MYSTIC RIVER – Dennis Lehane

Mystic River - Dennis Lehane

È una delle figure di spicco della letteratura noir americana. Dennis Lehane, docente di scrittura creativa ad Harvard e autore di alcuni bestseller che hanno ispirato film di grande successo, lo ricordiamo soprattutto per un romanzo pubblicato nel 2001: Mystic RiverLa morte non dimentica.  Un libro dai meccanismi thriller perfetti e ricco di personaggi indimenticabili. Mystic River è il nome del fiume che fa da sfondo a questa storia infernale, ambientata nella Boston degli anni ’70 e poi del 2000, ma dal sapore antico, con pochi riferimenti alla modernità.

Sean Devine, Jimmy Marcus e Dave Boyle sono tre bambini. Un giorno, giocando per strada, vengono avvicinati da due sconosciuti, appatentemente due poliziotti. Dave viene preso e costretto a salire in macchina con loro. Dopo quattro lunghi giorni di sequestro, Dave riesce a liberarsi dei suoi aguzzini, ma da allora la sua vita non sarà più quella di prima.

Anche se lo trovano vivo, quel ragazzino è segnato a vita. Non sarà mai più lo stesso” dice il padre di Jimmy. Dave fatica a ritrovare le proprie abitudini, non ha più voglia di andare a scuola, anche perché i suoi compagni lo prendono in giro e lo tengono a distanza.

Il ricordo di Lupo Grande e Lupo Viscido, di quella fuga improvvisata, è un come incubo infinito, un tunnel di dolore dal quale il piccolo non riesce più ad uscire. Ora Dave è per tutti Il Ragazzo Che Era Stato Rapito. La sua mente è come divisa in due. Dave confiderà a sua moglie Celeste che “Il Ragazzo Che Era Sfuggito ai Lupi ed Era Cresciuto era diventato a sua volta Lupo…Una parte di me non è mai scesa da quella macchina“.

La storia riprende venticinque anni dopo. I tre ragazzini sono diventati adulti, ma in tutto questo tempo solo Jimmy e Dave si sono frequentati. Jimmy ha trascorso qualche anno al fresco per via di alcune rapine finite male. Oggi ci appare come un uomo pulito, con la testa a posto. Gestisce un emporio, è sposato e ha una figlia di diciannove anni, Katie, fidanzata con un tipo violento dal quale però vorrebbe scappare per sposare un altro. Anche Dave ha una moglie e una vita difficile. Non riesce a trovare un lavoro stabile e il ricordo di quella brutta vicenda gli ha logorato i nervi.

Tutta la seconda parte del romanzo ruota intorno a un evento tragico: il barbaro omicidio di Katie. Nella stessa notte del delitto, Dave, che ha visto la ragazza uscire da una discoteca in compagnia di due sue amiche, torna a casa dalla moglie sporco di sangue. Dave racconta la sua versione dei fatti: sono stato aggredito, dice. Ma fin da subito le sue parole suonano poco credibili. Ad indagare intanto sull’efferato delitto è un poliziotto molto speciale: Sean Devine, il terzo amico. A distanza di venticinque anni dal rapimento di Dave, la violenza torna a sconvolgere le vite dei tre protagonisti. Il cadavere di Katie nel parco, il corpo insanguinato di Dave. Tutto sembra andare in una sola direzione, l’unica possibile, e la tensione cresce pagina dopo pagina.

Mistyc River è un romanzo dalle atmosfere cupe, che oltrepassa i confini del noir per includere anche altri temi: la povertà, l’amicizia, l’infanzia tradita. Lehane scrive bene; con poche parole ricostruisce identità, dimensioni e spazi di una storia che non ha cedimenti e non smette mai di sorprendere.

