Racconti

MILVA 42

I ritagli di giornale, le vecchie foto, i video, i trofei ben allineati sulla mensola di fòrmica bianca di fronte al plasma ultrapiatto, guardarli distesa sul divano, con indosso ancora i leggins di licra dell’ora di pilates e una bottiglina di cedrata sul parquet, è uno dei suoi passatempi preferiti. Uno dei pochi, oltre il pilates e Instagram, da quando è nato Andrea, il secondogenito. La casa è spaziosa: 160 mq in zona Fiera. Al mutuo hanno provveduto Oscar e suo padre, il commendatore Gigi, già fondatore e affondatore del Credito Brianzolo – un crack di 80 miliardi di vecchie lire dal quale il cummenda se ne era uscito con un patteggiamento per bancarotta fraudolenta. In filiale li chiamano “the untouchables”. “Dott. Cambi, obbedisco” è il motto dei sottoposti masterizzati, così li definisce Oscar, quando con i suoi gessati grigi di Caraceni e le regimental di Marinella varca tutte le mattine alle sette la soglia della stanza n. 2 – “la grotta azzurra” indicando a Bepi, la segretaria, il foglio degli appuntamenti. Lei è Sonia Verani, 29 anni, ex reginetta di Santa Marinella, miss Liguria 2012, valletta di “Indovina chi” su Telelombardia e un quasi debutto a Striscia la notizia con Greggio e Iachetti. Di professione ora fa la fashion blogger. Dal salone di casa sua lancia abiti e accessori firmati “Sonia chic”, suggerendo ai suoi oltre tre milioni e mezzo di followers sparsi per il mondo come abbinare ai vestiti smalti, ombretti e mascara. Sonia ama cucinare piatti esotici e preparare torte al cioccolato bianco per Oscar e i suoi colleghi di lavoro che il primo giovedì del mese si radunano in casa Cambi dopo la partita di calcetto all’Holidays.

La Sonia ora vi porta un bel dolcetto. Dolcetto scherzetto? Oscar finge di non sentire la battutaccia di Sergio, Sergio Balestrieri, financial project, roba grossa. Insomma, il solito clima da vecchi compagni di scuola che si ritrovano al matrimonio del secchione. Sonia improvvisa un karaoke e fa l’imitazione di una spogliarellista. Imitazione? Fino a quando Oscar si rompe i coglioni e scioglie la compagnia fingendo di avere un fortissimo mal di testa. Chiusa la porta d’ingresso dietro l’ultimo ciao ciao, il mal di testa Oscar lo fa venire a Sonia. Per davvero. Non ce la fai proprio a trattenerti, vero? Sempre lì a sculettare come una cagna. Che esibizionista! Caro, sono un’artista io. Lo hai dimenticato? E come potrei, ci sei tu a ricordarmelo tutte le volte. Stasera sparecchio io, ho capito.

Le 23.00, i bambini dormono, la tv è spenta. Milano è avvolta in una cappa di silenzio, un silenzio buio e sinistro. Raffiche e raffiche di entropia, direbbe Franzen. Sonia raccoglie i capelli in un fermaglio e si connette con i follower di “Sonia chic” sul divano del salone. Si è gia struccata. È in t-shirt nera e pantaloncini. Oscar ciabatta verso il suo studio, l’ultima stanza in fondo al corridoio, rovistando nella patta dei pantaloni della tuta. Sbadiglia.

La lampada sulla scrivania è accesa. Avrà dimenticato di spegnerla Ingrid prima di andare via. I fascicoli però sono in ordine, le penne riposte nella lattina della Pepsi in acciaio e alabastro –  regalo di Mimmo Palladino per il suo trentesimo compleanno – il cestino della carta, svuotato. Un tram sferraglia sotto la finestra. Oscar si siede sulla poltrona ergonomica di pelle scura e allunga le gambe fino al battiscopa. Poi accende il portatile. Una luce blu elettrico lo investe in pieno viso e si riflette sulle lenti degli occhiali. Inserisce la password segreta: “passwordsegreta”. Enter. Ora si chiama Aiace. Lei, Milva 42, è già lì che lo aspetta.

#Buonasera #cuoricino. #Buonasera# cuoricino. #Giocata la partita?Avete vinto? #4 a 1, con tripletta di Oscar. #Il mio campione#cuoricino. #Sei stanco? Pensavo fossi già andato a letto. #Senza dare la buonanotte al mio tesorino? Mai #cuoricino. #Tu? #Niente. Ho visto un vecchio film in tv con Robert Redford. Ti pensavo# cuoricino #Anch’io ti pensavo. Non faccio altro#cuoricino. Bello il film con Redford? Molto bello, sì. Eroi della mia generazione, tesoro. Lui, Elvis, Jane Fonda#cuoricino. Ora cosa fai? Sto conversando con il mio bel giovanottone Aiace. Il mio tesoro. Ti va di farmi un po’ di compagnia? Certo, amore mio#cuoricino. Bene. Perché non mi racconti la tua giornata? Sapessi. Solo grattacapi. Mi ci vorrebbe un bel massaggio antistress. Ma per quello ci sono io, tesoro#cuoricino. Chiudi gli occhi. Oh, mi sento già meglio, sai? #cuoricino #cuoricino.

Cosa c’è, vi fa strano che un Adone come Oscar, con una moglie strafica invidiatagli da mezza Milano, e che l’altra mezza se l’è già portata a letto – a sua insaputa – la sera chatti di nascosto con una sconosciuta? Bè, pazientate ancora un po’ prima di sorprendervi del tutto.

Oscar! Che succede adesso. Andrea. Sta piangendo. Lo sai che si calma solo quando ti vede. “Esc”. Oscar si alza dalla sedia sbuffando. Fa un grosso sbadiglio, poi imbocca il corridoio senza fretta, barcollando tra un parete e l’altra. Ah, Oscar! Che c’è?? Quella matita rossa che prendemmo a Parigi, sai dov’è? Oscar! Noo. A quest’ora? Cercala! Sonia dà un’occhiata in giro nella stanza. Apre il cassetto centrale della scrivania, quello dove finiscono solitamente tutte le penne e gli appunti smarriti e ritrovati da Ingrid. Poi guarda nella lattina della Pepsi di Mimmo Palladino. Niente anche lì. Sonia usa le matite colorate per le sue composizioni grafiche. Le abbina a vestiti e accessori, poi scatta le foto e le pubblica sul suo profilo Instagram. Quella matita rossa, ben temperata, doppia, voleva posizionarla di fianco a un orologio colorato, col cinturino rosso. Sullo sfondo avrebbe messo due calici da champagne e una rosa. Affreschi di energia, li chiama lei. Ricorda di aver già fotografato la matita rossa per un completo da barca, un anno fa. Se almeno sapesse dove è finita quella foto. Magari potrebbe modificarla ed estrapolare dal contesto la sola immagine della matita e riciclarla. Lei è geniale in queste operazioni. Nel suo pc non c’è. Se non l’ha cancellata – e lei non cancella mai nulla – la foto non può che essere nel database del pc di Oscar. È ancora acceso. Vediamo. Bozze…Immagini…Immagini news…Foto…”Enter”. Quanta roba. Mi servirebbe il nome del file. Vattelapesca! Rossa, matita rossa, barca…Sonia chic…no…la marca della matita…Aspetta, questa la so. Milù 2…Milù 42. Sì, Milù 42.

M. 42. Trovata. Sonia stringe gli occhi. Di fronte a lei compare una macchia biancastra. Dentro la macchia, un reticolato di righe verdi. Un grafico. Sembra una mappa di Google. La Toscana. Tre mesi fa erano stati vicino Siena, nel podere di Mario, il cugino di Oscar, per la vendemmia. Tre giorni meravigliosi: sveglia all’alba, stivali, forbici, filari a perdita d’occhio. Il trattore di Nanni. Il pane fatto in casa. Quel libro di Balzac. Lei e Oscar sul letto del nonno, nudi a imboccarsi chicchi d’uva tra una scopata e l’altra. Perchè non ci trasferiamo qui? Aveva chiesto a Oscar mentre trascinavano i trolley sul vialetto di ghiaia.

Bella però. Potrei usarla per la linea autunnale. Perchè no. Ci aggiungerei a penna i nomi dei paesini, qualche disegnino. La Carta e il territorio. Ricordava di avere letto quel romanzo bizzarro di Houellebecq. Il protagonista fotografava mappe Michelin che poi personalizzava trasformandole in opere d’arte. Non sarà originale, ma quanti lo avranno letto quel romanzo?

Non ha ancora fantasticato abbastanza su quel progetto che la foto successiva le spalanca gli occhi. Cosa? Sonia ha un sussulto. Un culo? Il culo nudo di una vecchia, ingrandito, flaccido, raggrinzito nella parte alta, più giù raggrumato di pelle. Le cosce, anch’esse flaccide e livide, sono divaricate. Si intravede un ciuffetto di peli. La foto è in bianco e nero. È firmata. MILVA 42. Chi cazzo è questa? Sonia scorre tutto il database. Ci sono decine di foto. Torna sulla prima. La osserva con più attenzione. Non è una mappa. Non è la Toscana. È un piede! Artrosico. Il secondo dito smaltato per metà è accavallato sull’alluce. Quelle righe verdi non sono affluenti dell’Arno, come aveva immaginato, ma vasi sanguigni. Sonia è disgustata, si volta e vomita sul parquet. Si pulisce la bocca con un foglio bianco A 4. Strabuzza gli occhi. Riprende a scorrere le foto. Ora vede una bocca spalancata con una linguaccia. La dentatura sembra perfetta. Perfetta come una dentiera. Anche questa foto è firmata MILVA 42. Oscar ha un’amante. Ne è sicura. MILVA 42 è la sua amante. Oscar ha una relazione con una donna più grande di lui. Una quarantaduenne. Perché 42 è l’età della donna, non il suo anno di nascita, è questo che pensa Sonia.

I passi di Oscar rimbombano nel corridoio. Sonia chiude gli occhi, sta per esplodere in un urlo animalesco, un urlo che sentiranno fino ai Navigli, che farà vibrare le porte e i vetri delle finestre, che farà scattare l’allarme elettronico e così la sirena e l’urlo si sommeranno in un solo acuto assordante che sveglierà tutti, a cominciare da Andrea e Chicco nella cameretta oltre il salone, la coppia di svedesi nell’appartamento accanto, l’intera scala A, la B e la C, le suore dell’Istituto Santissima Maria Vergine di Fatima, il custode del canile municipale con tutti i suoi 200 bastardini, e Roger, il clochard che abita sulla panchina di fronte al canile.

