Quando l’8 maggio del 1983 John Fante morì, nel suo paese era stato dimenticato quasi del tutto come romanziere; l’editore John Martin non l’aveva sentito mai nominare. Forse per via della cronologia irregolare, sincopata dei suoi (pochi) successi letterari. Prendete ad esempio il primo romanzo “La strada per Los Angeles”, scritto tra il 1934 e il 1936. Nessun editore volle pubblicarlo prima del 1985, vale a dire due anni dopo la morte di Fante.
“Aspetta primavera, Bandini”, che esce nel 1938, è di fatto il primo libro dell’autore di Denver, l’esordio di Arturo Bandini (alter ego di Fante), e anche il suo unico romanzo scritto in terza persona e completamente ambientato in Colorado, lo Stato americano dove Nicola Fante, padre di John, originario di Torricella Peligna, piccolo comune del chietino, trent’anni prima si era trasferito in cerca di fortuna come muratore. Chiedersi dove finisce la finzione e dove ha inizio la verità nelle storie di Fante è un esercizio pressoché inutile: poche bibliografie sono più autobiografiche di quella di John Fante.
Dicevo prima dell’ambientazione. In “Aspetta primavera, Bandini” tutto accade a Rocklin, una cittadina di diecimila anime del Colorado. Arturo Bandini è un ragazzino lentiginoso, molto vispo, un ribelle “suo padre in miniatura, suo padre senza baffi”. Gli hanno dato questo nome, Arturo, ma lui avrebbe preferito chiamarsi John. Suo padre e sua madre erano italiani “ma lui avrebbe preferito essere americano”. Suo padre era muratore “ma lui avrebbe preferito diventare il lanciatore dei Chicago Cubs”.

Il romanzo si apre con Svevo Bandini, il padre burbero, lo scalpellino italiano amante del vino e del poker che in altri libri è Nick Molise o semplicemente Nick Fante. È lui il vero protagonista della storia, più di quanto lo sia Arturo. Manca poco al Natale. Svevo ha una casa che non ha pagato, un paio di scarpe sfondate e riparate alla meglio con del cartone, è senza lavoro, le sue tasche sono vuote: gli ultimi dieci dollari li ha persi giocando a poker. Un disperato. Nell’incipit lo vediamo tornare a casa mentre affonda le sue scarpe scassate nella neve. Non è sobrio, bestemmia, maledice quel Colorado sempre ghiacciato, il posto peggiore per un muratore italiano. È andato in America e c’ha trovato l’Abruzzo. Svevo non è mai partito. A casa lo aspettano i suoi tre figli e la moglie devota “si chiamava Maria, ed era paziente, lo aspettava, gli sfiorava i muscoli dei lombi, così paziente, lo riempiva di baci qui e là”. Maria che cucina, Maria che rassetta casa, Maria che sgrana il rosario, unico diversivo in una vita di stenti e di umiliazioni, sempre uguale. Nella fede Maria ha trovato la sua “ragion d’essere”. Ma Svevo almeno la ama? Le è fedele?
Due scene. La prima. Maria nella salumeria del sig. Craik, che ai Bandini fa credito ormai da settimane. Maria entra in punta di piedi, non dice nulla, si ferma in un angolino, il suo imbarazzo ci dà la misura e il senso della povertà. È uno dei momenti più toccanti del romanzo.
La seconda. Arturo decide di andare a casa di Effie Hildegarde, la ricca vedova che ha sedotto Svevo. Ma non appena vede il padre sull’uscio della sua villa con in bocca un sigaro e con addosso un pigiama di seta costosissimo, rimane abbagliato. La rabbia si tramuta in orgoglio. Quel pezzo d’uomo gli appare come il re d’Inghilterra, e allora “soffrisse pure, sua madre!”.
“Aspetta primavera, Bandini” è una storia di miseria e di sentimenti forti, dolceamara come certe pellicole neorealiste di De Sica e Rossellini. Con Svevo che canta “Oi Marì” e “Torna a Surriento”, la gelida Rocklin non è così diversa da Torricella Peligna. Un bellissimo romanzo italiano.
Angelo Cennamo