Angelo Cennamo

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MISERY – Stephen King

MISERY - KING

È possibile che uno scrittore di successo come Stephen King, autore di decine di bestseller con milioni di copie vendute in ogni angolo del mondo, acclamato e osannato da tutti, viva dentro di sé una sorta di complesso o di risentimento per essere considerato da molti uno “scrittore popolare “, un autore commerciale o di facile consumo, e non invece un romanziere “serio”, come certi suoi colleghi che hanno vinto il Pulitzer e il National Book Award? Inutile negarlo, soprattutto in alcuni paesi – penso in particolare all’Europa – un pregiudizio verso la letteratura di genere conserva ancora un forte radicamento. Molto meno negli Usa, nazione più refrattaria a certe sofisticherie accademiche, e che i libri – al netto dei critici alla Harold Bloom – li classifica semplicemente in belli e brutti. Di libri brutti King ne ha scritti pochissimi.

Non lo è sicuramente Misery, romanzo pubblicato nel 1988, che affronta proprio il tema del rapporto che lega lo scrittore al suo pubblico, e di come i lettori condizionino il percorso artistico di molti autori. È facile immaginare che dietro la figura di Paul Sheldon, romanziere di successo e protagonista della storia, si nasconda lo stesso autore del romanzo. E che la smania di emanciparsi da una certa serialità narrativa che vive lo scrittore protagonista del racconto sia il medesimo sentimento di frustrazione che forse Stephen King intende confessare nel libro.

L’impianto narrativo di Misery è davvero originale: due soli personaggi che si muovono e dialogano in un perimetro di pochi metri quadrati. Nient’altro che questo per 400 pagine di romanzo. Sheldon ha appena finito di scrivere il libro che dovrebbe consacrarlo come uno scrittore “Serio” dopo una lunga sfilza di romanzetti leggeri legati alla saga di Misery ChastainEroina delle periferie e star dei supermercati“. Ma proprio quando sta per lasciare il suo buon ritiro in Colorado, a seguito di un’improvvisa bufera di neve, l’auto di Paul esce di strada e si ribalta in una cunetta. A soccorrere lo scrittore privo di sensi è una sua accanita lettrice psicopatica. Annie Wilkes è un’ex infermiera dal vissuto turbolento, una spietata serial killer, che non tollera l’uscita di scena di Misery, il personaggio di cui Sheldon ha voluto finalmente liberarsi per superare il cliché e il ruolo dell’autore commerciale e ripetitivo dentro il quale è stato imprigionato dai lettori più affezionati. Il sequestro di Paul Sheldon nella casa di campagna di Annie diventa allora la metafora di una sudditanza artistica alla quale il noto romanziere non riesce più a sottrarsi. Paul è costretto a subire delle torture atroci da parte di Annie, che pretende da lui la riscrittura del suo ultimo libro, quello cioè che ha visto morire Misery. Tra lo scrittore e la sua aguzzina si innesca un rapporto perverso fatto di paura e odio, ma anche di rispetto e di complicità. Le lunghe giornate di Paul sono scandite dal rumore dei tasti di una vecchia macchina da scrivere procuratagli da Annie, e da infiniti momenti di solitudine durante i quali il prigioniero prova inutilmente ad organizzare e programmare la propria fuga. Annie somministra a Paul dosi massicce di antidolorifici che sviluppano nell’organismo debilitato dello scrittore una forte dipendenza. Paul è schiavo delle medicine di Annie esattamente come lo scrittore lo è del suo pubblico.

Misery è un romanzo claustrofobico, dal ritmo sostenuto e scritto con precisione millimetrica. È soprattutto una straordinaria prova d’autore di Stephen King, scrittore “serio” che non ha bisogno di Pulitzer né di Nobel per affermare il proprio genio letterario e perpetuare la fama che noi tutti gli riconosciamo di costruttore di trame prodigiose e di instancabile fabbricatore di emozioni. Che sia o meno uno scrittore di genere, King resta uno dei maestri della letteratura, un autore dal quale non si può prescindere per conoscere a fondo la cultura americana. E Misery è tra i suoi migliori romanzi.