Oscar vede Sonia seduta davanti al suo pc, gira la testa verso lo schermo, c’è il primo piano di un clitoride, enorme, floscio come un panno di daino passato su un parabrezza. Al centro, un piercing con un chiodino sottile. Oscar e Sonia si guardano. Il tempo rallenta. Le mani di Sonia si allungano sul collo di Oscar. Lui è immobile, come paralizzato. Vede la bocca di lei spalancarsi lentamente, l’urlo sta per arrivare, ci vorrà qualche secondo. Nel tempo reale è già arrivato. Sonia e Oscar sono stesi sul parquet. Lei sopra di lui. Sonia afferra un tagliacarte, lui le blocca il braccio con un morso. Bastardo! Figlio di puttana! Sei un pervertito schifoso! Nella colluttazione Oscar perde gli occhiali, il volto di Sonia ora è una macchia gialla. Giallo chiaro, poi più scuro, il giallo fluttua come i decibel del suo urlo. MILVA, pensa, sei MILVA. Chi è Milva?! Dove l’hai conosciuta? Sonia-Milva è un suono, una macchia gialla che urla, una macchia urlante. Oscar batte la testa sul pomello della sedia ergonomica, ha quasi perso i sensi. Sorride come inebetito, non sente piu l’urlo di Sonia, non sente più nulla. Solo il peso del corpo che gli sta addosso, un corpo di un metro e ottanta per 70 chili, sinuoso, atletico, ancora tonico nonostante le due gravidanze. Ora la macchia urlante è una macchia pesante, il peso morto che lo sovrasta. Oscar ha un’erezione, non gli capitava da mesi, da quella gita in campagna, nel podere di Mario, le sue mani scivolano sulle cosce nude di Sonia, sono lisce, levigate, dure, poi risalgono fino ai seni coperti dalla t-shirt attillatissima. Oscar la strappa, i seni gli cascano sul viso, lo schiacciano, sente i capezzoli lunghi e turgidi nei suoi occhi ipovedenti. Ora è completamente accecato dalla carne di sua moglie. Avverte la mano di lei sulla patta dei pantaloni. Vorrà evirarmi, pensa. Mi evirerà col tagliacarte. Lo spavento lo fa eccitare. La rassegnazione lo arrapa. Attende. Sonia infila una mano negli slip, gli afferra il membro indurito, lo stringe nel pugno e lo muove su e giù. Poi sposta con l’altra mano la sottile striscia di stoffa dei suoi pantaloncini all’altezza del pube e se lo infila dentro. La schiena si inarca in un sussulto. Spinge con violenza, l’urlo diventa gemito, Oscar la stringe su di sè afferrandole i glutei. I colpi aumentano di intensità, senza sosta, sii, grida lei, sii. Oscar pensa a una notte di sei anni fa, sul treno Parigi-Marsiglia, le due di notte, lo scompartimento era vuoto, era appena scesa una scolaresca, lui e Sonia avevano cominciato a baciarsi  sui sedili, poi a toccarsi tra le gambe. Lei si era sfilata le mutandine e lo aveva trascinato con forza sul pavimento. Anche allora tutto era partito da lei. Avevano fatto l’amore lì sul pavimento del treno, stretti tra le file dei sedili, a 300 km orari, col rischio di essere visti da qualcuno e di essere denunciati. Sonia continua la sua cavalcata, è un saliscendi incessante, sembra aver dimenticato tutto, Oscar sente la lingua di lei infilarsi nella sua bocca, le lingue si mescolano in un vortice impetuoso, i denti sbattono sugli altri denti. È un tripudio di saliva e di gemiti. Oscar comincia a sudare, nella stanza ci saranno almeno 35 gradi. La fronte gli gronda di sudore, il respiro si fa più affannoso, stringe i glutei di Sonia, ora più forte. Sta per venire. Miiiilvaaaa!

METTI UNA SERA A CENA CON UN POETA REALVISCERALISTA

Omar Sorbillo? Certo che me lo ricordo. Abitavamo al Vomero. Da ragazzi andavamo allo stadio insieme, con la vespa di Gaetano, il figlio del farmacista. Ti parlo degli anni Ottanta, primi anni Novanta. Eravamo giovani. L’ultima volta che ci siamo visti è stato a Capri, nel 2015 credo. Un amico lo aveva invitato a uno di quei festival di letteratura che si tengono in piazzetta. Andava di fretta, come se avesse fatto tardi a un appuntamento. Ebbi solo il tempo di salutarlo e di scambiare poche parole. Da allora non ci siamo mai più visti né sentiti. Come se la passa il vecchio Omar? Direi bene. Molto bene. Ti racconto l’ultima.

Lo incontro una mattina in via Caracciolo, da solo, impeccabile col suo vestito di lino blu sulla camicia bianca sbottonata. Mani in tasca, la solita aria da strafottente. Modalità Jep Gambardella, per intenderci. Sorride, ma si vede che è un sorriso assente, una smorfia di insofferenza. Sembra assorto in chissà quali pensieri. Faccio con lui quattro passi, arriviamo fino a via Chiaia. Ci sediamo in un angolo del Gambrinus e ordiniamo due caffè. Mi chiede un parere legale su un’eredità da dividere con i fratelli, a Portici. Tre piani di una vecchia palazzina, mai ristrutturata e senza ascensore. Prendi quello che ti offrono, gli dico. Queste rogne in tribunale durano parecchi anni. Perizie, controperizie. Ma i tempi delle cause civili non li avevano accorciati? Sì, l’ho sentito dire anch’io. Il solito gattopardismo. Bravo. Tra una chiacchiera e l’altra, la discussione scivola poi su argomenti più leggeri, i suoi preferiti: la musica, la pittura, le vacanze estive. A un certo punto mi fa: sai, ho appena finito di leggere un libro bellissimo. Un libro che parla di un movimento di poeti avanguardisti: I Detective Selvaggi di Roberto Bolaño. Lo conosci? Magnifico, dico io. L’ho letto più o meno un anno fa. È proprio un gran romanzo. Vero? Spettacolare. Che scrittura virtuosa. E che personaggi affascinanti. Ah, la poesia realvisceralista, con quelle atmosfere così surreali e bohémien. Non faccio altro che pensarci. Tu mi capisci. Ti capisco eccome, amico mio: Bolaño è uno scrittore ipnotico, un visionario, un vero genio della letteratura. Hai detto bene: Bolaño è un genio. Pausa. Il respiro diventa affannoso. Riprende. Ho deciso, mi dice: voglio diventare poeta anch’io. Un poeta realvisceralista. Girare il mondo, fare nuove esperienze, contaminare stili. Qui non succede mai niente. Mi annoio, Francè, che ci posso fare? Pausa. Ci guardiamo in silenzio per alcuni attimi, poi scoppia a ridere. Questa sì che è bella. E tu? Bene, gli ho detto. Scrivi una poesia e vediamo se ne hai la stoffa. Se hai l’animus poetandi di Ulises Lima e di Arturo Belano. L’animus che? Lascia perdere. Pare facile. Certo, mi piacerebbe. Il fatto è che io di poesie non ne ho mai scritta una, fa lui, continuando a ridere. Io faccio analisi matematiche, lo sai. Ho a che fare con i numeri, non con endecasillabi e terzine. E poi su cosa dovrei scriverla questa poesia, secondo te. Sentiamo. Sei appena stato al mare, dico io. E allora? Allora scrivi una poesia sul mare. Ma dai! Bè, tu ami le barche a vela, la pesca subacquea. Quale argomento migliore? Pensaci.

Questo tre mesi fa. Continua. Lunedì mattina mi chiama. Ero appena uscito dalla doccia. Ciao ciao. Come va. Tua moglie, i ragazzi, il trasferimento. Sì ma poteva andare peggio, dico io. Molto peggio, fa lui. Pensa che a un mio collega di Caserta lo hanno mandato a Oristano. Vediamoci uno di questi giorni, magari in costiera. Passiamo una bella serata tutti insieme, come una volta. Chiamiamo anche Angelo. Ti va? Volentieri, dico io. Gli do appuntamento per venerdì sera, giù al Faro, da Cicciotto. Ci sei mai stato da Cicciotto? Cicciotto…Lascia perdere. Arriviamo puntuali. Lui con la Multipla del cognato, tutta scassata, con l’adesivo dell’Inter sul parabrezza e la tappezzeria in alcantara, color panna, anzi bianco sporco. Più sporco che bianco, a dire il vero. C’aggia fà: ho perso le chiavi del garage, mi dice, allargando le braccia. Io con mia moglie, lui con la sua. Angelo ci precede con la sua nuova fidanzata, Madina: una stangona moldava, magrissima, bionda, occhi verdi, tacco 12. Una zoccola? Non credo. In italiano sa dire solo “quanto costa“, “crazie” e “ma che bela serata“. Una zoccola, fidati. None! Ma ti pare che Angelo si andava a mettere con una zoccola? Non sarebbe la prima volta. Ramona cos’era? Una zoccola. Lo vedi? Ma che c’entra Ramona adesso. È successo più di vent’anni fa, in campeggio. E poi con Ramona ci sei andato anche tu, o mi sbaglio? E io che ho detto? Comunque. Ha noleggiato un suv. Un suv? Angelo ha noleggiato un suv? Angelo ha-no-leg-gia-to-un-suv. Che c’è? Mah! Mah cosa? Ma saranno cazzi suoi se vuole andarsene in giro con un fuoristrada, o no? E con una zoccola. Madina non è una zoccola. E tu che ne sai? Lo so e basta! Lo vedi che mi interrompi sempre, puttana Eva? Ok ok, non parlo più. Vai avanti. Dove ero rimasto. Ah, sì. Serata fresca, da golfino di lana. Luce soffusa. Tavolo prenotato in terrazza con vista sul fiordo. Spaghetti a vongole, pesce spada coi pomodorini, anguria, acqua minerale e una bottiglia di Falanghina, ghiacciata. Il solito menù da venticinque anni. Musica live, molto soft. Latinoamericano? No, il ristorante di Cicciotto non è un posto da Macarena. Si ascoltano altri generi: Aznavour, Tenco, Beatles, roba fine. Mi stai dicendo che io invece mangio e ceno nelle bettole? Te lo stai dicendo da solo. Un’altra interruzione e non ti racconto più niente. Va bene? Scusa. Eccheccazzo! Vai avanti. Dicevo. Si scherza, si ride, si ricordano i bei tempi, i tornei di calcetto. La vacanza a Kos. Ti ho mai raccontato di quella vacanza a Kos? No, non mi pare. Di quando lasciammo Rino nudo sul pianerottolo dell’hotel? O era a Palinuro? Mi sa che era Palinuro perchè arrivarono i carabinieri. Non ricordo. Insomma, mangiamo, beviamo, ridiamo, ci scambiamo ricordi, raccontiamo vecchie storie, la barzelletta del cervo napoletano – sempre la stessa, quella che Angelo racconta tutte le volte per dimostrarci che “lui” parla quattro lingue e noi solo l’italiano. Mia moglie che ride come una matta e chiede il bis, fingendo di non averla mai sentita – salvo poi dirmi a casa, e solo a casa, quando restiamo da soli: che palle la barzelletta del cervo napoletano, non ne posso più, Angelo mi ha fatto odiare i cervi e pure i cartoni animati sui cervi. E tu, scommetto, ti sarai esibito in una delle tue solite performance canore. Pino Daniele? Sting? Acqua. Frank Sinatra. Hai capito l’avvocato. Ma Sinatra Sinatra o De Sica che fa Sinatra? La seconda che hai detto. Ad un certo punto, dopo aver chiesto il conto, sarà stata mezzanotte, il nostro amico si alza improvvisamente e sposta la sedia di lato. Quale amico? Come quale? Omar. Improvvisamente? Sì, con uno scatto felino. Cosa fa? Ascolta. Mette la mano nella tasca posteriore dei pantaloni e tira fuori un foglio di carta tutto stropicciato. Ho già capito. Fammi dire. Prende questo foglio tutto stropicciato, lo stende per bene sul tavolo. Si schiarisce la voce portando la mano alla bocca. Inforca gli occhiali da vicino. Quelli con la catenella. Esatto, quelli con la catenella. Fa un bel respiro, e con un aria serissima esclama ad alta voce: “Poesia!”. Ma va.

