COLD SPRING HARBOR – Richard Yates

 

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Le vite ordinarie raccontate da Richard Yates nei suoi romanzi sono le nostre vite. Cold Spring Harbor, l’ultimo romanzo di Yates, viene pubblicato nel 1985, ventiquattro anni dopo il più celebre “Revolutionarity road”, il libro d’esordio che ha lanciato lo scrittore di Yonkers nel ghota della letteratura americana. Yates è appena uscito da un periodo difficile, tormentato, e non solo dal punto di vista professionale. Come nell’altro romanzo, al centro del racconto scopriamo storie di nuclei familiari –  in questo caso gli Shepard e i Drake – i cui destini si incrociano per una strana circostanza in un caldo e indimenticabile pomeriggio newyorchese. “Cold Spring Harbor” e’ il nome di un piccolo villaggio su Long Island. Qui vive Charles Shepard, un capitano dell’esercito costretto al congedo per un problema alla vista, con sua moglie Grace, donna sull’orlo di una crisi di nervi e quasi del tutto assente nello svolgimento della trama, ed Evan, l’unico figlio della coppia, uscito da un’adolescenza turbolenta, costellata di piccole infrazioni penali, grazie alla passione per i motori. Quando bussa alla porta di Gloria Drake, una porta qualunque, Charles ha l’auto in panne e ha bisogno di un telefono. “Gloria poteva avere non più di cinquant’anni, ma delle sue eventuali grazie di un tempo non era rimasto granché“. E’ una donna sola, divorziata da parecchi anni, con due figli. L’incontro tra i due sembra il preludio di una imprevedibile passione – Charles e’ un uomo gradevole e Gloria non nasconde affatto la simpatia che prova per lui – ma ad innamorarsi sono i loro figli: Evan – bullo di periferia, sveglio, pragmatico, con una breve esperienza matrimoniale alle spalle – e Rachel – ragazza fragile e sognatrice, con un fratello più giovane ( Phil), timido, goffo, che non andrà mai a genio al futuro cognato. Tutto il romanzo scorre senza sussulti attraverso le vicende quotidiane delle due famiglie, diventate tre dopo il matrimonio di Evan con Rachel. La narrazione fluida, come sempre curata e particolareggiata di Yates, non sembra infatti conferire al racconto lo spessore del capolavoro. Ma la ricomparsa nella trama di Mary, la prima moglie di Evan, conosciuta dal giovane Shepard tra i banchi del liceo e sposata per una gravidanza improvvisa, cambierà decisamente il corso degli eventi e chiuderà la storia con un finale amaro e inaspettato.

‎Perché ci piacciono così tanto i romanzi di Richard Yates? Perché nelle storie che raccontano non accade nulla: Yates ci sorprende con la normalità; i protagonisti delle sue trame sono persone come noi, uomini e donne che si sposano, che litigano e che fanno figli. Nella figura del capitano Shepard, ad esempio, ho ritrovato mio padre, anche lui pensionato dell’esercito. Nella decadente signora Drake, una vicina di casa, segnata dalla malinconia e con la paura di invecchiare. Il giovane Evan, invece, somiglia molto ad un mio vecchio compagno di scuola, bello e dannato proprio come lo scapestrato marito di Rachel. Si chiamava Giorgio. Chissà che fine ha fatto.

Angelo Cennamo ‎

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L’OPERA GALLEGGIANTE – John Barth

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Risalendo la corrente del postmodernismo americano, prima o poi si finisce per incrociare un autore leggendario, capace di scomporre e ricomporre le narrazioni secondo schemi inediti. Le sperimentazioni linguistiche di John Barth, negli anni cinquanta del secolo scorso, sono tra i migliori esempi di avanguardismo. La scrittura è consapevolmente intellettualistica, complessa, piena di giochi di parole e di peripezie lessicali che in parte ritroviamo nel massimalismo isterico di scrittori contemporanei: Dave Eggers, David Foster Wallace: “Mi trovavo agli inizi d’un periodo di eremitaggio misantropico…Fuori, nel croccante prato marzolino…assapora una breve epistassi“.

