PREGA DETECTIVE – James Ellroy

Per sapere cosa n’è stato della vita di James Ellroy tra il 22 giugno del 1958, il giorno in cui fu strangolata sua madre, e il 1981, l’anno del suo primo romanzo (Brown’s Requiem – pubblicato in Italia solo nel 1995 col titolo Prega Detective), dovreste dare una scorsa a I miei luoghi oscuri, la sua autobiografia ma anche il libro più intimo di questo autore crime che non può essere paragonato a nessun altro per quanto Joyce Carol Oates, una volta, lo definì il Dostoevskij della letteratura yankee. Quel che è certo è che, raccontando la grande scena del delitto americano, Ellroy non ha fatto altro che riprodurre quella scena lì, quella dell’assassinio di sua madre. Nel 1958 aveva solo dieci anni. 

Più che acerbo, l’Ellroy di Prega Detective è completamente diverso dall’autore che abbiamo conosciuto nei libri a venire. La sua scrittura non è ancora in preda alla schizofrenia e a quel ritmo vertiginoso che l’ha accompagnato già da Dalia Nera (1987) e L.A. Confidential (1990) in avanti. L’Ellroy dell’esordio è uno scrittore compassato, ordinato, che non imbraccia il mitragliatore per spararci addosso parole dai suoni onomatopeici e contenute in frasi brevissime. Ra-ta-ta-ta-ta! Questo è Ellroy: ra-ta-ta-ta-ta!

La trama del romanzo è piuttosto debole e in alcuni passaggi anche poco verosimile, eppure la storia non pare risentirne, probabilmente per una serie di contrappesi che aiutano il lettore a non staccarsi dalle pagine fino alle ultime battute. Il paesaggio urbano, per esempio, che in altri libri non è così dominante o visibile (le scene di Tijuana, tra baracche di lamiera, bottiglierie e bische clandestine, sono di una vividezza magnifica). L’empatia di personaggi come Jane Baker, la giovane violoncellista per la quale Fritz Brown, il detective protagonista, prenderà una sbandata nel corso della sua difficile indagine. Prega Detective è un bel crime californiano, tutto droga, scommesse, truffe e campi da golf, farcito di cliché sulla figura dell’ex poliziotto alcolizzato in cerca di redenzione, con un’insolita colonna sonora di musica classica (Fritz ne è appasionato) e perfino qualche autocitazione premonitrice “Fritz, chi credi che abbia davvero ucciso la Dalia Nera?”. Per i capolavori ci sarà tempo. 

Angelo Cennamo

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CREPUSCOLO – Kent Haruf

Le storie della contea di Holt, della sua campagna piatta e sconfinata, ci conducono nelle viscere di un’America di altri tempi, silenziosa, abitata da gente umile e votata al sacrificio. Con Crepuscolo si conclude la Trilogia della Pianura, la saga che Kent Haruf (scrittore di Pueblo, in Italia portato al successo da NNEditore) ha ambientato nel suo Colorado, tra mandriani e contadini che si tramandano tradizioni e il rispetto per la terra. Nell’ultimo tratto di questo viaggio lento e poetico ritroviamo alcuni dei protagonisti dei due romanzi precedenti, Benedizione e Canto della Pianura: Tom Guthrie, l’insegnante cow boy con i suoi bambini Ike e Bobby, Victoria Roubideaux, la ragazza madre ora alle prese con gli studi universitari, e i fratelli McPheron, i due anziani allevatori che ospitano Victoria nella loro fattoria e che attraverso di lei fanno per la prima volta esperienza dell’universo femminile. Quello dei McPheron sarà un apprendistato tenero, non privo di goffaggine, di sicuro illuminante anche per chi osserva questi fatti, dentro e fuori dalla storia. La scoperta dei due fratelli è il vero centro del romanzo, probabilmente il migliore e il più epico della trilogia. L’episodio del duello tragico tra Harold e uno dei suoi tori è un gesto artistico di grande bellezza, capace di evocare anche nello stile certi racconti avventurosi di Ernest Hemingway (nessuno si offenda se dico che Haruf è la versione country di Hemingway). Le vicende dei McPheron e di Victoria si intrecciano con altre trame non meno suggestive e interessanti della principale: quelle di DJ, il ragazzino di undici anni che vive con il nonno malato di polmonite e della povera famiglia Wallace, costretta ad abitare  in una roulotte sgangherata e a subire l’arroganza di un parente alcolizzato e violento. Una apologia del dolore che nella parabola biblica di Haruf diventa luogo di purificazione e di maturazione di una nuova consapevolezza. Non so cosa voglia dire romanzo perfetto (lo si è scritto di Stoner) ma qualunque cosa essa sia, Crepuscolo è quella cosa lì. Un romanzo sul confronto generazionale e sulla responsabilità di sentirsi adulti in quel paese per vecchi che è Holt.