Il mio corpo sottile è una lama tra i flutti,

 La luna è vicina, la tocco sull’acqua.

 Cerchi di luce, riflessi  ormai spenti,

 un’altra bracciata mi porta lontano.

 Annego nei sensi, rivedo il mio tempo,

 oasi profonde di lampi e tormenti.

 Scivola dolce la mano sull’onda, spuma sincera, natura benigna.  

Silenzio. Nessuno fiata. Angelo mi guarda come se qualcuno lo avesse informato che a Milano gli stanno svaligiando l’appartamento. La sua fidanzata muove la testa in tutte le direzioni, infine incrocia lo sguardo di Angelo. Mia moglie parte con un applauso. Applaude anche la sua. Applaudiamo tutti. Applaude anche Cicciotto. Sorride, anche se non ha capito un cazzo. Nella mano stringe la fattura del nostro tavolo. Mantiene la distanza per non violare la privacy, ma si vede che ha fretta di mostrarmi la fattura. Ci credo: 586 euro, più la mancia per la violinista ungherese. E che cazzo! Altroché. Si vede che non hai mai cenato da Cicciotto. Angelo si scioglie in un gridolino di approvazione. Ci alziamo tutti in piedi e ci abbracciamo. Saltelliamo come dei pirla. Gli altri clienti ci guardano. Una coppia di giapponesi seduta dietro di noi ci riprende con un iphone. Per un breve istante Omar sembra commuoversi. Ma no!  E invece sì. Sarà stato il vento, forse il vino. Quale vento: era commozione vera. A quel punto gli afferro la testa, gliela tengo stretta tra le mani. È sudato come un muratore a Lampedusa. La camicia è bagnata. Lo guardo fisso negli occhi. Intorno a noi si fa il vuoto. Cicciotto si avvicina a mia moglie e le chiede se gradiamo un limoncello. Stringe ancora nella mano la fattura di 586 euro. Angelo lo zittisce in malo modo. Io e Omar siamo lì, al centro della terrazza, a guardarci negli occhi. È mezzanotte ma sembra mezzogiorno di fuoco. I giapponesi stanno riprendendo tutto. Cicciotto si accascia su una sedia, sfinito. La moldava, di fianco a lui, gli sorride e gli dice “crazie”. Per cosa non si sa. “Crazie”. Non ha ancora visto il conto, la moldava, altro che “crazie”.

Silenzio. Solo silenzio. Nella baia il vento riprende a soffiare forte e gli ombrelloni sulla terrazza ondeggiano pericolosamente. Chiudeteli! Grida un tizio sdentato dall’interno della sala. Ma concentriamoci sulla scena principale. Io con la testa di Omar tra le mani. Siamo a poco più di un metro dalla ringhiera, al massimo due. Non mollo la presa. Gli altri commensali, mia moglie, la moldava, sono lontani, non esistono. La fronte di Omar gronda di sudore, sento il suo respiro sulla faccia. Socchiude gli occhi a intermittenza, si vede che ha sonno. Ha bevuto più del solito, però è ancora lucido. Tu sei un poeta, gli dico, muovendogli la testa in avanti e indietro. Hai capito? Tu sei un vero poeta re-al-vi-sce-ra-li-sta. Oh bella. E lui? Annuisce senza dire una parola. Ora l’oscillazione della testa lo fa quasi assopire. Sembra come ipnotizzato. È in balia del mio carisma.  Scopro di avere un carisma. La moldava urla “ma che bela serata!”, all’improvviso Omar si ridesta, spalanca gli occhi e…e? Scoppia a ridere di nuovo.

IL SEGGIO

A Casale Normanno la piazza del municipio è ancora deserta. L’alba estiva si insinua silenziosa nelle  stradine del borgo sfiorando i portoni e i tavolini dei bar in attesa. Una monetina di sole fa capolino sopra la montagna minacciosa illuminando le ultime gocce di pioggia sdraiate sulle auto in sosta. Le antenne della tv disegnano esili cervi sulle tegole marroni dei tetti, incorniciati da precise grondaie e da camini spenti. Lungo la via del pioppeto, l’unica percorribile dopo l’ultima frana sulla Statale, l’autista della corriera dà due colpi di clacson prima di spuntare dall’ultimo tornante che precede il poggio di San Biagio, nella contrada Brenno, la più popolosa di Casale con i suoi 640 abitanti di cui 539 elettori.

Alla scuola elementare Falcone e Borsellino i cancelli di ferro battuto sono spalancati sul viale bordato di cipressi dove un funzionario del Comune sta aspettando il dottor Pasini per consegnargli un plico. Vicino a lui, due carabinieri chiacchierano con una signora bassina, di mezza età, con gli occhialini rotondi di metallo e una borsetta nera a tracolla, appena scesa da una Ford Fiesta che ora è ferma davanti al cancello con il motore spento. Intorno a loro odore di muschio e di fango.

Lei è una scrutatrice? Chiede il funzionario.

Sì, e quel signore in macchina è mio marito – un uomo piccino con un berretto di tela blu consumato e due baffetti sottili come i lacci delle scarpe. Dalle orecchie gli spuntano dei ciuffetti di peluria neri e sul mento ha una fossettina delicata come il suo naso, piccolo e appuntito – Sa, non conoscevo la strada, la frana ha complicato tutto, vengo da Pozzano.

Ho sentito dire che ci vorranno più di due mesi, dice il funzionario accennando un saluto all’omino nella Ford.

Allora vado? chiede il marito alla donna, sporgendosi dal finestrino lato passeggero.

Sì, caro, vai pure.

Quanto durerà lo spoglio? chiede la donna al funzionario.

Non saprei, la volta scorsa è durato meno di due ore. Direi che a mezzanotte, massimo all’una, avrete finito.

Dice che finiremo massimo all’una.

Va bene, mi farò trovare qui per mezzanotte, buon lavoro.

Dall’altro lato della strada due ragazzi sui vent’anni, stessa altezza, uno con i capelli lunghi e gli occhiali spessi, l’altro con il cranio rasato, un filo di barba e una felpa arancione, spavaldi, stanno per varcare il cancello. A breve distanza una donna alta e magra con i capelli biondi avanza a grandi falcate e a testa bassa verso la scuola. Ha dei jeans attillati, strappati all’altezza delle ginocchia, un paio di stivaletti col tacco e dei grossi occhiali scuri griffati che le coprono la parte alta del volto equino, sul quale risalta la bocca carnosa e colorata di rosso scuro.

Alla sig.ra della Ford le squilla il cellulare, la suoneria è una vecchia canzone di Fred Bongusto. I carabinieri si voltano, poi si guardano e sorridono, mentre il funzionario del Comune fischia la prima strofa.

Cosa c’è?

Non ricordo se hai detto a mezzanotte o all’una, le dice il marito dall’altro capo del telefono.

Ho detto che non faremo più tardi dell’una.

Ah, d’accordo. Allora vengo a mezzanotte e aspetto fuori al cancello. Giusto?

Giusto. Ora però fammi chiudere, credo che stia arrivando qualcuno.

La Mercedes metallizzata del dottor Pasini buca il silenzio del cortile sollevando una nuvola di polvere. Con lui c’è un giovanotto sui trent’anni, moro e dalla carnagione olivastra.

Eccoci, dice uscendo dall’auto.

Buongiorno a tutti, dice la donna bionda appena entrata nel vialetto della scuola.

Ciao ragazzi.

Ciao, dice la signora di mezza età alla donna bionda.

Allora, signori, ci siamo tutti? Un sorriso ottuso dilata le guance flosce e ben rasate di Pasini.

Tutti, dice il ragazzo moro che lo accompagna dopo aver contato con gli occhi i presenti.

La sezione numero uno del seggio numero uno è l’aula più ampia dell’edificio, entrando è la prima sulla destra. Le pareti sono bianche, ricoperte di disegni e di mosaici colorati, il pavimento è di gomma dura di un verde sala operatoria. La parete di fronte all’ingresso è occupata da un enorme finestrone aperto sul cortile alberato. Al soffitto tre luci al neon e di fianco alla porta un armadietto blindato, grigio ferro, chiuso a chiave. Nella stanza si sente un forte odore di gesso e di detersivo. L’urna di cartone è stata sistemata il giorno prima sul banchetto centrale di formica. Su un altro banco è ammassato il materiale elettorale con due grossi rotoli di nastro adesivo e un plico bianco. Giornali, matite, un pacchetto di caramelle e un’agendina blu lasciata non si sa da chi. Vicino alla parete in fondo, tre cabine di legno scuro bordate di alluminio, attendono.