Angelo Cennamo

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VITA STANDARD DI UN VENDITORE PROVVISORIO DI COLLANT – Aldo Busi

Aldo Busi - Vita standard di un venditore provvisorio di collant

Angelo Bazarovi e Celestino Lometto formano una strana coppia. Il primo sta per laurearsi in lingue all’università di Verona: colto, elegante, sensibile, amante delle belle arti, omosessuale. L’altro è un rozzo industriale del mantovano, proprietario de “La Melma” – nomen omen – azienda tessile che produce e vende collant. Celestino è una specie di cloaca umana, un ometto ignorante, gretto, un imbroglione “vedeva la vita solo come un sistema di rapporti economico-parentali e se stesso come un guardiano dell’ordine (del suo) e del giusto meritocratico…A Lometto della vita interessava aumentare la mole, non il valore. Il secondo non era che una conseguenza della prima“. Celestino è sposato con Edda, donna del sud e succube del marito “Se lui rideva, rideva anche lei”, e ha tre figli, tutti con i nomi in “ario”: Ilario, Belisario e Berengario. Angelo ha bisogno di lavorare per pagarsi gli studi. Celestino, che è alla ricerca di un interprete, lo ingaggia per vendere i propri prodotti all’estero. Fin dall’inizio, la collaborazione tra i due è litigiosa, irta di ostacoli, ma carica complicità “Io ti devo sgrezzare, io devo farmi ricordare nei secoli, il bene deve trionfare e il mio unico bene sono io…Io ti farò fare fortuna, Lometto. Basta che riesca a farti ragionare con una rotella qualsiasi ed è fatta anche con tutte le altre a riposo”. Angelo fa il saccente e non smette di pungolare il suo datore di lavoro, verso il quale non sembra avere nessuna forma di sudditanza. E Celestino incassa senza sbraitare, è un uomo rozzo ma pacioso, accomodante, ha il senso pratico degli imprenditori lombardi, né si lascia impressionare dall’omosessualità del socio. I lunghi viaggi in macchina sono un’occasione per conoscersi, confrontarsi e scontrarsi anche su qualunque argomento. Angelo scopre che Celestino ha più di uno scheletro nel suo armadio “Io con te ho cominciato con i collant, non voglio finire con la Cia o Cosa Nostra….Mi sento male a stare vicino a un ex vaccaro coi soldi con un nodo alla cravatta da un chilo e mezzo“. Si ribella, sembra sul punto di mollare tutto, ma con le traduzioni non si arriva a fine mese, e allora meglio non andare per il sottile. Di fronte alla necessità il moralismo del giovane intellettuale si scioglie come la brina al sole. Chissà, forse lui e Celestino non sono così diversi.

Per me te sei pieno di complessi perché non c’hai una lira e non puoi fare le cose che vorresti” questo è Lometto. “Anche tu, purtroppo, sei pieno di complessi perché, e lo dimostri, non sei né colto né intelligente” gli risponde Angelo. Le schermaglie anche divertenti tra i due protagonisti si ripetono all’infinito sulle strade di mezza Europa, ma lo strano sodalizio si complica quando Celestino prova a coinvolgere il suo collaboratore in un’impresa fin troppo stravagante e pericolosa che riguarda la sua famiglia.

Vita standard di un venditore provvisorio di collant è il secondo romanzo di Aldo Busi. Come è già accaduto con altri suoi libri, l’autore di Montichiari lo ha riscritto più volte e ne ha una pubblicato una nuova versione nel 2014. Quella di Angelo e Celestino è una storia cruda che ci mostra  in profondità la provincia italiana e una certa imprenditoria, quella più truffaldina, spavalda e senza scrupoli. Lo spaccato esemplare di una società nichilista e allo sbando nella quale neppure la politica e la Chiesa sono senza macchia. L’ignoranza e la sfrontatezza di Celestino Lometto sono il ritratto magistrale e grottesco di una borghesia volgare, sprovveduta, cialtrona, che vive con il solo scopo di arricchirsi. Il romanzo è pieno di spunti amari e comici e ha un finale dalle atmosfere noir. Con i suoi primi romanzi, soprattutto, Aldo Busi ha saputo raccontare meglio di altri le tradizioni e i tabù di un’Italia ancora contadina, conservatrice, e a trovare il coraggio di sdoganare, con molto realismo e senza falsi pudori, un tema difficile e delicato come quello dell’omosessualità. L’italiano di Busi è come sempre sontuoso, preciso, millimetrico. La sua prosa torrenziale, un uragano di bellezza, alta letteratura.