Angelo Cennamo

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UNA QUESTIONE DI FAMIGLIA – Chris Offutt

Che Chris Offutt provasse una certa simpatia se non proprio devozione per Cesare Pavese, lo sapevamo già, e l’esergo del nuovo romanzo con la citazione delle Langhe piemontesi nelle quali lo scrittore di Lexington ritrova le colline del Kentucky e gli Appalachi che fanno da sfondo alle sue storie, ce lo conferma. Una Questione di Famiglia, in Italia con minimum fax e la traduzione di Roberto Serrai, secondo capitolo della serie che vede protagonista l’agente speciale Mick Hardin, è un noir, ma la vicenda delittuosa ( l’assassinio di un pusher “Barney del cazzo”, liquidato con troppa fretta dalla polizia come un regolamento di conti) non è che un tratto della narrazione, e forse neppure il più importante rispetto al quadro generale, cioè alla rappresentazione (affresco si diceva una volta) di un’America di provincia che nei romanzi di Offutt, come in altri autori della stessa pasta, da Kent Haruf a Lee Maynard, da Ron Rash a Willy Vlautin, viene fuori con una certa vividezza “… l’umanità diventava sempre più vecchia. La bellezza della natura serviva a nasconderne l’intrinseca brutalità, le persone invece la mettevano a nudo”. La flora e la fauna, non solo quella umana, sono decisamente il centro della poetica di Offutt, la parte migliore che finisce per sovrastare ogni intreccio investigativo o ricamo poliziesco. Contadini, ex minatori, gente semplice talvolta omofoba e razzista, che arriva a chiamare lo sceriffo perché il proprio cane è finito su un albero, e che alle visite di condoglianze si presenta con un’insalata di patate. Il piccolo mondo antico di Offutt, popolato di pick-up scassati e di camicie di flanella, è l’America che ci piace di più, anche perché ormai è l’unica America riconoscibile. 

Dopo essere rimasto ferito a una gamba per l’esplosione di un ordigno, Mick Hardin è tornato a casa in licenza. Della sua famiglia è rimasto ben poco, Mick non ha più i genitori, ha perso il nonno, suo vero spirito guida, ed è sul punto di divorziare dalla moglie Peggy. A ospitarlo è la sorella Linda, sindaco della cittadina, ora impegnata nella campagna elettorale per essere rieletta al secondo mandato. La crisi esistenziale di Mick è il pattern intorno al quale ruota tutta la storia, anzi la serie: il ragazzo di paese che parte, scopre la ferocia della guerra, poi torna a casa e si ritrova a fare i conti con una sorte diversa da quella che aveva immaginato. Quando la madre di Barney gli chiede di aiutarla a scoprire la verità sulla morte del figlio, Mick, che avrebbe ben altro a cui pensare, decide lo stesso di darle una mano, correndo ogni rischio, quasi non avesse più niente da perdere. L’imminente divorzio da Peggy lo tormenta, certo, le carte che ha nel bagagliaio però non le ha ancora firmate. “Vai a trovarla. Non voglio più fare da intermediaria” gli dice Linda. Mick lo farà nell’ultime battute del romanzo “Gli faceva male sapere che la vita di lei era migliore di quando avevano vissuto insieme” e non servirà il corteggiamento strisciante di Sandra, una vecchia conoscente “Se trovi la luce accesa in veranda, sono sveglia” a cancellare quel dolore continuo, implacabile, l’amarezza per aver fallito nel ruolo di marito e di padre, importantissimo se non decisivo nel microcosmo rurale di Chris Offutt. D’accordo, ma si verrà a sapere chi lo ha ucciso quel Barney del cazzo? Si verrà a sapere, ma davvero vi importa? 