L’Opera Galleggiante è il romanzo più popolare di Barth; uscito per la prima volta nel 1956, viene ripubblicato undici anni dopo in una versione riveduta e corretta, meno indigesta per il grande pubblico. Ciononostante il libro segna l’inizio di una nuova stagione letteraria proprio per lo stile bislacco, pirotecnico, del suo giovane autore. ‎Come buona parte del postmodernismo, la letteratura di Barth parla di se stessa, è autoreferenziale e/o metanarrativa: il narratore cioè entra nel racconto e interloquisce con il lettore‎: “La mia prosa è uno strumento dall’andatura goffa, privo di grazia, e non ho alcuna padronanza degli stratagemmi stilistici“. La voglia di stupire spinge addirittura Barth a scrivere un paragrafo su due colonne, con due versioni diverse. Al centro del romanzo, dunque, non c’è la storia ma la rappresentazione della storia: “non riesco a terminare, lettori, non riesco a tenere la penna sino alla fine della riga“.

‎”Mi chiamo Todd Andrews…ho 54 anni…sono scapolo, vivo in una camera d’albergo a Cambridge, nel Maryland…sono il miglior avvocato forse sulla Costa Orientale…indosso vestiti costosi e fumo sigari Robert Burns” Ne L’Opera Galleggiante –  il titolo è  ispirato da un fantasmagorico showboat che un tempo viaggiava per le paludi della Virginia e del Maryland – i romanzi sono due, concentrici : da un lato la storia di uno stravagante triangolo amoroso nel quale viene accidentalmente coinvolto il protagonista – stravagante perché consapevole, per meglio dire, istigato da una giovane coppia di suoi amici “ciascuno di noi tre amava gli altri due con tutto l’affetto di cui ciascuno era capace“. Dall’altro, il racconto di una vicenda intima, carico di introspezione e di spunti filosofici, che vede l’io narrante alle prese con una misteriosa “indagine” legata al suicidio del padre, anche lui avvocato, consumatosi l’indomani del crollo di Wall Street. Un tragico destino verso il quale sembra indirizzarsi lo stesso Todd il 21 giugno del 1937, data che farà da spartiacque nell’evoluzione della trama e intorno alla quale ruoterà l’intero romanzo. Il nostro avvocato non gode di buona salute: ha una prostata capricciosa, responsabile di imbarazzanti defaillances sessuali, ed è anche affetto da una rara forma di endocardite che lo costringe a vivere una vita senza mete e obiettivi, come  se ogni attimo del suo tempo fosse l’ultimo. “Nulla ha un valore intrinseco” è questa la conclusione della sua lunga peregrinazione filosofica. “Ma se la morte è la fine totale, non sarà meglio rimanere vivi in qualsiasi circostanza?” gli domanda un vecchio amico alle prese con le sue stesse turbe esistenziali. Sono trascorsi vent’anni da quel 21 giugno del 1937 e Todd Andrews non sa ancora spiegare perché il padre si è ucciso, e neppure perché non si è ucciso lui. L’indagine deve continuare.

Angelo Cennamo

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SESSANTA RACCONTI – Dino Buzzati

 

 

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Nel 1940 un giovane ed eclettico giornalista del bellunese, trapiantato a Milano, pubblica un libro destinato a diventare uno dei romanzi più apprezzati della letteratura mondiale. Ha poco più di trent’anni Dino Buzzati quando, tra un reportage e un editoriale sul Corriere della sera, comincia a scrivere Il deserto dei tartari – forse il più bel romanzo italiano del ‘900. Nonostante il successo internazionale, in Italia Buzzati deve faticare parecchio per ottenere la giusta considerazione da parte della critica, che invece matura con maggiore disinvoltura in altri Paesi, a cominciare dalla Francia. Questo accade probabilmente per due ragioni. La prima, una propensione fin troppo originale e spinta al surrealismo, ad una letteratura quasi onirica, eccessivamente moderna nel tempo in cui gli italiani preferiscono il neorealismo di Levi, Fenoglio e del primo Pasolini, oppure l’esistenzialismo ante litteram  di Moravia. La seconda, l’indifferenza di Buzzati nei confronti delle solite conventicole o correnti politicamente più attive nell’editoria e nel circuito degli artisti.