Posso andare io, dice Marco al presidente del seggio che ha appena inforcato le lenti da vicino per sbirciare l’opuscolo del regolamento. Il segretario è in piedi vicino al finestrone, la donna bionda, di fronte a lui, fa scorrere l’indice sul display del telefono protetto da un cover gommosa e brillantinata, mentre la signora di mezza età è seduta dietro al tavolo centrale dov’è posizionata l’urna, con la borsetta in grembo. Guarda davanti a sé verso un punto indefinito. Diego, l’altro scrutatore, è fuori a fumare una sigaretta con il funzionario del Comune.

Sono le 10,00 e non ha ancora votato nessuno. Il bar Tiffany, il più vicino al seggio, è a quattrocento metri di distanza, lungo la via del pioppeto, dopo il primo curvone, lo riconosci da una grossa insegna rosa a forma di calice, spiega Diego a Marco.

D’accordo, risponde Pasini, puoi prendere la mia auto, se vuoi. Sono sei caffè, quattro cornetti vuoti e due brioches alla crema. Uscendo, Marco aggiunge all’ordinazione altri due caffè per i carabinieri, poi monta sulla Mercedes nuova di Pasini e sgomma verso l’uscita.

Il segretario si avvicina alla donna bionda. Ha una mano in tasca e dalla camicia slim, sbottonata per metà,  gli pende un crocifisso d’oro massiccio modello Vaticano. Sorride con i denti regolari e bianchissimi, e le sussurra qualcosa all’orecchio. Lei scoppia a ridere, poi con il braccio lo allontana, ma lui torna ad avvicinarsi, sicuro di aver fatto presa.

Pasini con gli occhi chiusi ripete a memoria l’articolo tre del regolamento. A mezzogiorno avrà imparato anche il nove e il dieci. La sig.ra di mezza età lo fissa. E’ sempre immobile con la borsetta in grembo e le mani sulla borsetta, quasi spaventata. Marco le ha già trovato il soprannome: la sfinge.

Diego entra ed esce dalla stanza, ha le mani in tasca e sbuffa fingendo di calciare qualcosa sul linoleum del corridoio a scacchi grigi. I carabinieri parlano di un collega che ha rifiutato il trasferimento a Gubbio. Vedrai, ora sono cazzi, dice il più giovane all’altro.

La mamma di Carlo fa la puttana – e il naufragar m’è dolce in questo water – Odio Napoli – Juve for ever – Mirko è gay – chi legge è un coglione – le donne sono tutte zoccole – Mirko è frocio – Buffon Number 1 – Rocco Hunt – Mirko è una checca – Forza Pozzano – Yes we can – la mamma di Franco è racchia –  merde, siete tutti merde – Mirko è andato al gay pride – ti amo Cristina – 348566664332111 – Viva la Lega  Beppe Torrisi è una testa di cazzo – Mirko è un trans – Vesuvio lavali – Cristiano Ronaldo – vi ammazzo tutti – Inter olè – la sorella di Gianluca è bona – Fabio sarai bocciato – viva la fica – Mirko ha un fidanzato – 400 euro per la gita a Verona siete ladri! – Salvini uno di noi – la mamma di Carlo lavora in un bordello – Mirko è ricchione – chiamami al 34866677432109 non te ne pentirai – boia chi molla –  Jimmy, sei un negro di merda – squoshhhhhhhh.

Non ho mai avuto storie lunghe, dice il segretario alla donna bionda, mentre lei fa scorrere l’indice sul display del telefonino. Tranne una volta, ma è stato tanto tempo fa, avevo da poco finito il liceo, si chiamava Miriam, era la figlia di un’amica di mia madre, bella ragazza, mora, simpatica, amava la musica classica  – si sistema la patta dei pantaloni, nel frattempo con la lingua si perlustra il molare del giudizio per liberarsi di un residuo di cornetto – credo di non essere fatto per le storie lunghe, sono uno spirito libero io.

Dicevi del liceo?

Ore 12,30 non ha votato nessuno.

Ore 13,00 non ha votato nessuno.

Ore 13,30 non ha votato nessuno.

Quante margherite, tre?

Io una diavola, dice il segretario alzando il braccio. Anche per te una diavola? chiede a bassa voce alla donna bionda, avvicinando la bocca al lobo del suo orecchio sinistro.

Dicevi del liceo?

Pizzeria Lo Scuro?

Dica.

Il sesso è importante, ma anche il dialogo. Ridere è importante. Una volta ero fidanzato con un’attrice porno, una tale Cinzia di Parma o vicino Parma, insomma di quelle parti lì. Era un vero schianto, gambe lunghissime, capelli rossi e una voce sensuale, simile alla tua. La voce è importante. Non ci crederai: non abbiamo mai fatto l’amore. Ti dico mai! Caro, non so come spiegarlo, è che non mi va di mischiare il lavoro con i sentimenti, mi diceva. Ma che discorso è? Le ho detto: bella mia, ascolta, ma con gli altri sì e con il tuo fidanzato no? Insomma, per non portartela per le lunghe, dopo neanche un mese che stavamo insieme le ho preparato la valigia e gliel’ho messa sul pianerottolo. Ogni tanto mi scrive da Città del Messico, ha sposato un narcotrafficante molto più grande di lei. Che schifo! Il segretario guarda fuori dal finestrone mentre fa scivolare le dita della mano tra i capelli della donna bionda seduta di fianco a lui col telefonino connesso su e-bay.

Incredibile, una borsa Fendi a soli 25 euro, sarà sicuramente un falso.

Ore 15,00 non ha votato nessuno.

Non devi oltrepassare la linea gialla. Fermo lì. Scusa, ma tu hai sputato da qui, dice Diego indicando a Marco l’ultimo gradino della scalinata di marmo sul retro. Senti, puoi sporgerti anche oltre la linea ma devi stare attento a non superarla con i piedi. Non la supero, stai tranquillo. Uno, due, tre e quattro, Diego conta con i passi i metri percorsi dal suo sputo. Quello di Marco, più denso e verdognolo, è arrivato a sei metri.

Devo bere qualcosa, ho la bocca asciutta.

Il segreto è puntare in alto, guarda me. Phua! La saliva compatta di Marco fende l’aria come un giavellotto disegnando un lungo semicerchio prima di schiantarsi nell’aiuola vicino al muretto di recinsione. Hai visto la parabola?

Sì, bella, direi prodigiosa. Ma ho la bocca asciutta, dice Diego. Vado a bere prima.

E’ proprio qui vicino, il gestore è un mio caro amico di infanzia. C’è una terrazza enorme sul belvedere e il venerdì sera si balla il latino americano. Musica dal vivo, eh.  Sono aperti tutta la notte, al piano di sopra ci sono anche delle camere nel caso volessimo fermarci, dice il segretario massaggiandosi i pettorali sotto la camicia nera di acrilico, con due grossi aloni di sudore all’altezza delle ascelle.

La donna bionda lo guarda sorridendo. Proprio qui vicino? Il segretario le fa di sì con la testa avvicinando il naso aquilino alla sua guancia imbevuta di Chanel.

La donna di mezza età si è appisolata. E’ sempre seduta dietro al tavolo con la borsetta sulle gambe. La testa però si è inclinata in avanti di 45 gradi. Un sibilo fa voltare Pasini che intanto ripete l’articolo 23 del regolamento. Si è allentato il nodo della cravatta ma non ha ancora tolto la giacca oversize a tre bottoni comprata all’outlet F.lli Pino di Brughero.

Una leggere brezza da nord fa muovere le punte dei cipressi piantati in fila lungo il cortile. Un’auto sfreccia davanti al cancello sollevando una nuvola di polvere. I carabinieri sono in piedi sulla scalinata, uno dei due si è tolto il cappello mentre con l’altra mano si aggiusta i capelli bagnati di gel.

Ore 18,00 non ha votato nessuno.

Cazzo, presidente, ma perché non ce andiamo? Marco rientra dopo l’estenuante gara di sputi del primo pomeriggio. La sfinge dorme.

Imbecille non possiamo. Dov’è Diego? chiede Pasini. E’ in bagno.

Ma non vota nessuno!

I tuoi non votano?

Mio padre è in ospedale, mia madre si è trasferita a Belluno.

A Belluno? Sono separati?

Non sono cazzi suoi, scusi eh.

La mamma di Francy è una grandissima troia – chiamami al 3458886541097 – Bergamo merda – Juve capolista – Mirko è un culatone – Anche a Mirabilandia 400 euro. Siete ladri! –  squoshhhh.

Ore 21,00 non ha votato nessuno.

Diego si scaccola il naso, poi arrotola una mollica di muco e la fionda con le dita contro l’urna. Marco fa scivolare il pollice sinistro sul display del telefonino, ha appena scoperto che tra i nuovi follower ha HOT-SUSY 93. Con l’altra mano intanto si strofina lentamente la patta dei pantaloni.

Signora, Pasini prova a svegliare la sfinge mentre disegna figure geometriche su un foglio a quadretti.

Signora, insiste. Signora! La sfinge non si muove, ha la testa sempre inclinata in avanti. Pasini le tocca la spalla con delicatezza. Signora, Signora si svegli. Oddio.

Ragazzi! Maresciallo!

Il suono della sirena precede l’ambulanza dietro il curvone buio sulla via del pioppeto. Il suono si fa sempre più forte, poi l’ambulanza imbocca il vialetto colorando d’azzurro i cipressi e la facciata della scuola. Due infermieri aitanti saltano giù dal mezzo e corrono ad aprire il portellone posteriore, estraggono la barella attrezzata, sono affiancati da un altro uomo, forse un medico, col camice bianco aperto su una tuta verde. E’ alto, brizzolato, con un filo di pancia. La sfinge è adagiata su un divanetto logoro, di velluto, nel corridoio subito dietro la vetrata dell’ingresso. Il medico si fa spazio tra gli scrutatori e il funzionario. Si accovaccia su di lei e le sente il polso, poi guarda Pasini. E’ morta, dice. La donna bionda piange con la testa appoggiata sul petto del segretario, lui la stringe a sé con gli occhi chiusi sussurandole qualcosa all’orecchio. Marco e Diego  osservano in silenzio gli infermieri che caricano lentamente la signora sulla barella prima di scomparire dentro l’ambulanza. La sirena è spenta. Fuori alla scuola c’è una Ford Fiesta.

