dei temi della storia è l’amore incestuoso tra i due fratelli: Bobby è inguaribilmente innamorato della sorella morta. L’assenza di lei si riflette nella scomparsa di un altro personaggio del libro: l’ottavo passeggero di un JetStar, apparentemente intatto, adagiato sul fondale del Golfo del Messico per una ragione che non conosciamo. Nessuno sa di quel disastro, nessuno ne parla: chi ha fatto sparire la scatola nera dell’aereo? La scoperta non dovuta di Bobby coinciderà con la sua rovina: due emissari del governo inizieranno a perseguitarlo costringendolo alla fuga. 

Il vagabondaggio, nelle ultime cento pagine, è la parte più poetica e mccarthyana del racconto. L’isolamento di Bobby ricorda la condizione di Cornelius “Suttree”, anche lui come Bobby originario di Knoxville, nel Tennessee “È Knoxville che sforna fuori di testa o li attira soltanto?”. 

“Traslocò in una baracca persa tra le dune poco più a sud di Bay St Louis. La sera camminava per la spiaggia e spingeva lo sguardo sull’acqua grigia dove stormi di pellicani scendevano faticosamente la costa nei loro lenti voli a due sopra le onde lunghe del mare aperto. Uccelli improbabili”. 
Cosa si nasconde nel buio della notte cosmica? McCarthy prova a schiarire le tenebre, ma non c’è scampo “ogni realtà è perdita e ogni perdita è definitiva. Altre non ce n’è. E la realtà che indaghiamo deve prima di tutto contenerci. E cosa siamo noi? Dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno”. 

“Il passeggero” non è il miglior libro di Cormac McCarthy: pecca di credibilità, alcuni passaggi appaiono eccessivamente sconnessi e dispersivi. Non disturba invece la parte dialogica, dominante nelle trecentottantacinque pagine, né le divagazioni scientifiche sulla fisica quantistica e sulla matematica, funzionali alla narrazione e foriere forse di un mistero che sarà svelato in “Stella Maris”. To be continued. 

Angelo Cennamo

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VATICAN TABLOID – Pietro Caliceti

La scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta esattamente quarant’anni fa, è una vicenda ancora tutta da chiarire, “il nostro caso Kennedy” dice Alessio Macchia a Warren Hamilton. Hamilton è Papa Pietro Secondo, Macchia il suo uomo fidato. Siamo nel bel mezzo di “Vatican Tabloid”, il nuovo romanzo di Pietro Caliceti, secondo capitolo di una trilogia iniziata tre anni fa con “L’opzione di Dio”, editi entrambi da Baldini+Castoldi. 

“L’America non è mai stata innocente”, recita l’incipit di un altro “Tabloid” al quale il libro di Caliceti sembra strizzare l’occhio “Questa cosa della Teologia della Liberazione per la Chiesa è mooolto pericolosa” e in questa “o” strascicata sembra proprio di vederlo, il re del Crime. Ma al di là delle assonanze con il capolavoro di James Ellroy, nel Tabloid italiano si parla d’altro, per quanto l’America un ruolo da protagonista ce l’abbia eccome: l’America c’entra sempre. Vale la pena addentrarsi in queste cinquecento e passa pagine fittissime di fatti veri e non veri, di personaggi reali e di altri inventati, senza aver letto il primo episodio della trilogia? Direi che è possibile, ma non ve lo consiglio: nel caso, prendete tutti e due i libri e cominciate da “L’opzione di Dio”. Ma vediamo ora a che punto siamo con la storia. 

Pietro Secondo, eletto grazie al sostegno dei musulmani dell’Isis e dei loro soldi nascosti nello IOR, ha indetto un Anno Santo speciale, l’Anno Santo della Resurrezione. Della Chiesa più che di Cristo. Tra l’idea del Giubileo e il suo compimento c’è il romanzo. Prima di tutto il presente narrativo, con una lettera anonima spedita non si sa da chi al Papa, che mette in all’erta i servizi segreti, l'”Entità”, e che dà il via anche a una seconda indagine, parallela a quella ufficiale. Poco dopo, la scoperta nell’ambasciata vaticana a Roma di resti umani riaccende il caso Orlandi. Ed è qui che il racconto si sdoppia tra l’attualità del futuro e un passato già scritto. Seguendo lo schema ellroyano, Caliceti ricostruisce in chiave crime cinquant’anni di storia italiana, da Moro a Wojtyla, dalla banda della Magliana all’omicidio Pecorelli (il direttore di OP che infastidiva i vertici della Dc e per la cui morte finì sotto precesso Giulio Andreotti), da Calvi a Sindona, da Renatino De Pedis a Marcinkus, da Carminati alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. 