Nel 1958 è la volta di Sessanta racconti, una raccolta di scritti brevi, in parte già editi, con i quali l’autore vince il premio Strega. Da giornalista navigato, Buzzati è un maestro della scrittura breve; la forma del racconto gli è particolarmente congeniale perché mette in risalto il suo stile asciutto, essenziale, e il ritmo incalzante delle storie, sempre diverse, cariche di pathos, di suspance, di comicità e di poesia. Nei racconti di Buzzati spesso aleggia un mistero, talvolta è un evento che stenta ad avverarsi, altre volte è un fantasma “Gli amici”, “Racconto di Natale” e “L’assalto al grande convoglio, nel quale un vecchio capo brigante, per tenere fede a una promessa fatta ad un suo giovane adepto, da solo, si lancia in un improbabile assalto ad un convoglio di valori. Trafitto inesorabilmente, nell’attimo del trapasso l’uomo rivede su una collinetta i suoi compagni morti e cavalca insieme a loro verso l’altro mondo.

Nel tragicomico “Sette piani” un malato molto sfortunato, nel giorno del suo ricovero, viene sistemato all’ultimo piano di uno stravagante ospedale. Il piano, gli viene detto, riservato ai casi meno gravi. Ma nonostante le continue rassicurazioni dei medici sul suo buono tato di salute, il paziente viene trasferito giorno dopo giorno ai piani inferiori, fino a che si ritrova nel girone dei moribondi.

Sessanta racconti è una vertiginosa carrellata di personaggi fantastici ed imprevedibili tra i quali non mancano draghi, marziani, gocce d’acqua che di notte salgono misteriosamente le scale di un condominio, e un simpatico facocero –  ideato da Buzzati sessant’anni prima del cinghiale assassino di Giordano Meacci. Pagine di una letteratura inarrivabile e senza tempo.

Angelo Cennamo

 

 

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LIBERTA’ – Jonathan Franzen

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Nel 2010, nove anni dopo il grande successo de Le Correzioni, Jonathan Franzen pubblica Libertà. È il suo quarto romanzo. Il clamore tra gli addetti ai lavori che fanno circolare segretamente le bozze dattiloscritte prima dell’uscita del libro si riverbera tra i lettori più affezionati e finisce per alimentare intorno all’autore di Western Springs un alone leggendario. Cresce l’attesa per quello che si preannuncia l’evento letterario dell’anno. Ad agosto, il Time incorona Franzen come il più grande scrittore americano. Prima di lui, la prestigiosa copertina era toccata solo ad autori del calibro di Vladimir Nabokov e del premio Nobel Saul Bellow.

Libertà racconta la storia di una famiglia apparentemente perfetta, quella dei coniugi Walter e Patty Berglund, pionieri di Ramsey Hill, un quartiere esclusivo della cittadina di St. Paul, nel Minnesota. Qui Walter e Patty hanno cresciuto i loro due figli Jessica e Joey secondo i principi della buona tradizione liberale e progressista. Ma come spesso accade nelle storie familiari di Franzen, dietro quell’armonia di facciata, quella freschezza mista di perbenismo e di ineccepibile senso civico, si nascondono conflitti laceranti e sentimenti torbidi. Dopo essere stato sedotto da Connie, una ragazza più grande di lui, sua vicina di casa, Joey decide di abbandonare i suoi genitori e di traslocare dai suoceri, gente di destra, maleducata ed incolta. Patty vive la ribellione del figlio e il suo allontanamento come un tradimento immeritato, e sfoga la sua frustrazione nel diario segreto che uno psicanalista le ha suggerito di scrivere per affrancarsi dalla depressione. Poche righe giornaliere che rivelano al lettore una seconda storia, la più importante del romanzo: la passione che lega la signora Berglund al musicista Richard Katz, il migliore amico di suo marito al college. Fin dai tempi dell’Università Patty è combattuta tra l’amore passionale per il fascinoso Richard, e quello più composto per Walter, marito affidabile e padre esemplare. Un triangolo angosciante che mette a dura prova i sentimenti dei due amanti, entrambi molto legati a Mr. Berglund, incarnazione di quell’agognata purezza che Franzen continuerà ad inseguire nel romanzo successivo Purity. Walter il puro, l’amico fedele, il marito che sa ascoltare e che sullo sfondo della guerra in Afghanistan e delle politiche spregiudicate di Bush si inventa una crociata ambientalista per salvare un uccellino che rischia l’estinzione, del quale non importa niente a nessuno: la “dendroica cerulea”. Le deviazioni dal giusto di Patty Berglund e di Richard Katz non sono molto diverse da quelle dei fratelli Lambert che abbiamo conosciuto ne Le Correzioni:  “Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” scrive Tolstoj, autore che Franzen ama molto e che cita nel suo romanzo evidentemente per declinare in chiave moderna l’eterno conflitto tra il bene e il male.