 IL CONCERTO A CASTEL CAPUANO

La sera del 28 giugno a Castel Capuano si sarebbe tenuto il tradizionale concerto estivo organizzato dall’Ordine degli avvocati. Colajanni, che in compagnia era solito vantarsi delle proprie doti canore, lo aveva sempre snobbato; lo considerava un appuntamento patetico e autoreferenziale. Così diceva. Quell’anno però, spronato, anzi costretto dal sottoscritto e da Giulia, Mimmo cambiò idea e decise di buttarsi nella mischia, di gareggiare. Sì, ma non prima di avere tra virgolette sondato gli ambienti giusti. L’avvocato ci teneva a non sfigurare, e così prima della manifestazione volle incontrare il presidente dell’Ordine, Piero Corradi, per ricevere, come dire, delle rassicurazioni sul buon esito della gara – Mimmo, te l’ho già detto, a parte il giudice Masturso e il collega Vignes, sono tutte mezze calzette – gli confidò Corradi, un pomeriggio al suo studio – Io me lo ricordo: tu tieni nà bella voce. E poi in giuria con me quest’anno ci sono Ninetto e Maria Pia. Vedrai che ti piazzerai bene. Ne sono convinto – Corradi era riuscito a tranquillizzarlo, lasciandogli intendere che almeno il terzo posto sarebbe stato alla sua portata. Confortato da quella conversazione intima, l’avvocato si mise subito all’opera per preparare il suo debutto nei minimi dettagli. Mancavano poco meno di due settimane all’evento e non aveva ancora scelto i tre brani previsti per l’esibizione di ciascun concorrente. Il quartetto che lo avrebbe dovuto accompagnare sul palco era invece già delineato in tutti i suoi componenti: io al pianoforte, i colleghi Franco Di Biase e Sasà Aragonese, rispettivamente al basso elettrico e alla chitarra, il dott. Manlio Del Prete della sezione fallimentare, alla batteria. Quest’ultimo però, a seguito di uno strappo muscolare procuratosi in una partita di calcio, fu costretto a dare forfait pochi giorni prima del concerto, rischiando di mandare all’aria la già proibitiva performance. Dopo aver ricevuto i rifiuti dell’Ing. Costabile e di un mio ex compagno di università, Marco Russo, in preda alla più nera sconsolazione, Colajanni decise obtorto collo di giocarsi la sua ultima carta: Renato Bagutta.

 – Renà, guarda che ne va della mia reputazione, trent’anni di onorata carriera non sono una pazziella – disse Mimmo, passando dal suo atelier di via Poerio.

–  Avvocà, ma volete scherzare? Io ho cominciato a suonare la batteria che avevo i pantaloni corti – rispose piccato Bagutta – ve lo ricordate Johnny Marechiaro? – Johnny chi? – Colajanni cominciò a preoccuparsi – Johnny Marechiaro. Come, non ve lo ricordate? Quello di “Innamoriamoci”. Lo sapete in quel disco chi l’ha suonata la batteria? – tu – lo anticipò Colajanni. – sissignore, il sottoscritto – rispose Bagutta, battendosi l’indice sul petto. Mimmo rimase in silenzio, e portandosi la mano alla fronte, mi guardò con gli occhi di chi ha già rinunciato ad ogni aspettativa. Poi, alzatosi mestamente dalla sedia, prima di congedarsi, disse a Bagutta – d’accordo, ti chiamo domani e ti dico i pezzi che dobbiamo provare.

– Avvocà, ve li dico io i pezzi: ci vogliono due belle canzoni napoletane – Renà, ti voglio bene – Colajanni lo zittì prima ancora che finisse la frase. Bagutta alzò le mani in segno di resa e ci salutò.

Due giorni dopo l’avvocato arrivò in studio con la lista dei brani che aveva selezionato per la serata: “Vedrai vedrai” di Luigi Tenco; “Io che amo solo te” di Sergio Endrigo e “Piove” di Domenico Modugno. Era gasatissimo. Giulia mi aveva confidato che ogni mattina mimava l’esibizione davanti allo specchio dell’armadio, proprio come quei ragazzini che sognano di andare a Sanremo e scimmiottano i loro idoli – Eduà, però le dobbiamo abbassare di un tono, per me sono troppo alte – disse, inforcando gli occhiali da vicino. Per le prove scegliemmo il circolo dei canottieri, che nei giorni feriali era semideserto. L’acustica era buona e il palco riservato per le feste ricordava molto la scenografia che avremmo ritrovato la sera del 28. Franco e Sasà erano molto affiatati tra di loro avendo alle spalle una lunga carriera nei piano bar. Io, che avevo invece un’impostazione più classica, dovetti adeguarmi agli arrangiamenti asciutti e ritmati della musica leggera. Mimmo, probabilmente solo per atteggiarsi, introduceva i pezzi dopo aver scandito decine di volte: “SA-SA-PROVA-PROVA MICROFONO-SA-SA-PROVA”. Bagutta, infine, si sperticava in inutili scariche che finivano per coprire il suono degli altri strumenti e le prove microfono del cantante. Fino al giorno prima del concerto non eravamo riusciti a suonare una sola volta i tre pezzi senza commettere errori. Ma Mimmo era ottimista e confidava nell’effetto live.

La sera del concerto il cortile di Castel Capuano era gremito in ogni ordine di posto. In prima fila c’era il presidente dell’Ordine, l’avvocato Corradi con la moglie, i giudici Ferrara e Colangelo della prima sezione civile con le rispettive consorti, il capo della procura della Repubblica Parisi, e di fianco a lui il vice sindaco Cerami con l’assessore alla cultura Genchi. Sul palco, a presentare la serata, la professoressa Elsa Morandi, ordinaria della cattedra di Diritto penale alla Federico II con il collega De Rogatis, noto giocatore di poker ( l’anno prima al casinò di Venezia aveva perso circa tredici milioni di lire e tentato il suicidio).

Alle sette in punto ero passato a prendere Giulia e suo padre, a casa, gli altri membri della band sarebbero arrivati in tribunale per conto loro. L’avvocato indossava un completo bianco con un papillon nero, in tinta con i soliti mocassini. A Giulia, che voleva venire in jeans e maglietta, le fu imposto invece un vestito scuro ed una pettinatura meno selvaggia di quella esibita nei giorni di routine. Io, per non offuscare la centralità del “cantante”, optai per uno smoking nero, sobrio, modello Frank Sinatra.

Appena giungemmo a Castel Capuano avemmo la prima avvisaglia che la serata non sarebbe andata per il verso giusto: all’ingresso due organizzatori avevano bloccato Bagutta perché privo di pass. Credevano fosse un mitomane e l’abbigliamento che aveva scelto per la serata di certo non lo agevolava nella sua strenua azione di convincimento. Renato sembrava un extraterrestre, era avvolto in una tuta verde acido, lucida e attillatissima. Ai piedi calzava degli stivaletti, anch’essi verdi, scamosciati e con un tacco esageratamente alto. In testa aveva un borsalino dello stesso colore con una fibbia argentata. Quando Colajanni lo vide, rimase allibito. E dopo averlo scrutato da cima a fondo, esclamò: “Renà, fai veramente schifo.” Fece segno ai due piantoni di farlo entrare, poi, prendendomi sotto il braccio, si avviò verso i camerini allestiti nel retropalco. Ma non ebbe neppure il tempo di scaldare la voce che De Rogatis ci avvisò di entrare in scena: eravamo stati sorteggiati come prima esibizione. Franco e Sasà ci vennero incontro con gli strumenti già accordati. Guardai l’avvocato negli occhi dandogli una pacca sulla spalla e raggiungemmo il palco. Giulia aveva trovato posto in seconda fila, per farsi notare ci salutava con la mano alzata. Dopo l’annuncio della professoressa Morandi partì subito il primo applauso. Colajanni era teso come una corda di violino; si avvicinò al microfono e ci picchiò sopra col dito per testarne l’accensione. Bagutta diede il tempo, io e Sasà ci facemmo un segno di intesa e cominciammo a suonare. Il primo brano era: “Vedrai vedrai” di Tenco. Colajanni non aveva ancora smaltito l’emozione del debutto e la rabbia per essersi ritrovato come batterista un “visitor”. Fece fatica a trovare la prima nota, ma un attimo dopo, per fortuna, si riprese e tutto filò liscio. Applausi. “Io che amo solo te” l’avvocato la volle cantare dondolando il capo e con gli occhi chiusi, in una perfetta imitazione di Sergio Endrigo. Ancora applausi. Il clima sembrava disteso e la band mostrava una buona coesione. Con “Piove”, purtroppo, accadde l’irreparabile. La struttura musicale del brano di Modugno, per chi se lo ricorda, è molto diversa da quella delle prime due canzoni. “Piove” – meglio conosciuta come: “Ciao ciao bambina” – parte infatti con un andamento lento per poi acquistare pian piano un ritmo molto sostenuto, con terzine ravvicinate. E fu proprio in quel frangente, allo stacco della prima terzina, che ci scappò la stecca. Bagutta, manco a dirlo, aveva la pessima abitudine di far roteare le bacchette prima di percuotere i tamburi e i piatti della sua batteria. E’ un gesto di spavalderia che facevano i percussionisti, soprattutto negli anni ’70 e ’80, per aggiungere un elemento coreografico alla loro esibizione. Chi lo fa però deve essere consapevole del proprio talento e così sicuro di sé da azzerare qualunque rischio di infortunio. Bagutta, evidentemente per un eccesso di autostima, non volle essere da meno rispetto ai suoi colleghi più quotati, e così alla prima rotazione fece partire una delle bacchette che oltrepassò il palco e raggiunse il pubblico della prima fila. In preda al panico, Renato continuò a suonare con l’altra bacchetta, sostituendo la prima con la mano sinistra. Impossibile. Io e il bassista provammo a compensare il ritmo della batteria con dei suoni più marcati, ma ne venne fuori una versione scialba e poco convincente. Colajanni, che non si accorse di nulla, il che la diceva lunga sul suo orecchio musicale, continuò imperterrito la sua performance, finendo fuori tempo, tra lo stupore generale degli spettatori. Prima che quel supplizio si compisse del tutto, De Rogatis piombò sul palco chiedendo al pubblico un applauso di incoraggiamento. L’avvocato continuò a non capire e, voltatosi verso di me, con la mano fece un segno come per dire: “ma che succede?”. Proprio in quel momento De Rogatis lo prese per il braccio e lo invitò ad uscire di scena. Dal palco vidi Giulia alzarsi. Franco, sconsolato, allargò le braccia, mentre Sasà rimproverò sonoramente Bagutta per quella sua mania di voler strafare ad ogni costo. Quando Colajanni comprese finalmente la dinamica dell’incidente, si avventò su Renato e gli strappò con un morso la tuta verde acido. Io e Giulia provammo a bloccarlo, ma l’avvocato sembrava imbestialito, tanto che Corradi, al termine della serata, pur di acquietarlo dovette inventarsi di sana pianta un premio “simpatia”, ovviamente fuori concorso.