Angelo Cennamo

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IL POTERE DEL CANE – Don Winslow

 

 

Il potere del cane - Don Winslow

 

 

Quando compri un romanzo di Don Winslow sai più o meno cosa ti attende: unghie mangiucchiate, polpastrelli levigati fino alla totale abrasione; nottate insonni a bere caffè, sperando che l’inquilino del piano di sopra si decida una buona volta ad abbassare il volume della tv; conversazioni telefoniche interrotte bruscamente con un “Ok, ok, la richiamo io”, salvo poi dimenticarti il perché e soprattutto chi, chi dovrai richiamare. E quando.

Sono arrivato a leggere Il Potere del cane seguendo un percorso a ritroso, dopo cioè aver apprezzato Corruzione, l’ultimo libro di Winslow, uscito contemporaneamente negli Usa e in Italia, quasi a suggellare il rapporto di amicizia che lega il nostro Paese al grande scrittore newyorchese. Il titolo di nuovo maestro del crime Winslow se l’è guadagnato sul campo, praticando prima il mestiere di investigatore privato, poi scrivendo bestsellers del calibro de: L’inverno di Frankie Machine, La pattuglia dell’alba, Le Belve, Il Cartello, romanzi di grande successo che hanno ispirato anche il mondo della cinema.

Diciamo subito che maneggiare un librone di oltre settecento pagine fittissime di nomi e di avvenimenti come Il Potere del cane richiede molta concentrazione. Per orientarsi allora nell’intricatissima rete degli eventi, abilmente disegnata dall’autore, e in confronto alla quale anche le ingarbugliate vicende della famiglia Incandenza dell’Infinite Jest di Foster Wallace possono apparire come un’ordinata e prevedibile sequenza di fatti, consiglierei ai lettori di dotarsi di carta e penna e di appuntarsi i passaggi salienti della storia: nomi e riferimenti geografici. Eviterò di dilungarmi sulla trama per non inciampare in qualche sgradevole anticipazione: quando si recensisce un libro di Winslow lo spoiler è sempre in agguato.

Il Potere del cane è un romanzo sul narcotraffico – il Guerra e Pace del narcotraffico lo ha definito qualcuno, evocando le suggestioni del celebre libro di Tolstoj. Non un thriller in senso stretto, ma un romanzo criminale, lo spaccato cioè di una società corrotta e collusa con i più agguerriti cartelli della droga messicana e colombiana che si combattono in spregio di qualunque codice giuridico e morale. I personaggi, numerosi, che Winslow tratteggia magistralmente nel corso della narrazione – sempre fluida, incalzante, con dialoghi serrati che sembrano usciti dalla sceneggiatura di un film –  si muovono lungo tutto l’asse del Centro America, dal Texas alla Colombia, in un andirivieni frenetico che tiene il lettore col fiato sospeso dall’inizio alla fine.