Angelo Cennamo

    

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LA MIA VITA DI UOMO – Philip Roth

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Il sarcasmo e la comicità con cui Philip Roth imbastisce le trame di certi suoi romanzi fa pensare alla filmografia di Woody Allen. Pensateci, alcuni libri di Roth somigliano molto soprattutto ai primi film di Allen: Provaci ancora, Sam; Io e Annie; Manhattan. I temi sono gli stessi: relazioni familiari complicate, infedeltà, sesso, psicoanalisi, ebraismo, il più delle volte sullo sfondo di metropoli rumorose e snervanti.

La mia vita di uomo, pubblicato nei primi anni ‘70, potrebbe essere stato tratto da uno di quei film. Al centro del romanzo, tra i più rothiani di Roth,  c’è il matrimonio tempestoso tra Peter e Maureen Tarnopol, un  giovane scrittore e una donna più grande di lui, pluridivorziata e isterica: “la donna che vorrebbe essere la sua musa ma è invece la sua nemesi” scrive il Newsday sulla quarta di copertina. L’unione tra Peter e Maureen si basa su una menzogna e sul ricatto morale: lei si finge incinta con un falso campione di urina e minaccia di suicidarsi se Peter dovesse porre fine alla relazione. Per il giovane scrittore il matrimonio diventa fin da subito un incubo. Vorrebbe liberarsene attraverso la scrittura e l’infedeltà, ma non ci riesce: è soggiogato da quell’arpia di Maureen che spia le sue trasgressioni e continua a minacciarlo. Neppure la causa di separazione riesce a rasserenare il clima; Peter ora è angosciato dalle spese per il mantenimento, altissime, non gli danno tregua. A un tassista che lo riconosce e che gli chiede: “ Ehi Tarnopol, cosa stai scrivendo in questo periodo?” Lui risponde: “Assegni” – è la frase più comica del romanzo. Per fortuna che c’è Susan, giovane e affascinate vedova di buona famiglia che si innamora di lui e lo accoglie ogni sera,  come una geisha, nel suo lussuoso appartamento newyorkese. Ma Peter non riesce a darsi pace: la prospettiva di sposare Susan dopo il divorzio e di assecondare la sua smania di maternità, lo scoraggia. In preda alla disperazione, decide allora di sfogare la propria infelicità da uno psicanalista. E lui cosa fa? Pubblica tutto su una rivista scientifica, travisandone cause ed effetti. Ne nasce un parapiglia grottesco, eppure Peter quel medico maldestro non lo molla: la sudditanza psicologica va ben oltre la figura di Maureen. Quanti tormenti, che angoscia. E quanta comicità soprattutto nelle ultime pagine, è lì che il romanzo raggiunge le vette narrative più alte: la scena dell’incontro inaspettato tra Peter e la sua – quasi – ex moglie, con l’ultimo trabocchetto di lei, è davvero esilarante. Tutta la rabbia accumulata dallo scrittore esplode in un raptus di violenza e lei, terrorizzata, se la fa sotto. Nel senso letterale. Peter è sopraffatto dalla puzza che si propaga in tutte le stanze, ma non demorde. Maureen morirà sotto i colpi incessanti dell’esausto Peter? “Ma è davvero morta? Morta sul serio? Morta come sono i morti?”.