Hamilton è un progressista, intende seguire la via dell’apertura, la stessa del suo predecessore e prima di lui di Bergoglio: andare verso “le periferie esistenziali” oltre quelle geografiche. Ma è assalito da un dubbio: troppa umana comprensione non finirà per danneggiare la Chiesa tanto da renderla invisibile e inefficace? È una delle questioni più interessanti affrontate da Caliceti, che di tanto in tanto si spinge fuori dai confini della narrativa. 

“Vatican Tabloid” è  il Grande Romanzo Crime Italiano, un’opera work in progress che ha un solo precedente: la trilogia del male di Roberto Costantini, con la quale  questa  forma un dittico imprescindibile per tutti gli amanti del new journalism alla Capote o dell’epica noir di Don Winslow. Caliceti tiene insieme il vero e il falso evitando giudizi morali, moniti o proclami. Il romanzo è veloce, ben costruito sui diversi piani temporali e accorpato in paragrafi brevi che ne agevolano la lettura. To be continued. 

Angelo Cennamo

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URLANDO CON I CANNIBALI – Lee Maynard

“Crum è ovunque. C’è una Crum sepolta nel profondo della maggior parte di noi… Può essere diversa per ciascuno di noi, un luogo così penoso, così vacuo, così veritiero, così estremo, così oscuro, così abrasivo, così formante, così maledettamente formante che esiste una sola cosa che vi può venire in mente di fare. Scappare”. 

“Urlando con i cannibali” (“Screaming with the cannibals”) è il secondo capitolo della trilogia di Crum di Lee Maynard, scrittore del West Virginia la cui ruvidezza ricorda un po’ quella di certi romanzieri senza fronzoli alla Ron Rash, Chris Offutt, Joe Lansdale, Willy Vlautin… insomma ci siamo capiti. In Italia il libro arriva con vent’anni di ritardo rispetto alla prima uscita americana del 2003. A pubblicarlo è Mattioli 1885 con la traduzione di Nicola Manuppelli. 

Siamo nel West Virginia degli anni ’50. Jesse (chiamato così in onore del prozio Long Neck, uomo alto e magro come il palo di una staccionata, ahimè incenerito da un fulmine all’inizio del romanzo – gran bel personaggio questo Long Neck) non si è mai mosso dal suo paesello: quattro case, la scuola, gli amici, una noia infinita. Jesse osserva gli adulti. Osserva e impara. Impara e scalpita. 

“Crum era il passato e anche il tempo che avevo trascorso lì era il passato”.

Con una valigia di cartone e pochi dollari in tasca, il ragazzo di campagna parte per non sa neanche lui dove, e con passaggi di fortuna passa il Tug River per ritrovarsi nel Kentucky. Attento, Jesse, è brutta gente, sono degli “inchiappetta-maiali”, dei cannibali! Così gli dicevano tutte le volte che a nuoto provava a toccare l’altra sponda. Inizia da qui il lungo viaggio di Jesse, e questo magnifico romanzo picaresco, un po’ “On the road” di Kerouac un po’ “Il giovane Holden” di Salinger. “Urlando con i cannibali” è una storia di nuovi inizi e di continue scoperte: del sesso (le avventure con la seducente moglie di Luther, Ruth Ella, praticamente una ninfomame, e con la non più giovanissima Rosalind nella seconda parte, sono forse le parti migliori del libro); del mare (nel South Virginia per la prima volta nella vita Jesse vedrà l’oceano); del peccato (la scena del delirio collettivo nella chiesa dell’invasato e deforme reverendo Abel Hitch, è un pezzo di alta scuola); di se stesso e di quell’irrefrenabile desiderio di libertà che lo conduce sempre altrove “Il mio posto nel mondo era lontano e sperduto, nelle nebbie della distanza e del tempo, un luogo così nobile, luminoso e rarefatto che avrei avuto difficoltà anche solo a respirarne l’aria. Un luogo che non avevo mai visto e di cui non conoscevo il nome”.

Angelo Cennamo

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GLI UNICI INDIANI BUONI – Stephen Graham Jones

Stephen Graham Jones in Italia non è un autore noto ma nel suo paese gode di buona considerazione: “uno dei più talentuosi scrittori viventi” arriva a dire di lui Tommy Orange. Originario di Midland, Texas, Graham Jones è come si dice un nativo americano appartenente alla tribù dei Piedi Neri. Siamo in zona Louise Erdrich, altra scrittrice (premio Pulitzer) che della propria identità pellerossa ne ha fatto un tratto riconoscibile per non dire ineludibile dal punto di vista letterario. 