Vediamoli alcuni di questi protagonisti, a cominciare da Art Keller, il superpoliziotto che da solo o quasi deve fronteggiare i peggiori clan criminali dello spaccio. Art, nato da padre bianco e da madre messicana, e cresciuto nel Barrio di San Diego, è perfettamente a suo agio nell’antropologia criminale che popola il romanzo. Coraggioso, spavaldo, eticamente duttile, è forse corrotto come il Denny Malone di Corruzione? Chi non lo è nei romanzi di Winslow. Art è un agente della DEA, l’unità speciale della polizia americana che contrasta i cartelli messicani. Ma lui in quel mondo si è calato in gran segreto attraverso altri canali: i fratelli Adàn e Raul Barrera, nipoti del più temuto Miguel Angel, detto Tìo, anche lui poliziotto come Art, sulle tracce di Don Pedro, El Patròn, il re del narcotraffico fino a quel momento.

Art ci avrebbe pensato, e avrebbe capito che prima di conoscere Adàn Barrera non aveva mai avuto un vero amico“. Relazioni pericolose, ambigue. La protezione che Tìo Barrera accorda inizialmente ad Art Keller è il viatico più breve per guadagnare prestigio e considerazione negli ambienti della polizia. Ma col tempo quella strana sudditanza diventa un fardello ingombrante, una macchia che Art deve levarsi di dosso per non rimanere schiacciato come tutti gli altri personaggi della storia.

Adàn e Raul sono criminali spietati, disposti a tutto pur di disarcionare Don Pedro dal vertice della malavita. La nuova Federaciòn dei Barrera sarà come la Gallia di Giulio Cesare, divisa in tre parti: gli Stati del Golfo, lo Stato di Sonora e La Baja. Le vicende della famiglia Barrera sono una lunga sequenza di colpi di scena, delitti, ritorsioni, e di finti pentimenti. Padre Parada è un prete di strada, cresciuto in mezzo al popolo, un uomo potente ma anche un folle che sfida i proiettili, il potere criminale e la corruzione della Chiesa. La sua presenza carismatica è il crocevia di molte storie che vanno ad intersecarsi con le indagini di Art e con le scorribande di altri protagonisti, a cominciare da Sean Callan, ragazzo di origini irlandesi trasformatosi quasi per caso in un killer spietato ed infallibile, e Nora Hayden, prostituta di alto bordo, finita, dopo un’adolescenza tormentata, nel vortice dell’organizzazione criminale. Nora ci viene descritta come una donna bellissima, affascinante, sensuale, di fronte alla quale nessun uomo saprebbe resistere, neppure Padre Parada. Eppure in Nora c’è una luce, un barlume di moralità. Tutti i personaggi del libro sembrano attraversati da un velato senso di colpa e animati dal desiderio di redimersi in qualche modo. Timidi tentativi soffocati però da un male più profondo e da una guerra feroce che non risparmia nessuno.

Angelo Cennamo

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GLI INDIFFERENTI – Alberto Moravia

Gli Indifferenti - Moravia

“Entrò Carla”

Non ha ancora compiuto 18 anni Alberto Pincherle – non ancora Moravia – quando nel letto di un ospedale comincia ad abbozzare il suo primo romanzo. L’incipit, folgorante, denota personalità. Gli Indifferenti  esce nel 1929, a tre anni di distanza da Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, a sei da La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Nel 1921 Gabriele D’Annunzio aveva pubblicato Il Notturno, nel 1925 era uscito il capolavoro di Eugenio Montale Ossi di seppia, e di lì a poco, nel 1931, Grazia Deledda, altro premio Nobel, avrebbe mandato alle stampe Il paese del vento. La letteratura italiana negli anni ’20 del Novecento ha raggiunto picchi altissimi.

Rileggendo Gli Indifferenti – l’archetipo della produzione letteraria di Moravia, il romanzo sul quale lo scrittore romano ha plasmato anche i libri successivi, quasi tutti incentrati sul tema della noia e dell’insoddisfazione – mi è venuta in mente la contiguità di questo autore con il collega e amico Pier Paolo Pasolini. Come Pasolini, Moravia ha raccontato il disprezzo per la borghesia. Pasolini lo ha fatto accompagnando il lettore nelle periferie, nelle borgate del sottoproletariato urbano, descrivendo gli scenari dove si è consumato anche il suo tragico destino. Moravia, invece, ha attaccato e dissacrato il falso perbenismo della buona società dal di dentro, costruendo trame e personaggi che appartenevano al suo stesso mondo – oggi disperso, sfumato nella globalizzazione – dal quale ha cercato invano di liberarsi alla maniera di Dino, il protagonista de La Noia, o come sperano di fare anche Michele e Carla, i due rampolli della famiglia Ardengo al centro di questo.