BREVE INTERVISTA A DAVID FOSTER WALLACE

Arrivo a Claremont – California –  in perfetto orario. Dal sedile del taxi riconosco la casa‎ dalle vetrate ampie e dai cani che si rincorrono dietro al cancello. Lui e’ davanti alla porta di ingresso, in piedi: pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica, felpa e smanicato, gli occhiali alla John Lennon e l’immancabile bandana. Nella mano destra ha una bottiglia di Gatorade, come se avesse da poco terminato una corsa. Ha il viso stanco e non sembra contento di vedermi. Buongiorno – dico, avvicinandomi al prato inglese che circonda la casa. Salve – risponde, accennando un sorriso. Con l’altra mano mi fa segno di entrare. Chiama i cani a se’ rassicurandomi che non mi faranno niente. E’ più alto di quanto immaginassi. Ciao – mi saluta di nuovo, in italiano. Questa volta sorrido io. Ci stringiamo la mano. E’ visibilmente sudato. Non mi sbagliavo: poco prima aveva fatto jogging. Mi fa accomodare nel salone a pianterreno, su un divano di pelle bianca. Davanti al divano c’è un tavolino basso, di legno nero, sopra dei barattoli vuoti di Pepsi, popcorn dappertutto e una copia di Infinite Jest aperta. Le pagine sono scarabocchiate e molti righi sottolineati con una matita di colore rosso. La mia copia, invece, quella che mi sono portata dall’Italia per la dedica, e’ intonsa come se non avessi mai letto il romanzo. Sulle pareti poster di tennisti, una famosa stampa di Warhol che riproduce il viso di Marylin in quattro quadranti e una foto di lui con Jonathan Franzen. La riconosco. Eravate a Capri – dico. Sorride e fa segno di si con la testa. Lui e’ il mio migliore amico, aggiunge smorzando il sorriso iniziale. Come la preferisci l’intervista? Sai, non ho tanta voglia di addentrarmi nella mia vita privata e ho poco tempo. Diciamo che non è un buon momento. Mi dispiace – gli dico. No no, niente di grave, tranquillo. E’ che sono impegnato con una roba grossa, un libro che non riesco a finire. Mi tormenta notte e giorno. Un libro che racconta una mia esperienza personale, a Peoria, nell’Illinois. Vorrei che sembrasse un romanzo, ma non lo e’. Ci sono tutto dentro, in alcune pagine mi presento ai lettori col mio nome: Salve, io sono Dave. Capisci? Si, certo, dev’essere spiazzante. Come sempre, del resto. Si, qualcosa di choccante, di forte – dice. Parlo della noia, ma non voglio essere noioso. E’ pazzesco, lo so. Sono a metà o poco più della metà.  Vuoi una Pepsi? Sei italiano, preferirai del vino. No, grazie, va bene la Pepsi. Ok, vado a prenderla e cominciamo. Nella breve assenza vengo attratto da uno scaffale, sul lato destro della stanza. E’ appesantito da un centinaio di libri. Sulla parte alta sono accatastate delle racchette. Provo a leggere i titoli e i nomi degli autori, ma sono troppo distante. Eccolo che arriva. Allora, come e’ andato il viaggio? Male, grazie – rispondo. Ho una paura fottuta degli aerei – Come me! Accidenti, allora avevi proprio voglia di vedermi. Dimmi un po’ ma Infinite Jest tu lo hai letto per davvero? Non sarai per caso uno di quei giornalisti che vengono qui ad intervistarmi dopo aver dato un’occhiata su internet? Certo che l’ho letto!  Gli dico. L’ho letto tutto, dalla prima all’ultima pagina, note comprese. Ok ok. Comunque scherzo, non farci caso. Che dici, Dave, partiamo? Chiedo. D’accordo, vamos! Clicco sul tasto play del registratore. Emozione

Dave, nel 2016, a febbraio, Infinite Jest compie 20 anni. Come è cambiata l’America in tutto questo tempo? Molte cose che hai scritto nel libro si sono avverate. Penso ad esempio al problema della dipendenza

Non è cambiata affatto, anzi, vedo tante persone chiuse in casa, ipnotizzate dai social‎. Nessun contatto col mondo reale, pochi slanci emotivi. Famiglie di sociopatici distrutte dal silenzio e dalla dipendenza da tablet. Un’isteria collettiva. Che pena, il solipsismo.

I protagonisti del tuo romanzo sognano il successo nel tennis e pur di arrivare sono disposti a tutto

 Esatto. Non hanno alternative, non hanno conosciuto altro. Vivono in una società che ha fatto della competizione la prima ragione di vita, forse l’unica. Voglio dire, ti fanno credere che se arrivi secondo non vali niente. Non puoi consentirti la sconfitta. Sconfitta uguale emarginazione, emarginazione uguale morte.

Tu da ragazzo hai giocato a tennis, ami molto questo sport, non è vero?

Vero. Ho scritto anche dei saggi sul tennis. Adoro i tennisti come Roger Federer: talento, forza atletica e umiltà. Da ragazzo me la cavavo, facevo dei lob perfetti. Poi ho avuto un incidente e ho dovuto abbandonare.

 

Quante copie ha venduto nel mondo Infinite Jest ?

Non lo so di preciso. Credo tante. Devo dire che non me l’aspettavo. Nel senso che non mi aspettavo che un libro di 1.300 pagine potesse avere un certo riscontro di pubblico oltre che di critica. Ad ogni modo non scrivo con l’assillo delle vendite, non ho mai aspettative di questo tipo. Però fa piacere sapere che quello che scrivi viene apprezzato, viene condiviso dagli altri. Come dire, è gratificante. Sì, gratificante

Molti giovani non leggono, sono presi solo da internet, dai social. Credi che la letteratura abbia i giorni contati?

Bella domanda. Spero di no. Vedi, la scrittura cambia pelle, si trasforma, evolve in altre forme, ma credo che sopravviverà. Anche gli sms, le interazioni sui social sono forme di scrittura. La parola scritta non morirà mai. Non può morire. E poi la narrativa ci aiuta a non sentirci soli, ci tiene compagnia. E’ questo il compito essenziale dei romanzi: combattere la solitudine.

A proposito di scrittura, molti ti considerano un genio perché hai inventato un nuovo modo di scrivere, hai stravolto tutti i canoni della letteratura. Dicono che dopo di te la letteratura non e’ più la stessa. Ne hai la consapevolezza?

Dicono così? Be’, mi rendo conto di essere un po’ strano, questo sì. Diciamo che mi diverte rompere gli schemi, sorprendere i lettori. Ma non lo faccio per esibire il mio presunto tra virgolette talento. Non lo faccio per dire ai lettori: vedete come sono bravo o roba del genere. Non mi interessa. Cerco solo di essere me stesso, di mostrare la mia natura più intima per quella che e’, senza filtri e senza ricorrere alla retorica della prosa più convenzionale. A volte mi chiedono della punteggiatura. Cazzate. La punteggiatura e’ una convenzione. Quando parli con qualcuno e hai tante cose da dirgli, i punti e le virgole non si vedono. Capisci cosa intendo dire?

C’è una frase in questo libro che amo molto: “I tergicristalli dipingono arcobaleni neri sul parabrezza luccicante dei taxi”

(Ride). Piace molto anche a Karen (sua moglie). Gli arcobaleni neri sono il bene e il male che ci portiamo dentro. Tutti abbiamo un arcoableno nero nell’anima. Quell’arcobaleno ci fa paura, e’ come lo spettro di uno spirito maligno, vorremmo cancellarlo. Mi piace pensare che i miei romanzi possano aiutare le persone a guardarsi dentro e a non avere paura di quel colore, il nero intendo

Nel 2006 sei venuto a Capri – Napoli – la mia città

Sei napoletano? Mi interrompe – Wow! Dalle tue parti si mangia da Dio! Ricordo delle insalate di polpi straordinarie. Napoli è una città affascinante e ricca di stimoli per uno scrittore. E’ malinconica. Un po’mi somiglia, ma è troppo caotica per i mie gusti. Se vuoi ordino una pizza, ma non farti illusioni: non è Marechiaro, qui. Scusa, mi avevi chiesto di Capri. Sì, ci venni con Jonathan e Jeffrey (Eugenides) per un convegno organizzato da Antonio Monda? Si, mi pare si chiamasse così. Fu una  bella esperienza. Ho scoperto che la letteratura americana dalle tue parti è molto apprezzata. L’Italia è una terra di grandi scrittori: Svevo, Pirandello, Pasolini, Eco. Mi piacerebbe tornarci, ma è troppo lontano e non amo i viaggi lunghi. Soprattutto in questo periodo.

Qual è, se esiste, il romanzo al quale ti senti più legato?

Non saprei, ne ho scritti così pochi. Quello al quale sto lavorando adesso e’ forse il libro che mi somiglia di più. Voglio che sia così. Da qualche settimana però sono fermo. Non riesco ad andare avanti. E’ angosciante, sai? Non mi era mai accaduto prima. Forse ho solo bisogno di una pausa. Vieni – Si alza di scatto dal divano.

Dove andiamo?

In garage. Voglio mostrarti il materiale che ho raccolto.