Dopo l’esordio, nel 2000, con “The Fast Red Road”, vincitore di un Independent Publishers Award for Multicultural Fiction, Graham Jones ha pubblicato numerosi romanzi e racconti di vario genere: horror, gialli, fantascienza. “Gli unici indiani buoni”, uscito negli Stati Uniti nel 2020 – un anno difficile per l’editoria – arriva qui da noi nei primi giorni di maggio con Fazi e la traduzione di Giuseppe Marano. Si direbbe un thriller ma confinarlo nel genere thriller è una semplificazione che non rende l’idea della giusta dimensione, l’ampio respiro di quest’opera che scardina l’essenzialismo di certe sinossi e sorprende per profondità e temi trattati, oltre che per la brillantezza di una scrittura mai vischiosa, colta ed evocativa. 

Nel romanzo si racconta la storia di Lewis, Gabe, Rick e Cassidy, quattro trentenni indiani del North Dakota, amici d’infanzia che hanno abbandonato la riserva dalla quale provengono per provare a integrarsi tra i bianchi. I quattro sono legati da un ricordo tragico che risale a dieci anni prima: l’uccisione di una femmina di alce incinta durante una battuta di caccia illegale. Quell’esperienza dolorosa, forse rimossa o sprofondata nell’inconscio per tanto tempo, improvvisamente oggi torna in superficie, riprende forma, e inizia a tormentarli. A Lewis appare un grosso alce ferito che perde sangue sul tappeto del soggiorno. A seguire, uno dopo l’altro anche gli altri tre amici inizieranno ad avere delle sanguinose visioni e a ritrovarsi risucchiati in quel vecchio incubo. La caccia all’alce si tramuta in una feroce caccia all’uomo: Ricky muore nel corso di una rissa – così si è detto – ma la verità potrebbe essere un’altra. Paura, sensi di colpa, alternando realismo e leggenda Graham Jones mette in scena una brutale vicenda di identità tradite, ingiustizia e razzismo, il ritratto fedele di un’America cruenta e umana al tempo stesso, ma fuori dai radar del mainstream più veicolato. Graham Jones coniuga classe e potenza: è una corda tesa tra la visceralità di Guillermo Arriaga e l’horror di Stephen King. Grazie all’editore Fazi per aver puntato su di lui.

Angelo Cennamo

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DELITTO IN RIVA AL MARE – Antonio Lanzetta

Su una spiaggia di Salerno viene ritrovato il cadavere di una ragazza. Le indagini sono affidate al commissario di polizia Massimo Trotta e alla psicologa forense Lidia Basso. Segnati entrambi da un’infanzia difficile, Massimo e Lidia possono dirsi fratelli per essere stati adottati da una coppia di librai. 

In un istituto poco distante dal luogo del ritrovamento del corpo della ragazza assassinata (Elena Perna), è rinchiuso un diciassettenne senza nome, unico sopravvissuto a una mattanza avvenuta in un paesino del Cilento dieci anni prima. Matteo, qualcuno ha deciso di chiamarlo così, non conosceva Elena ma la sera del suo assassinio ne ha riprodotto il volto e il corpo in un disegno che ora è finito al centro del caso. 

“Delitto in riva al mare”, il nuovo romanzo di Antonio Lanzetta, parte da questa macabra coincidenza. Cosa lega l’uccisione di Elena alla misteriosa veggenza artistica di Matteo?  La storia si sviluppa attraverso il duplice punto di osservazione di Lidia e del giovane recluso: due voci, due narrazioni alternate. 

I traumi infantili, gli abusi, l’accanimento, le ossessioni, sono da sempre un terreno fertile per Lanzetta, scrittore salernitano formatosi sui testi sacri del crime e dell’horror americano che riesce a tenere insieme il Mississippi e il Sele, il Texas e l’entroterra campano secondo quel vecchio brocardo di Tolstoj: racconta il tuo villaggio e racconterai il mondo (nel romanzo non mancano riferimenti a Hopper, Steinbeck, Faulkner, e Stephen King, autore al quale Antonio è particolarmente legato per più di una ragione: “Lo Stephen King italiano” lo definì qualche anno fa il Sunday Times).

Massimo e Lidia intanto scavano nel passato recente di Elena e in quello più remoto di Matteo: gli indizi sono tanti ma quell’assurda coincidenza del disegno finisce per ostacolare ogni incastro. 