Angelo Cennamo

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TODO MODO – Leonardo Sciascia

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L’eremo di Zafer sembra un monastero ma non è un monastero. È un albergo tenuto da preti in un luogo imprecisato di un’ignota provincia italiana. Siamo in Sicilia? Può darsi. In questo luogo così sperduto e inaccessibile, tra querce e castagni, si è data appuntamento una combriccola di ministri, deputati e industriali per degli strani esercizi spirituali.

Un noto pittore, capitato per caso nella zona, si ritrova suo malgrado testimone di quella riunione segreta, organizzata e diretta da don Gaetano, figura enigmatica e sommo sacerdote di una liturgia che ha poco a che vedere con la Fede. Durante la recita collettiva del Rosario “si sentì come uno stappo”: uno degli ospiti, un ex senatore ora presidente di un grosso Ente di Stato, viene ammazzato con un colpo di pistola ravvicinato “opaco, attutito, come se l’arma fosse stata appoggiata al bersaglio”. Con la polizia arriva il procuratore Scalabri, vecchio compagno di scuola del famoso pittore. Si chiudono le porte e iniziano le indagini. Sul piazzale viene disegnata la sagoma della vittima. Ma ricostruire gli ultimi istanti e le posizioni assunte dai convenuti nel corso della preghiera sarà un’operazione complicatissima, forse inutile. Chi era di fianco al povero senatore Michelozzi? Nessuno sa, nessuno ricorda, nessuno ha visto. Quella congregazione di uomini potenti si trasforma in un canestro di vipere che si mordono tra di loro. In piena notte l’avvocato Voltrano cade giù dall’ultimo piano dell’edificio. Cosa nascondeva? chi voleva minacciare? Il caso si infittisce. Qual è il movente dei due omicidi? “Il fatto è che di moventi, tra questa gente, nei puoi trovare a migliaia”. Vero don Gaetano?

È 1974 quando Leonardo Sciascia pubblica Todo Modo, romanzo dalla trama suggestiva e dai contenuti torbidi che evocano non solo scandali e misfatti della politica, ma anche la degenerazione del clero, complice di quel malaffare. Una storia di delitti giocata sull’allegoria, che racconta, prima di tanti altri libri che verranno dopo, la corruzione e più in generale l’assuefazione e/o indifferenza al male. Il romanzo è un giallo in piena regola che però nessuno ha mai definito giallo. Pagine belle, feroci, potenti, di alta letteratura – anche il giallo può esserlo – che conservano intatta la loro attualità e ci fanno riscoprire uno dei maggiori autori del Novecento.

Angelo Cennamo

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IL PARTIGIANO JOHNNY – Beppe Fenoglio