Angelo Cennamo

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UN LETTO DI TENEBRE – William Styron

“Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, quella dei Softis è la somma di tante infelicità diverse, dissimulate dall’ipocrisia, affogate nell’alcol, inconsolabili. A definire Styron un epigono di Faulkner ci si azzecca, ma si finisce per comprimere la volumetria di una narrativa, più densa e stratificata dell’altro William, che guarda al secolo precedente e all’Europa (alla Francia di Balzac e Maupassant, per esempio) oltre che alla provincia americana del Novecento. Un Letto di Tenebre (Lie Down in Darkness), il libro di esordio, ebbe un parto difficile: abbandonato, ripreso dopo qualche anno, riscritto. Uscì nel 1951, Styron aveva appena ventisei anni. Il romanzo, che racconta le vicende di Milton ed Helen Softis, una famiglia della upper class della Virginia degli anni Quaranta, procede a ritroso e si apre con la morte di Peyton, la prima figlia della coppia. Difficile non rivedere nel lento scorrere del feretro di Peyton nella calura estiva della Virginia il carroccio di Mentre morivo proprio di Faulkner, e il funerale di Rick Brinklan nell’incipit del più recente Ohio di Stephen Markley “Il feretro non conteneva nessuna salma. La bara Star Legacy modello Platinum Rose in acciao calibro 18, in prestito dal Walmart locale, era solo ricoperta da una grande bandiera”. Milton Softis sta andando a seppellire la figlia, ma nella Limousine che scorta il feretro, insieme a lui non c’è Helen, c’è un’altra donna: Dolly Bonner, la sua amante. Dolly è l’unico personaggio del romanzo capace di darsi senza infingimenti, ritrosie, ambiguità. È attratta da Milton “Nel crepuscolo appariva molto bello; quella provocante ciocca di capelli grigi, del colore del peltro vecchio, un uomo di una bellezza volgare non avrebbe mai saputo sfoggiarla con tanta disinvoltura”. Dolly è anche l’unico personaggio che non si lascia andare all’autocommiserazione e che non si fa annientare dai sensi di colpa. Dolly non ha niente da perdere. Di ben altra pasta è il rapporto tra Milton ed Helen “Vivevano insieme come ombre, anzi come coinquilini in una stessa pensione”, ma lui dipendeva dal suo denaro visto che dalla pratica legale ricavava un reddito minimo. Sì, Milton fa l’avvocato, ci prova almeno, la sua vera ambizione però è la politica, l’alcol il suo unico approdo. Un Letto di Tenebre è una straordinaria rappresentazione di una rete di dinamiche familiari fitte, complesse, articolate, tipiche soprattutto di una certa letteratura femminile (solo Jonathan Franzen, oggi, sarebbe in grado di riprodurre simili microcosmi emotivi, quelle interazioni e deflagrazioni alla maniera di Styron). Uno dei temi centrali della storia è l’amore morboso di Milton per sua figlia Peyton, in alcuni passaggi ricorda quello di Humbert Humbert per Lolita. L’affetto e la vicinanza di Milton però non sconfinano mai nella dimensione erotica, si arrestano un attimo prima, limitandosi al grottesco. Se Dolly si mostra decisa e trasparente nelle proprie mire, non si può dire altrettanto di Helen, il personaggio più controverso ed enigmatico del romanzo. Helen, tradita da Milton e sconvolta dalla tragica fine della piccola Maudie (l’altra figlia), odia Peyton. Difficile comprendere per chiunque le ragioni di una avversione così profonda e lacerante: è infastidita, turbata dalla pruriginosa intimità che scorge tra lei e il padre, o più semplicemente è pazza? Helen è una donna ricca di denaro e di fede. Nei momenti di disperazione si rifugia nel reverendo Carey Carr, altro personaggio  borderline di questo romanzo tutto incentrato sulla colpa e la dannazione. Carey è attratto da Helen, forse lo sono entrambi l’una dell’altro ma Styron muove le sue pedine tra il possibile e l’onirico; le tenebre (parola ricorrente nel racconto) sono il crinale sul quale scorre ogni parte della storia (cinquecento pagine forse sono troppe) coprendo alcune verità, lasciando al lettore margini di intuizione, utili forse a ricostruirne delle altre.    