La storia de Gli Indifferenti ruota intorno a pochi personaggi ed è ambientata in una Roma quasi invisibile, mai citata nello svolgimento del racconto. Tutto, o quasi tutto, accade nella villa lussuosa degli Ardengo, luogo di intrattenimento, di conversazione e di scontro, soprattutto tra l’adolescente Michele e Leo, amante di Mariagrazia e poi della giovane Carla. Leo Merumeci è un ricco uomo d’affari che si gode la vita e che può decidere liberamente le sorti della famiglia Ardengo, a un passo dalla rovina finanziaria e con un’ipoteca sulla casa. La relazione con Mariagrazia è ormai logora e senza stimoli. Leo si invaghisce della giovane Carla, oggi ventiquattrenne, che non disdegna affatto le attenzioni del quasi patrigno. Carla non è innamorata di Leo, ma sogna un’altra vita e l’amante pentito di sua madre è la sola occasione che le resta per fuggire dal quel mondo claustrofobico, infantile, di noiose ritualità e di subordinazione. Mariagrazia è gelosissima del facoltoso Casanova ma non può immaginare fino a che punto si è spinta la trasgressione di Leo. La tresca tra l’amante e sua figlia si accende con un bacio rubato dietro a una tenda, nel vestibolo della villa, per poi consumarsi definitivamente una notte, a casa di Leo. A scoprire il tradimento sarà il nemico-amico di Leo: Michele, il quale, suo malgrado e prima che la commedia si trasformi in farsa, si vede costretto dalle circostanze ad interpretare un ruolo che non gli appartiene, quello del fratello offeso che deve lavare col sangue il disonore subito.

Gli Indifferenti è una pietra miliare della letteratura italiana e non solo italiana – tra i cinque/sei libri del nostro Novecento – il primissimo romanzo esistenzialista, corrente letteraria e filosofica la cui paternità viene solitamente attribuita ai francesi Camus e Sartre. I temi affrontati sono quelli di sempre della produzione moraviana: la noia, il disprezzo per il denaro, il tradimento. Gli Ardengo sono il ritratto di una borghesia insulsa, cinica, vissuta un secolo fa, ma la storia raccontata dal giovane autore, per quanto lontana nel tempo, non smette di essere attuale, attualissima: il materialismo e l’apatia degli indifferenti Ardengo li ritroviamo ultimamente al cinema, in film come La grande bellezza di Sorrentino o Il capitale umano di Virzì. Ma anche nella stessa letteratura, in romanzi come Con le peggiori intenzioni e Dove la storia finisce di Alessandro Piperno o Il Nido di Cynthia D’Aprix Sweeney.

Angelo Cennamo

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IL FIGLIO – Philipp Meyer

IL FIGLIO - MEYER

Nel 2013, quattro anni dopo il romanzo di esordio, Ruggine Americana, Philipp Meyer pubblica Il Figlio, libro ambizioso, epico e tragico al tempo stesso, che racconta la storia di una famiglia texana lunga tre generazioni: i McCullough.

Meyer procede attraverso più piani narrativi, separati per paragrafi, ciascuno dedicato ai protagonisti del racconto: Eli “Il Colonnello”, il capostipite ora centenario; suo figlio Peter; la pronipote Jeanne Anne. Per orientare meglio i lettori nelle diverse ramificazioni dei McCullough, l’autore traccia nella prima pagina del romanzo l’albero genealogico della famiglia. La storia ha inizio il 2 marzo del 1836, ovvero nel giorno, mese e anno in cui il Texas viene strappato alla tirannia messicana. Quello stesso giorno nasce Eli, il primo figlio maschio venuto alla luce nella nuova Repubblica Indipendente del Texas.

