Il premio Pulitzer nel 1997 con Pastorale Americana, la National Medal of Arts alla Casa Bianca nel 1998, tre Pen/Faulkner Awards, la Golden Medal per la Narrativa: nella bacheca di Philip Roth è mancato solo il Nobel, ma poco importa; nessuno è stato più grande di lui tra gli scrittori americani del Novecento, dopo William Faulkner. “Il culmine di un enigma irrisolto nella letteratura ebraica dei secoli XX e XXI” lo definì una volta Harold Bloom, il decano, il critico più schizzinoso degli Stati Uniti. Tanto per rimanere sui premi, nel 1960 Roth si aggiudicò il National Book Award con il suo libro d’esordio Goodbye, Columbus. Siamo nella prima parte della stagione rothiana, quella del figlio, la fase dell’eresia, della ribellione, ai valori borghesi e alla religione. Neil Klugman è un giovane bibliotecario da poco laureato in filosofia. Vive in un quartiere povero di Newark, nel New Jersey. Brenda Patimkin è una bella fanciulla di Short Hills, un sobborgo lussuosissimo, quasi inaccessibile a spiantati come Neil. I due si conoscono per caso nella piscina di un club. Nasce una storia d’amore tenera e vivace, ma insieme all’amore anche una serie di incomprensioni legate alla differente condizione sociale e a una diversa educazione sessuale. E’ un’estate speciale per la famiglia Patimkin: i preparativi per le nozze di Ron, fratello di Brenda, mettono agitazione, generano caos. Tutto il racconto è ambientato a casa di Brenda, dove Neil viene ospitato proprio nei giorni di maggiore fibrillazione. In Neil è facile riconoscere il giovane Roth. Neil è Philip Roth prima ancora che Roth inventi il suo alter ego Nathan Zuckerman. L’imbarazzo del giovane protagonista che, dialogando con la madre di Brenda finge di essere un ebreo ortodosso, diventerà uno dei temi ricorrenti nei successivi romanzi, da Lamento di Portnoy all’invenzione-finzione di Carnovsky, il libro contro gli ebrei scritto da Zuckerman che farà morire di crepacuore il padre dello Scrittore fantasma. Il sesso, la testardaggine, la declinazione laica di un sentimento religioso a volte soffocante: in Goodbye, Columbus ritroviamo tutti gli ingredienti della tradizione letteraria di Roth, coniugati con una scrittura forse ancora acerba ma dal tratto già riconoscibile. I dialoghi tra Neil e Brenda, lo spessore dei due protagonisti, sono sicuramente le cose migliori di questo gioiello di costruzione e tecnica narrativa di appena 123 pagine, magnificamente tradotto da Vincenzo Mantovani e corredato da altri cinque racconti brevi.
“A differenza di quelli fra noi che vengono al mondo ululando, ciechi e nudi, Philip Roth è comparso con unghie, denti e capelli, sapendo già parlare” Saul Bellow.
Angelo Cennamo