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C’era un ragazzo, nelle langhe piemontesi, che amava i libri di Shakespeare e di Marlowe, e che all’italiano preferiva la lingua inglese. Un giorno, dopo l’otto settembre del ’43, decise di imbracciare un fucile e unirsi alla lotta partigiana. Non era comunista ma sognava la libertà, un paese senza fascisti e senza tedeschi. Prima di morire, a soli 40 anni, le sofferenze e il coraggio di quei giorni interminabili li mise in un manoscritto, scarabocchiato prima in inglese e poi tradotto in italiano. Quel ragazzo si chiamava Beppe Fenoglio, e quegli appunti incompleti, scritti in un italiano originale, innovativo, arbitrario e ricco di inglesismi – il  “fenglese” –  faticosamente riordinati e pubblicati postumi nel 1968, sono diventati  uno dei romanzi più belli e struggenti del nostro Novecento: Il partigiano Johnny. Un romanzo autobiografico che racconta un pezzo di storia italiana da una visuale molto diversa ed insolita rispetto alle tipiche narrazioni sulla Resistenza. Il partigiano di Fenoglio, affascinato e stimolato dai discorsi di due suoi insegnanti di liceo, Chiodi e Cocito, sceglie di abbandonare il rifugio in collina dove il padre lo tiene nascosto dai tedeschi, per inseguire il nobile ideale della libertà “Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito in nome dell’autentico popolo d’Italia ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente…ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra“. Ma per non essere un emulo di Robin Hood, un partigiano deve per forza sposare la causa comunista, come sostiene Cocito, o gli basta combattere per la libertà, come gli risponde il collega Chiodi? Sarà questo uno dei temi del racconto, che inizia con l’arruolamento di Johnny proprio in una divisione “rossa” o “garibaldina”. Sentite come il partigiano Fenoglio descrive il suo capo Tito:  “Aveva un naso esageratamente minuscolo, ma malignamente piantato nella esagerata infossatura delle occhiaie, la fronte irregolare e bozzosa e come divorata dalla piantatura fitta e volgare dei capelli neri e senza lustro, con qualche striscia già innaturalmente bianca, repellente come bisce morte dissanguate e imprigionate nel catrame. La bocca era torta ed il mento sfuggente…Tito sei comunista? Johnny di sè : “I’m in the wrong sector of the right side“.
Ma  dovevano esserci sulle colline altre formazioni, formazioni “azzurre”, nelle quali egli non potesse così dolorosamente avvertire “lo stacco qualitativo” e fosse costretto a prendere lezioni di marxismo.
Eccoli gli altri, i “badogliani”, molti dei quali, come lui, ex sottufficiali dell’esercito, di estrazione liberale e piccolo borghese rispetto agli “operaiacci” dei partigiani rossi.
Il capo “Nord” era un bell’uomo di trent’anni con gli occhi azzurri “si muoveva con sobria elasticità su piedi in scarpe da pallacanestro“. Tra i partigiani azzurri Johnny si sente più a suo agio, anche se quei metodi così militareschi, diversi dalla vera guerriglia, rischiano  di complicare l’azione di contrasto al nemico. L’avventura di Johnny scorre veloce nella penna di Fenoglio ma le giornate vissute sul campo sono un’altra cosa, il tempo a volte rallenta e la noia ti trascina da un’altra parte “fare  il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare, poi vedere uno o più fascisti, alzarsi senza spazzolarsi dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomba mezzostimata“. La liberazione della città di  Alba durerà solo pochi giorni “Johnny si alzò in tutta la sua statura fuori del riparo degli olmi, con un intontimento, che era quello della disfatta: una vera, campale disfatta“.  ‎Il gelido inverno del ’44 sembra non finire mai, i partigiani azzurri attendono invano gli aiuti del contingente inglese, e per evitare brutte sorprese decidono di sbandarsi. Johnny si ritrova solo, il suo vagabondaggio fino alle Alpi liguri, affannoso, sofferente, ci ricorda quello del protagonista di un altro romanzo straordinario: Suttree di Cormac McCarthy. Sono le pagine più emozionanti ed affascinanti dell’intero racconto. I partigiani azzurri si ritroveranno per un’ultima adunata, e nell’ennesimo scontro a fuoco coi fascisti la storia sfuma nell’immaginazione del lettore: “Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomoatico…Due mesi dopo la guerra era finita“.