“Delitto in riva al mare” è un giallo ben strutturato, con un’azzeccata venatura gotica – genere nel quale Lanzetta ha già dimostrato di muoversi con disinvoltura – e con un’ambientazione familiare all’autore quanto al recensore: Lanzetta non avrà scritto il primo romanzo salernitano ma pastenese sicuramente. Pastena è un quartiere della zona orientale della città: spiagge, palazzi, gente simpatica,Telegraph Avenue passa anche di lì.  

Angelo Cennamo

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CITTÀ DI SOGNI – Don Winslow

Danny Ryan è un uomo in fuga, inseguito dalla mafia italiana dei Moretti e dall’Fbi. La guerra era iniziata per una donna, Pam “Quarant’anni di amicizia distrutti in una notte”. Non sembrava un danno irreparabile ma ora Danny deve levare le tende da Providence e mettere più distanza possibile tra lui, i Moretti, la polizia cittadina, quella statale e i federali. La moglie Terri è morta di cancro poche ore prima, e sul sedile posteriore dell’auto ha il suo bambino di diciotto mesi. Non era mai uscito dal Midwest eppure aveva sempre desiderato attraversare il paese, andare a ovest “dreaming California”. Aveva desiderato farlo, sì, ma da turista, di giorno, non di notte, scappando “come un animale” e dormendo in motel di fortuna. Però se la gode lo stesso; scoprire posti nuovi gli piace “il fottuto sogno americano”. 

“Città di sogni”, pubblicato il 18 aprile sia negli Stati Uniti che in Europa, è il secondo capitolo di una trilogia già tutta scritta che Don Winslow sta mandando in libreria dallo scorso anno per chiudere in bellezza (a quanto pare) una carriera formidabile fatta di oltre venti bestseller e riconoscimenti vari: “Citta in fiamme” (2022), “Città di sogni” (2023), “Città in rovina” (2024). 

Il primo dei tre volumi è ispirato all’Iliade, gli altri due all’Eneide. Un lavoro enorme che ha tenuto impegnato l’autore per circa trent’anni, tra dubbi e riprese, facendogli studiare il latino in un liceo e frequentare corsi universitari online su Omero e Virgilio.

Danny scappa insieme a quel che resta della sua famiglia e dei fedelissimi. Nella trasposizione crime Danny è Enea; il padre Martin (oggi vecchio, quasi sempre ubriaco e mezzo cieco per la cataratta, ma un tempo uomini adulti si pisciavano addosso solo a sentire il suo nome) Anchise; il piccolo Ian, suo figlio, Ascanio. Con loro, Ned Egan, la guardia del corpo di Martin “ha ucciso più gente lui che il colesterolo” e i Chierichetti Kevin Coombs e Sean South (Eurialo e Niso). Il futuro di Mr. Ryan è pieno di nubi ma qualcuno ora gli sta offrendo un piano B. Niente di pulito, sia chiaro, diciamo una buona exit strategy, forse l’unica. I Moretti hanno vinto la guerra ma sono rimasti a secco. Per Peter, il boss, non è un buon momento “Mia figlia è pazza. Mia moglie mi odia. Sono quasi al verde. I miei uomini stanno per ammutinarsi”. E c’è dell’altro che lui ancora non sa. 

Sulla linea di confine, come un puparo occulto, ritroviamo Pasco Ferri, uno dei personaggi più azzeccati della serie. Danny approda a Los Angeles, la sua Cartagine. Ha svoltato, così pare. Dalla storia della guerra sarà tratto un film e la protagonista, Diane Carson /Didone, diventerà l’amante di Danny. Tutto fila liscio, ma la storia non finisce qui. Leggere Don Winslow è come farsi un’iniezione di adrenalina: velocità, cambi di prospettiva, battute, dialoghi ben calibrati, autenticità, struttura, luoghi. Ho citato l’Iliade e l’Eneide ma in una delle trame parallele ritroviamo perfino l’Orestea di Eschilo e diversi omaggi a Kerouac ed Ellroy. 

Angelo Cennamo

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L’ESTATE DEI RICCHI – Piera Carlomagno

Questa storia ha inizio nel condominio di una città senza nome. Sono cinque i piani che separano Mirella, la figlia del portiere dello stabile, da Paolo, giovane ingegnere di successo: la plastica distanza tra la povertà e il denaro, basso alto. Il sogno di Mirella di affrancarsi da un’adolescenza di stenti passa attraverso quei cinque piani, e ora che lei e Paolo sono sposati, tutto sembra girare per il verso giusto. Cosa ti manca, Mirella? Hai un marito premuroso, due figli esemplari, una vita da sogno. Eppure. Dietro quella perfezione che non ammette limiti, oltre la patina di una felicità quasi spudorata, fatta di vacanze di lusso, abiti griffati e di mondanità, cresce la frustrazione per non aver mai deciso nulla: Mirella non ha scelto, altri lo hanno fatto per lei. E allora basta poco per inciampare nell’imprevedibile, per deragliare dallo schema di un’esistenza programmata fino all’estremo. Non si sceglie di essere felici: lo si è e basta.  