Il garage e’ dietro la casa. Per arrivarci attraversiamo un vialetto laterale. I cani ci seguono. Dave alza la porta di ferro marrone scuro, con le scanalature. Entrando vengo investito da un tanfo di panni sporchi e di cibo avariato. Lo stanzone è molto profondo, silenzioso e illuminato solo dalla luce artificiale di un grosso neon installato al centro del corridoio iniziale. Lungo la parete sinistra sono ammassati degli scatoloni pieni di libri. Più avanti altri scatoloni con appunti, dischetti e quaderni vari. Dave mi mostra alcuni manoscritti. Sono illeggibili. Mentre si abbassa di nuovo mi guardo intorno. Ad un tratto  il mio sguardo s‎i posa su un particolare del soffitto: il corridoio del garage e’ attraversato in senso longitudinale da alcune travi di legno massiccio. Dave si volta. Vede che ne sto fissando una in particolare. In quel punto il legno è scheggiato, e sulla parte centrale ci sono delle lettere cerchiate. Scuote il capo. Vuoi sapere se è accaduto qui? Quella domanda, così diretta, mi toglie il fiato – Cosa? No, veramente – Dai, l’ho capito a cosa stai pensando. Si, è successo proprio dove sei adesso. In quel punto li. Ma non chiedermi altro – Il volto di Dave ha cambiato espressione. E’ come se la mia curiosità avesse profanato la sua tomba. D’accordo – dico io, scusandomi. Ma poi per cosa? E’ stato lui a condurmi nel garage.  Ok ok, non preoccuparti – mi dice. Usciamo. Dave chiude la porta del garage tenendo sotto il braccio degli appunti che ha preso da un cassetto di una scrivania ricoperta di faldoni ben ordinati su tre file. Riattraversiamo il vialetto e ritorniamo in casa. Il sole è calato e si alzato un leggero vento – Scusami , Dave, non volevo – provo a ricucire lo strappo. Di nulla. Va tutto bene  – dice lui – Ora però se non hai altre domande da farmi sul libro, io andrei. Sono stanco e domani ho una giornataccia – D’accordo –  gli dico – A proposito, non ho ancora firmato la tua copia – Dave prende un pennarello nero dal tavolo e allunga il braccio per ricevere la mia versione italiana di Infinite Jest. E’ per me il momento più emozionante del nostro breve incontro. Sulla pagina bianca che precede il primo capitolo scrive: “Al mio amico (friend) italiano  A. – Dave Wallace”. Ecco fatto. Un’ultima domanda – Dimmi – Come ti piacerebbe essere ricordato un giorno? Fammici pensare. Come un antidoto alla solitudine. Ci salutiamo con un abbraccio. Mi accompagna alla porta. Grazie – gli dico – Grazie a te e buon viaggio – risponde lui. Attraverso il prato inglese avviandomi verso il taxi che mi sta aspettando oltre il cancello. Sta cominciando a piovere. Uno dei cani mi segue scodinzolando fino all’auto. Entro in macchina. Oddio il libro! Devo averlo dimenticato sul divano. Ripercorro il viale di corsa, sotto la pioggia che inizia ad infittirsi. Busso alla porta bagnato fradicio. Mi apre un signore anziano – Scusi, cercavo Dave, Dave Wallace – Dave Wallace? Mr Wallace e’ morto 8 anni fa. Non abita più qui.

IL PROVINO

Alle due e mezza di pomeriggio il sole sui palazzi di Ostia è ancora alto. Luca ha chiuso dietro di sé la porta di casa, rimesso la suoneria del telefonino sulla modalità normale e agganciato la tracolla al borsone di pelle blu con le cerniere rosse – ultimo modello dell’Adidas – che i suoi compagni di classe gli hanno regalato per il dodicesimo compleanno versando una quota di 6 euro e 50 a testa. Dai finestroni spalancati sulle scale Luca sente la voce di sua madre che sgrida Christian e Christian che piange, odore di carne arrostita sulla brace, la radio della sig.ra Gianna, al secondo piano, gli ricorda che lo scorpione avrà una giornata impegnativa, ma lui è del segno dei pesci. Un cane, magro, con gli occhi tristi, lo affianca nel vialetto fino al cancello e gli annusa le scarpette di gomma dura, poi i calzettoni con i parastinchi, poi le ginocchia. Luca gli offre l’ultima patatina prima di accartocciare il sacchetto oleoso e gettarlo nella fioriera, tra la sabbia sporca di sputi e di mozziconi. Lui la rifiuta e si allontana. La strada che porta al campo di calcio della Vigor è un rettilineo alberato con due lunghe file di auto parcheggiate ai lati. Il marciapiede è stretto e pieno di buche rattoppate, e gibboso per via delle grosse radici dei pini compresse sotto il manto stradale, anche quello solcato come una ragnatela e pieno di increspature. In alcuni punti l’asfalto è più scuro e compatto, in altri è di colore grigio chiaro, sbiadito, sembra di gesso. Il rombo improvviso di una moto squarcia il silenzio del dopopranzo e fa rotolare il barattolo di una pepsi lungo i bordi della strada fino all’avvallamento di un tombino. Luca è concentrato, pensa solo al campo, non ha paura ma sa che lo attende una prova durissima. Dovrà segnare almeno un gol, meglio due, magari su calcio di punizione, con la palla che scavalca la barriera e va ad infilarsi all’incrocio dei pali, e tutti a dire: ma come ha fatto? Oppure con un’azione solitaria, scartando in velocità l’intera difesa avversaria come Diego Maradona ai mondiali dell’86 contro la nazionale inglese. Gli capitò di farne uno identico nella semifinale del torneo studentesco con i Vichinghi della seconda C. Mancavano meno di cinque minuti alla fine della partita quando con uno dei suoi guizzi improvvisi riuscì a rubare la palla a un giocatore che se ne stava lì a cincischiare e cominciò a saltare uno ad uno i suoi avversari come birilli. Dopo aver superato pure il portiere e accompagnato il pallone oltre la linea di porta, si ritrovò tutta la quadra addosso che lo festeggiava. Nel buio di quel groviglio di corpi, gambe, braccia e aliti puzzolenti sentì l’urlo del pubblico sulle tribunette laterali: Lu-ca, Lu-ca, Lu-ca, Lu-ca, Lu-ca.

Al centro del campo l’allenatore a torso nudo e coi pantaloncini rossi ha un fischietto al collo e una cartellina azzurra. Sull’avambraccio sinistro si è tatuato il nome “Luca” in stampatello. E’ muscoloso, depilato, di statura media, con un filo di barba sul volto scavato e rugoso. Intorno a lui i ragazzi formano un semicerchio, lo ascoltano in silenzio. Parla, muove le braccia, mostra ai giocatori i bordi del campo, poi indica le porte, mima gli schemi di gioco flettendo le gambe lisce e abbronzate. Faremo due tempi di 20 minuti ciascuno, con un intervallo di 5 minuti, sta dicendo. Giocherete in questa metà del campo. Anzi no, andremo nell’altra. I ragazzi lo seguono poi si dividono in due squadre composte da 7 giocatori ognuna. Indossano pettorine bianche e gialle. Luca giocherà con la pettorina gialla. Nella sua squadra ci sono Mirko e Simone, suoi compagni di scuola alla Giovanni Paolo II. Dell’altro gruppo conosce solo Fabio, un bambino che abita nel suo palazzo. E’ il figlio di Enza e Roberto, amici dei suoi genitori. Quei due litigano sempre e Fabio per non sentirli litigare alza il volume dello lo stereo finché non smettono di litigare tra di loro e cominciano a litigare con lui. Ma a Fabio va bene così. Fischio di inizio. Serpentina di Mirko sulla fascia sinistra che si libera di due avversari e crossa, ma il portiere esce e blocca. Triangolazione a centrocampo degli avversari, Luca arretra per conquistare la palla. Ci riesce Simone che gliela passa subito dopo. Luca‎ salta un avversario e punta verso la porta, cade. Fallo! Alzati, dice l’arbitro-allenatore. Il gioco prosegue. Rimessa degli avversari, stop di petto di Marco che passa la palla a Simone che di tacco la fa filtrare a Luca. Dietro di lui Fabio prova a rubargliela, Luca cade di nuovo. Fallo! Alzati, gli grida l’arbitro-allenatore. Ma è fallo, mi ha spinto! Dice Luca. Non ti ha spinto, ha preso il pallone, dice l’arbitro-allenatore facendo segno di continuare. Il primo tempo finisce con il punteggio di 0 a 0. Cambio di campo. Luca dice a Simone di giocare spostato più sulla fascia per non occupare la sua zona. Rilancio del portiere avversario, la palla arriva a Luca che salta subito un avversario, vede Simone libero davanti a lui ma non gli passa la palla, temporeggia con una finta, poi un’altra finta, la perde. Fallo! Ma quale fallo? Avanti, dice l’arbitro-allenatore. Mancano due minuti alla fine della partita, Luca gronda di sudore e fino a quel momento non è riuscito a tirare una sola volta in porta, per un attaccante non è il massimo. Calcio di punizione per gli avversari, la palla si infrange sulla barriera, la riprende Simone che lancia Luca sulla fascia sinistra, Luca rincorre il pallone, è la sua ultima opportunità per segnare e far vincere la sua squadra, ma la palla corre più di lui, Luca allunga la gamba sperando di tenerla in gioco, andata. Rimane a terra per riprendere fiato, si tocca la punta delle scarpe con le dita, poi si gira verso i compagni. Triplice fischio, si va negli spogliatoi. Fa ancora caldo, un tizio col cappellino distribuisce bottiglie d’acqua e integratori vicino alla rete metallica che delimita il campo, Luca non beve, si asciuga il sudore con la pettorina, sulla gamba destra ha un taglietto rimediato in una scivolata, dietro di lui c’è Simone, lo raggiunge e gli appoggia il braccio sulla spalla. Ti fa male? Chiede. Cosa? Il taglio, ti fa male? Quale taglio? Ah, no, non è niente. Mi prenderanno? Secondo me, si, gli dice Luca; hai giocato bene, hai intercettato molti palloni, un giocatore come te fa sempre comodo.  Lo spogliatoio è un forno, l’afa si mescola alla puzza di piedi e di ascelle, ormoni in visibilio. L’acqua fresca e veloce della doccia fa scivolare tutto, libera il corpo dalla fatica e la mente dai pensieri. Luca sa di aver giocato male.‎ Fuori ad aspettarli c’è l’allenatore con la sua cartellina azzurra. Si è cambiato, ora indossa una maglia bianca e i pantaloni della tuta. Al collo ha ancora il fischietto. Il sole è ancora alto e i ragazzi sono allineati sul bordo del campo in attesa del verdetto, con i capelli ancora bagnati per la doccia. Facciano un passo avanti quelli che sto per chiamare. L’allenatore si schiarisce la voce con un colpo di tosse, di fianco a lui c’è il tizio che prima distribuiva le bottiglie d’acqua, tra lui e i giocatori c’è una distanza di tre metri, più o meno. Paolo Moresi, Alessio Biagi, Marco De Santis, Mirko Delli Carri, Simone Spiezia. Gli altri possono andare, grazie. Luca, tu aspetta, devo dirti due cose. I giocatori scelti esultano, qualcuno urla, si abbracciano. Grazie mister, dice Mirko. Poi tutti gli altri: grazie mister. Simone si volta verso Luca, Luca sta calpestando qualcosa, ha la testa bassa e le braccia conserte.   Domani passate in segreteria per compilare il modulo e lasciate i vostri dati. Grazie. A Domani. A domani, mister, dicono i ragazzi scelti allontanandosi insieme agli altri.