Angelo Cennamo

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STONER – John Williams

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Nel 2013 una prodigiosa ristampa riporta in vita un romanzo sconosciuto, trasformandolo nel caso editoriale dell’anno. Sul New Yorker il critico Tim Kreider lo definisce “Il più  grande romanzo americano di cui non avete mai sentito parlare“, e tre anni dopo il biografo Chrles J. Shields ne celebra la bellezza e le doti narrative dell’autore con un saggio intitolato: L’uomo che scrisse il romanzo perfetto. Ma andiamo con ordine. Siamo nel 1965 quando lo scrittore texano John Williams pubblica Stoner, suo terzo romanzo dopo Nothing But the Night, uscito nel 1948, e Butcher’s Crossing nel 1960. I dati sulle vendite non sono entusiasmanti: il libro vende appena duemila copie, poco più di quattromila con una successiva ristampa. Il grande successo arriva solo nel 2011, grazie a una popolare scrittrice francese, Anna Gavalda, che legge il romanzo in inglese, decide di acquistarne i diritti e lo fa pubblicare nella sua lingua. Gavalda resuscita ‎Stoner esattamente come Charles Bukowski fece mezzo secolo prima con Chiedi alla polvere di John Fante, libro rimasto sconosciuto prima che Bukowski obbligasse il suo editore a ristamparlo. Nel giro di qualche mese, il passaparola di altri autori, Ian McEwan e Julian Barnes su tutti, spingerà Stoner in vetta alle classifiche delle vendita di mezza Europa. Ma non negli Stati Uniti, dove ancora oggi il romanzo di Williams stenta ad essere riconosciuto come un capolavoro. Da cosa dipenda questa differente valutazione è difficile spiegarlo. La prosa lenta e rigogliosa di John E. Williams è più vicina allo stile della letteratura europea? Il protagonista della storia non incarna appieno lo stereotipo dell’americano ottimista e vincente? Eppure, dentro di sé, William Stoner ha molto di eroico: l’impegno che da ragazzo profonde negli studi per emanciparsi dalle umili origini contadine e diventare un docente universitario; lo stoicismo con cui affronta le tante avversità della vita; la rettitudine che lo porta a respingere ogni deviazione dal giusto. Sono doti queste che a Stoner vanno riconosciute. Voleva essere un uomo normale, Stoner. Nulla di più. Avere degli amici. Ne ebbe solo due, uno dei quali non fece in tempo ad esserlo perché morì in guerra. Una moglie affezionata che gli volesse bene, ma “Nel giro di un mese realizzò che il suo matrimonio era un fallimento”. Un lavoro gratificante di cui andare fiero, ma la lunga faida vissuta con il collega Hollis Lomax per via di uno studente raccomandato lo costrinse a starsene in disparte: “Su di lui scese una specie di letargia”. A quarantatrè anni compiuti Stoner conobbe finalmente l’amore e la passione che sua moglie Edith gli aveva sempre negato: “apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra”. Aveva il volto e i silenzi di Katherine Driscoll, una collega molto più giovane di lui, allieva del suo seminario. Sprazzi di felicità, gli unici, di un’esistenza vuota e inutilmente ordinata. A porre fine a quella relazione scandalosa ma neppure tanto clandestina non sarà Edith, indifferente perfino al tradimento di suo marito, ma Lomax. Ancora lui. Di fronte al bivio crudele tra l’amore e il lavoro, Stoner sceglierà le aule dell’università. Gli ultimi anni e la dolorosa fine che lo attende sono pagine di grande letteratura, le più intense e struggenti del romanzo, l’amaro bilancio di una vita grigia e desolata: “Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento…Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio. Aveva avuto anche quella e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità…Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre. Aveva sognato di mantenere una specie di integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. Che altro?, pensò. Che altro? Cosa ti aspettavi?”.

Angelo Cennamo                  

 

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LA SCOPA DEL SISTEMA – David Foster Wallace

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1987, uno studente universitario di Ithaca (NY) riscrive la propria tesi di laurea in filosofia e ne fa un romanzo folle, sgangherato, destinato però a lasciare una traccia importante nella letteratura americana. Quel ragazzo si chiama David Foster Wallace, di lì a poco diventerà uno degli scrittori più originali e innovativi della sua generazione, e subito dopo la morte per suicidio, a soli 46 anni, una figura di culto. Definire lo stile di Foster Wallace è complicato anche per un linguista arguto come Stefano Batterzaghi, che del suo romanzo di esordio ha curato la prefazione italiana per conto di Einaudi. Postmoderno, certo. Ma c’è dell’altro. La scrittura di Wallace è vertiginosa, ellittica, a volte incomprensibile. Leggere Wallace richiede uno sforzo maggiore, più concentrazione, ma ne vale la pena.