La fuga dalla routine ha il volto di Alessio Carli. In quel “turchino spazio amabile” Mirella si dà una nuova identità. E nella finzione diventa vera per la prima volta. Mirella vive, respira, ama. Il grigio diventa rosso, asimmetria, incertezza, fato, infine tragedia.  

“L’estate dei ricchi” Piera Carlomagno l’aveva già scritto nel 2016, ma il romanzo, brevissimo (un racconto lungo), era uscito nel solo formato ebook. Ecco perché me l’ero perso, mi sono detto quando Piera qualche giorno fa mi ha accennato al libro. Io leggo solo su carta: se non sono libri “veri” neppure li prendo in considerazione. Stamattina Piera mi ha raggiunto in tribunale per regalarmi una delle prime copie, scherzando sulla mia velocità di lettura,  le ho detto che avrei iniziato e finito il quasi-nuovo romanzo nei dieci minuti che precedevano l’udienza. Non è andata esattamente così ma ci siamo capiti. Piera non smette mai di sorprendermi: ha un repertorio vasto, scrive di tutto e lo fa con la stessa brillantezza, senza lacune, senza arrancare, che si tratti del petrolio della Basilicata o di un matrimonio finito. “L’estate dei ricchi” è la storia di una sbandata, di una felicità inutilmente rincorsa. Mirella ha l’intuito della Viola Guarino che verrà e la stessa sensualità perversa della Leda Montessori di “Nero Lucano”. Storie di donne, e Piera le tratteggia alla sua maniera, con la giusta introspezione, dosando mistero e disincanto, inquietudine e malizia. Mirella è una donna inafferrabile, per due terzi del libro si muove tra verità e apparenza. Il romanzo è scritto in prima persona, senza filtri, ma Piera passa alla terza quando è Mirella a raccontare del suo doppio. È da questi dettagli che si giudica una scrittrice. 

Angelo Cennamo

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UOMINI DI POCA FEDE – Nickolas Butler

Lyle Hovde e sua moglie Peg che la domenica indossano il vestito buono e risalgono in auto le colline dove si erge la chiesa di Sant’Olaf. È una delle tante immagini che ti restano dentro di “Uomini di poca fede” di Nickolas Butler, scrittore che del Midwest più che di un argomento di scrittura ne ha fatto un vero e proprio tratto identitario (puoi togliere Butler dal Wisconsin ma non puoi togliere il Wisconsin da Butler, un po’ come Chris Offutt col Kentucky). E pensare che tempo fa proprio con Butler ebbi un piccolo screzio per via di una cosa che scrissi forse con troppa superficialità e cioè che dava l’impressione di essere uno scrittore costruito: camicia di flanella, Iowa writers’ workshop, pick-up scassati, campi di mais sui social ecc. ecc. Niente di grave. Altro che costruito, mi rispose piccato, io sono del Wisconsin al 100%! Vabbè, faccio ammenda. 

Lyle e Peg Hovde hanno una figlia adottiva (Shiloh), appena tornata a vivere coi genitori dopo un lungo periodo di assenza e di ribellione, e un nipotino (Isaac), che la madre considera una specie di divinità, è convinta che il piccolo abbia dei poteri sovrannaturali, che sia capace di guarire i malati. Lyle è preoccupato per le sorti del nipote e fa il possibile per sottrarlo alla cerchia dei fanatici che gli ruota intorno. Siamo nel tratto decisivo del racconto: è qui che la storia decolla definitivamente. 

“Uomini di poca fede” è uno spaccato preciso e vivido della provincia americana (non dirò “America trumpiana”), con i suoi ritmi lenti, il senso della famiglia e dell’amicizia, la fede comune e quella più integralista di certe chiese. Un romanzo colmo di umanità a metà strada tra “Benedizione” di Kent Haruf e “Gilead” di Merilynne Robinson, romanzieri molto vicini, sia per contenuti che per stile, a Nickolas Butler, uomo e scrittore autenticamente del Midwest. Pace fatta, Nick.  

Angelo Cennamo

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