Angelo Cennamo                      

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ON THE ROTH

Scrivere il Grande Romanzo della Nazione, con le iniziali in maiuscolo, è il sogno più o meno inconfessato di ogni scrittore americano. Alcuni ci riescono, altri inciampano. Ha ancora senso discutere del GRA decontestualizzando gli Stati Uniti da un mondo ormai superglobalizzato, meticcio e iperconnesso? Tempo fa lanciai un sondaggio sull’argomento. Selezionai una ventina di titoli: Moby Dick, Furore, Revolutionary Road, It, Le correzioni, eccetera. Il sondaggio lo vinse Pastorale Americana di Philip Roth. Non ne fui sorpreso. Non fui sorpreso non perché gli altri romanzi non meritassero di vincere, altroché (le serie di Bascombe e di Coniglio Angstrom raccontano il secondo Novecento americano anche meglio della Pastorale di Roth), ma perché (ho pensato) Roth è un autore enorme, amatissimo in patria ma anche in Italia, paese che legge poco, men che meno la letteratura americana, assuefatto al giallo da ombrellone e al mainstream da premio Strega. Eppure non c’è libreria italiana che non sia fornita di almeno quattro cinque titoli di Philip Roth, incluso Pastorale Americana. Quando dico che Roth è un autore enorme intendo dire che è stato il più grande scrittore del suo tempo, parliamo di un tempo abbastanza lungo, che inizia nel 1959 con Goodbye, Columbus e si conclude nel 2010 con Nemesi – in mezzo una trentina di libri (tanti per un autore non di genere). Il tempo di Roth lo divido virtualmente in due stagioni, quella “del figlio”, la prima, quella “del padre”, la seconda. Nella stagione “del figlio” Roth interpreta il ruolo che gli riesce meglio, il ribelle; il giovane Roth si scontra con l’educazione familiare, l’ipocrisia della società borghese, perfino con la religione ebraica, la sua. Già, Philip Roth era ebreo, vertebra, con i fratelli Singer, Bernard Malamud e Saul Bellow, di quella prestigiosa spina dorsale che oggi ha come eredi, tra gli altri, Ben Lerner, Joshua Cohen, Jonathan Safran Foer. L’ebraismo di Roth non è mai stato sereno né identitario, critico piuttosto, spesso conflittuale nella finzione: la blasfemia di Carnowski manderà su tutte le furie la comunità ebraica di Newark e farà morire di crepacuore (parafrasando guarda caso Saul Bellow) il padre di Zuckerman. Nella stagione “del figlio” occhio ai seguenti titoli: Goodbye, Columbus (l’esordio del 1959, già pubblicato su Paris Review), Quando lei era buona (l’unico romanzo in cui Roth dà voce a una protagonista femminile, Lucy Nelson) e l’opera simbolo oltre che della consacrazione: Lamento di Portnoy. Seguitemi. 1969, siamo in piena rivoluzione sessuale. Martin Luther King è stato assassinato, dopo di lui tocca a Bob Kennedy. Gli echi del Vietnam rimbombano deviando attenzioni e disordini. Roth delega la protesta ad un giovanotto stralunato che ci sembra di avere già incontrato nei capolavori di Salinger e di Mark Twain: Huckleberry Finn – Holden Caulfield – Alexander Portnoy. Proiezioni. Ma è nella seconda parte della sua carriera che Roth dà il meglio di sé. Patrimonio (forse l’opera più autobiografica, di sicuro la più commovente) è il testo cerniera: Roth smette i panni del figlio e diventa padre. Lui che nella vita non ha avuto figli, diventa padre nella letteratura. Eccoli i libri migliori: Il teatro di Sabbath (1995, il romanzo più estremo e rothiano di tutti, Eros e Thanatos, due topos centrali nella narrativa di Roth, nella tragicomica parabola esistenziale del burattinaio Mickey toccano le vette più alte. Pochi autori hanno scritto di sesso e di morte come Philip Roth, oggi direi solo Michel Houellebecq). Pastorale Americana (1997, il Grande Romanzo Americano di Roth). La macchia umana (2000, trama ispirata dallo scandalo sessuale consumato nello studio ovale di Bill Clinton. Quella di Coleman Silk è una storia di segreti e di pregiudizi con un finale amaro).