La scopa del sistema racconta le avventure di Lenore, una ragazza fragile e insicura che si mette alla ricerca della bisnonna novantenne ( ultima allieva del filosofo Wittggenstein), fuggita misteriosamente dalla casa di riposo insieme ad altri venticinque coetanei e infermieri. Tutto quello che accade nelle 575 pagine del romanzo: la difficile relazione tra Lenore e l’ultraquarantenne Rick, il fidanzato conosciuto nello studio dello psicanalista; la popolarità di Vlad l’impalatore, l’uccellino che recita sermoni religiosi su una tv via cavo, e i problemi di tossicodipendenza del fratello minore di Lenore,  non fa che da sfondo al tema centrale del racconto, che è proprio l’assenza della bisnonna filosofa, il vuoto lasciato dall’anziana fuggiasca.

La scopa del sistema è un libro un po’ comico, un po’ filosofico, con una struttura non proprio lineare, e con una punteggiatura avventurosa. L’approccio può risultare ostico anche per i continui richiami agli studi del personaggio scomparso: aporie, antinomie, messaggi cifrati, dettagli oscuri che tuttavia danno nuova linfa al racconto, originalità alla trama e stimolano la curiosità del lettore. Se non avete mai fatto esperienza di Wallace, cominciate da qui.

Angelo Cennamo

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LA RAGAZZA DAI CAPELLI STRANI – David Foster Wallace

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Dietro le quinte del David Letterman Show i ritmi sono frenetici e il frastuono snervante. Stacchi pubblicitari si alternano alle battute in studio. L’attrice del serial televisivo è divorata dall’ansia e va in onda con l’auricolare. L’occhio della telecamera indugia sulle smorfie e i tic dei protagonisti, gasati e sempre sorridenti. Tutto è veramente irreale. Il presentatore domina la scena con esperienza. La scritta APPLAUSI lampeggia di rosso. In sala, risate finte a crepapelle.

Un rampollo miliardario regala il concerto del musicista negro Keith Jarret alla sua combriccola di amici punk, drogati e puzzolenti, e per tutto il tempo rimane avvinghiato a Gin Fizz, la fidanzata tatuata con la cresta nei capelli a forma di fallo. Un Funzionario Commerciale nel garage della società incrocia il suo capo nell’imminenza di un infarto. Lo guarda fare una piroetta, creare con una raschiata una striscia ruvida e pulita nella fuliggine di un pilastro di calcestruzzo e abbattere col girotondo di un piede la ciambella di cemento che faceva da supporto a un segnale di SENSO UNICO. Il mento perso in una pozza di carne del suo stesso collo. “Meno male che il Funzionario Commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco”.

Il segretario gay di Lyndon Johnson scopre suo marito a letto con il presidente degli Stati Uniti  La mano aperta e fredda di Duverger copriva parte del viso presidenziale come in una carezza interrotta.

Una campionessa lesbica di un telequiz ha una storia con l’autrice del programma. E un fratello autistico.

Per finire, il dramma e la poesia nell’amore incompiuto di Bruce La sua foto per me ha un sapore amaro. Alzino la mano quelli che sono disposti a credere che io bacio la sua foto.

Quando David Foster Wallace pubblica La Ragazza dai capelli strani ha meno di trent’anni. I suoi racconti sono un compendio variegato della cultura occidentale, una brillante carrellata di nevrosi e di ossessioni – una chiara parodia ellisiana, dirà Gerald Howard, editor di Bret Easton Ellis (oltre che di Wallace). Il dramma dell’incomunicabilità. Pagine esilaranti nelle quali Wallace tira fuori il marcio della società americana alla sua maniera, con umorismo, stile, e con quella oscura originalità sempre sul filo dell’incomprensione che lo rende unico e capostipite di una generazione di “strani” talenti. La Ragazza dai capelli strani è un esperimento letterario ben riuscito che ancora oggi conserva tutta la freschezza della sua prosa innovativa. L’opera che dopo La Scopa del sistema ha consacrato Wallace come astro nascente della letteratura Usa.

Angelo Cennamo

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