“Aveva le braccia come bacchette da fucile e la faccia chiazzata come vecchio cuoio grezzo, e dicevano che alla prossima caduta sarebbe finito dritto nella tomba”. Eli è un animale semplice “mai turbato dalla coscienza, o dalla consapevolezza“. La sua adolescenza è segnata da un’esperienza drammatica: mentre suo padre è partito all’inseguimento di un ladro di bestiame, viene rapito dai Comanche, tribù indiana che aveva cacciato in mare gli Apache, annientato l’esercito spagnolo e trasformato il Messico in un mercato di schiavi. I Comanche allevano Eli come uno di loro: gli insegnano a cavalcare, a costruire e ad usare le armi, a scotennare gli avversari, e lo iniziano al sesso. Tre anni intensi di vita selvaggia che Meyer racconta nei minimi dettagli, con un massimalismo argomentativo che rasenta il saggio.

Di tutt’altra pasta è invece Peter, il figlio di Eli, autore di un diario che sarà l’unica testimonianza autentica della famiglia McCullough. Colto, sensibile, democratico oltre ogni eccesso, contrario all’uso delle armi e alla giustizia “fai da te” praticata da molti uomini bianchi nella sua contea, i suoi figli compresi, Peter è considerato il disonore della famiglia, il peggiore dei discendenti di Eli, uomo debole e senza nerbo. Troppo civile per sopravvivere in quel branco di cowboy rozzi, violenti e dal grilletto facile.  “Avevo pensato che fossi un ritardato o un comunista”, gli dice il fratello Phineas nel corso di una delle numerose liti. Da esule in casa propria che parteggia per i messicani, che per questo lo disprezzano, Peter trova nei libri il suo unico conforto. La parte della narrazione a lui dedicata è probabilmente la più appassionante dell’intero romanzo. Ad animare la storia è un tragico avvenimento che coinvolge la famiglia di Pedro Garcia, un messicano che abita poco distante dal ranch dei McCullough. Il furto di alcuni capi di bestiame e il ferimento di Glenn, figlio maggiore di Peter, diventa il pretesto per una rappresaglia nella proprietà dei vicini. Il prezzo dell’affronto sarà altissimo. Peter voleva bene a Pedro e quella giornata di fuoco rimarrà nei suoi ricordi per sempre. Più avanti nella storia, l’incontro inaspettato con Maria, unica sopravvissuta alla strage, sarà per lui un nuovo inizio.

La saga dei McCullough si conclude con il racconto della vita di Jeanne Anne, pronipote di Eli, ora ottantenne e ricca petroliera immortalata sulla copertina del Time. La sua figura ci ricorda molto quella del “Colonnello”, dal quale Jeanne ha ereditato la stessa spregiudicatezza e uno smodato desiderio di libertà. Jeanne ci viene descritta come una donna tenace ma inquieta, ultima erede di una stirpe vissuta nel mito del possesso “Le cose non servono a nulla se non puoi dargli il tuo nome” e in quello dell’onore e del rispetto che si conquistano con la forza. Dopo di lei, una generazione di giovani viziati e inconsapevoli che nel ritratto di quel trisavolo così bizzarro, mezzo indiano e mezzo texano, stenteranno a riconoscersi.

Il Figlio è un libro potente, un po’ western un po’ romanzo storico, che ci fa conoscere un pezzo importante della società americana del sud, la sua evoluzione, e che affronta un tema sempre attuale: i difficili rapporti tra Texas e Messico. Storie di confine che ci riportano ad altri grandi romanzi di questo genere come Meridiano di sangue e Cavalli Selvaggi di Cormac McCarthy, autore al quale Meyer sembra ispirarsi con la sua scrittura asciutta e senza fronzoli.

Angelo Cennamo

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