Ma rimaniamo su Pastorale. Nell’anno in cui Roth lo pubblica, negli Stati Uniti escono altri due capolavori: Underworld di DeLillo e Mason & Dixon di Pynchon. Pochi mesi prima, nel 1996, è la volta di Fight Club di Chuck Palahniuk, L’atlante di William Vollmann, Infinite Jest di David Foster Wallace. Nel 1998 Pastorale Americana si aggiudica il Pulitzer. A Roth ora manca solo il Nobel. Lo meriterebbe ma a scombinare i piani è Leaving a Doll’s House, il memoir di Claire Bloom che spara a zero sull’ex marito facendo a pezzi la sua immagine di uomo e di scrittore. Roth misogino e sessuomane? La stessa malevolenza toccò anche John Updike (“un pene con un grosso vocabolario” disse di lui David Foster Wallace), come Roth scrittore di sintesi tra realismo e sperimentalismo, stessa stoffa, ma a differenza dell’amico rivale (cantore di relazioni e di scrittori), più addentro alle cose materiali e documentato su tutto “Come diavolo fa Updike a sapere tutto delle Toyota? Io abito in campagna e non conosco neppure i nomi degli alberi”. 

Perché Pastorale Americana è il Grande Romanzo Americano è presto detto: contiene tutti gli ingredienti del GRA. Sono tre o quattro, non di più. 1) Il sogno. Seymour Levov, il protagonista del romanzo, eredita dal padre una fabbrichetta di guanti di pelle e la trasforma in una grossa azienda. Seymour può dirsi un uomo di successo. Seymour ce l’ha fatta, ha svoltato, ha realizzato l’american dream. 2) Il mito della forza e della bellezza. Seymour è alto, biondo, con gli occhi azzurri. Lo chiamano lo svedese per via di quell’aspetto nordico. Non solo. Seymour ha sposato una donna bellissima, aspirante miss America, già miss New Jersey. Da studente, Saymour eccelle in tutte le discipline sportive, i suoi primati fanno esultare il quartiere ebraico dove abita e dimenticare perfino la guerra. 3) Il conflitto generazionale. Nella ricostruzione immaginaria di Zukerman, Merry, la prima figlia di Seymour, è una ragazza introversa e scontrosa per via di una fastidiosa balbuzie. Il disagio di Merry si trasforma in frustrazione poi in rabbia, ed infine esploderà nel gesto clamoroso che cambierà direzione alla storia. 

Il quarto ingrediente è presente in ogni libro di Roth. È il suo tocco magico. Per tutta la vita Roth non ha fatto altro che raccontare di sé, simulando e dissimulando la verità. Mascherandosi. Come tutti i grandi romanzieri, Roth ha tradotto in inchiostro la propria esistenza. Scrivi di quello che sai. Il gioco di specchi tra verità e finzione, che raggiunge il suo culmine ne I Fatti, in Pastorale non tocca il fondo ma il doppiofondo: la storia del romanzo è sì un’invenzione di Roth ma dentro la storia di Roth c’è quella di Zuckerman. Pastorale è una gigantesca allegoria, i Levov sono come l’America, vuole dirci l’autore, che mostra la parte migliore di sé e nasconde la polvere sotto il tappeto. “L’America non è mai stata innocente” scrive Ellroy nell’incipit di American Tabloid. Neppure i Levov lo sono. Non c’è lieto fine né consolazione nelle ultime battute, i Levov sprofondano nell’abisso, i lettori assistono inermi, attoniti, quasi intimoriti. Philip Roth ci getta nel caos. A questo serve la letteratura. 

Angelo Cennamo

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