Luca e l’allenatore ora sono rimasti soli sul campo. Anche il tizio si è allontanato per chiudere gli spogliatoi e accendere gli idranti. Parla da solo. Sbraita non si sa per cosa. Non hai giocato male, dice l’allenatore a Luca, accarezzandogli la testa. Ti ho visto correre, in un paio di occasioni hai saltato l’avversario, sei migliorato nella visione del gioco, nella fase conclusiva invece sei venuto meno, non ho annotato neppure un tiro in porta. Male. Nel complesso ti darei un 6. Forse 6 e mezzo. Ma non basta, e lo sai. Per giocare in quel torneo devi meritarti un otto pieno. Intesi? Un otto pieno. Ti ho deluso? No, deluso no. Però a volte sembri stanco, demotivato, senza voglia. Non ti capisco. Devi impegnarti di più, e divertirti di più. A che pensi? A niente. Luca guarda le gradinate vuote, ripassa nella sua mente le azioni di gioco, rivede gli errori. La memoria gli torna  quel gol segnato contro i Vichinghi, all’esultanza dei suoi amici. Chissà quando gli ricapiterà di fare un altro gol come quello. Gli arriva l’odore dell’erba bagnata, e il sibilo a scatti dell’idrante quasi lo innervosisce. Si passa la mano tra i capelli, sbuffa. Vedrai che ce la farai. Ne sono sicuro. Ok, papà. Dammi il cinque.

LA PESTE

A Sorano quella mattina soffiava un vento caldo da est, in direzione della raffineria. Onde di calore si sollevavano dall’asfalto appena rifatto e si propagavano lentamente verso il cielo d’agosto, disegnando sinuosità che distorcevano i portoni e le finestre di via Galileo Ferraris. Era domenica. Dalle tende di un ultimo piano le note di un tango argentino scivolavano sulla strada fino all’incrocio con la Statale, dove la pagina ingiallita di un giornale si separava da un’altra e rotolava lungo tutto il marciapiede prima di avvolgersi alla pensilina del tram. Al numero 122, dietro la saracinesca della sua libreria, Vittorio Brancaccio aveva smesso di pensare a se stesso e alle cose del mondo; tra i suoi piedi e il pavimento mancavano poco meno di due metri, lo spazio minimo per cancellare il disonore e una vita che si era immaginato diversa. Dovranno passare più di otto ore prima che Mario, il figlio prediletto, l’alleato fedele, l’impiegato esperto e devoto, lo veda penzolare dal soffitto vicino alla pala del ventilatore, tra gli scaffali della narrativa americana, la sua preferita, e quelli della saggistica.

Lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai.  (Albert Camus)

Potrebbe iniziare così la storia di un’antica libreria in un luogo di confine nella periferia industriale di una grande città, e di una ricca e stimata famiglia napoletana, travolta da una insolita e beffarda sequela di misfatti: i Brancaccio.

Ora sono bambino e sto guardando la signora Anna seduta alla cassa mentre prende appunti su un registro a quadretti. Intorno a lei il rumore del silenzio odora di pulito e del profumo francese che si irradia dal suo collo esile e delicato fino all’ingresso del negozio. Un raggio di sole penetra il pulviscolo che orbita tra i nostri corpi poco distanti prima di posarsi sulle mattonelle verde petrolio del pavimento. L’orologio a muro dietro il bancone segna le cinque e un quarto.

Sig.ra, ecco le cinquecento lire che vi dovevo.

Grazie, tesoro. Mi sorride, allungando la mano bianca e sottile verso la mia, più piccola ed esitante. Poi ricomincia a scrivere mentre i miei occhi restano fissi sui suoi capelli lisci e castani, raccolti sulla nuca da un fermaglio di madreperla.

Ti serve altro, tesoro? No, nient’altro. Grazie. Buona giornata.

Buona giornata anche a te. A presto.

Era da poco finita la guerra quando i fratelli Brancaccio tornarono a Sorano per riaprire la libreria di via Ferraris. I bombardamenti l’avevano risparmiata, ma i muri esterni presentavano delle crepe e la fuliggine della raffineria aveva annerito buona parte degli arredi. Entrando, Vittorio ebbe la sensazione   di trovarsi in un cimitero. Chiazze di intonaco si erano staccate dalle pareti e avevano coperto la parte alta degli scaffali e il pavimento. Le ragnatele nere agli angoli del soffitto disegnavano triangoli perfetti. La puzza di zolfo e di detriti era insopportabile. Una trave del soffitto aveva ceduto fino ad incrinarsi pericolosamente in direzione del bancone nascosto sotto una coperta militare che lasciava intravedere dolo i lati e la base massiccia. Del salottino di pelle dove i clienti più assidui amavano intrattenersi per conversare e leggere qualche pagina, neppure l’ombra. Qualcuno lo aveva trafugato o forse era stato portato via prima della guerra senza che lui lo ricordasse.

E’ questa la tomba di papà, pensò Vittorio mentre si aggirava prudente tra i resti del mobilio impolverato e le schegge di muratura. Prima di uscire volle dare un’occhiata ai suoi volumi preferiti, quelli della narrativa americana. Si sorprese nel vedere che Faulkner, Hemingway, Melville, Scott Fitzgerald erano rimasti al loro posto, nello stesso ordine alfabetico di sempre. Estrasse Moby Dick. Ci soffiò sopra e pianse.

Oltre il cognome i fratelli avevano ben poco in comune. Mario era alto e ossuto come la madre. Col volto scavato e gli occhi di uno strano colore, a metà tra il grigio e il verde.  Vittorio aveva preso dal padre la corporatura robusta, la statura media e i capelli neri e ricci. Mario era un ragazzo pragmatico, laborioso e portato per i lavori manuali. Il suo mondo era popolato di pinze, giraviti e chiavi inglesi. Vittorio non era capace neppure di svitare la lampadina da un’abatjour; usava le mani solo per sfogliare i libri e per scrivere di tanto in tanto delle poesie che dedicava alla moglie. E’ nato per fare lo scrittore, dicevano di lui. Elegante e vanitoso, non si separava mai dal Borsalino e amava indossare i guanti sia d’estate che d’inverno. Vittorio era un vero dandy. Tra i suoi amici figuravano pittori, intellettuali e orchestrali del teatro San Carlo, la sua seconda casa dopo la libreria di via Ferraris. Lo chiamavano Vic per via dei suoi trascorsi in Provenza. Cosa ci era andato a fare?

Non fa per me, disse Mario quando sul tavolo della camera da pranzo stile Luigi XV suo fratello srotolò il progetto di ristrutturazione dei locali che aveva fatto preparare dall’architetto Ambrosio, suo vecchio compagno di liceo.

Di libri non ne so nulla, e poi a scuola faticavo parecchio per avere la sufficienza. Non ti ricordi?

Lo ricordo eccome, disse Vittorio.

Ma a quelli ci penserò io, tu dovrai occuparti di altro.

Cos’altro c’è in una libreria oltre i libri? Chiese Mario. Vittorio rise.

I registri, gli ordini, i conti, le fatture. Ti sembra poco?

Ah, ho capito: ti serve un contabile.

Anche, disse Vittorio, dandogli un buffetto sulla guancia.

In quel luogo Vittorio aveva trascorso gran parte della sua vita. Da bambino lui e il padre si divertivano a fare un gioco: dovevano ricordare più titoli e più autori possibili di ciascuno degli scaffali. Uno sforzo di memoria notevole al quale però il piccolo Vittorio era allenatissimo. Tanto che il più delle volte era proprio lui, Vittorio, a dire ai clienti se un volume era o meno disponibile nella libreria. Come quella volta che l’Avvocato Gorrasio chiese di acquistare l’Ulisse di Joyce.

Non lo abbiamo: l’ultima copia è stata venduta la scorsa settimana, disse lui tra lo stupore di tutti i presenti.

Non è possibile, intervenne il padre. Dovremmo avere ancora una copia di Joyce. Guarda meglio.

Ti confondi con “Gente di Dublino”, papà, disse Vittorio. Aveva ragione lui.

Appoggiata al vetro, Anna Serrelli guardava la strada sorseggiando il primo caffè della giornata.

Il traffico su via Ferraris scorreva lento come una processione, e il rumore dei tram di tanto in tanto copriva la radio che lei accendeva tutte le mattine dopo aver messo la macchinetta del caffè sul fornellino a gas nel retrobottega.

Il marciapiede di fronte brulicava di studenti e di donne con le borsa della spesa. La fiaccola sulla torre della raffineria, in fondo alla strada, era una bandiera gialla che sventolava sul cielo grigio e polveroso di Sorano. Anna guardò in direzione della pensilina dove un tram aveva appena rallentato. Scesero dei ragazzi con le cartelle sotto al braccio e una coppia di anziani, Lui non c’era. Strano, pensò, a quell’ora sarebbe dovuto essere già al suo posto, dietro il banco della libreria.

Raccolse i pensieri molesti nella tazzina vuota e si diresse nel retrobottega per darsi una sistemata ai capelli e rifarsi il trucco, ma il clic della porta la costrinse a voltarsi.

Scusate, ho avuto un contrattempo. Non sapeva che lei fosse da sola.

Ho appena fatto il caffè, disse Anna fissando i suoi occhi.

Lo prendi?

Si guardò in giro.

Don Vittorio non è arrivato? chiese

Non ancora, rispose lei, stirandosi con le mani la gonna stretta sui fianchi.

Si chiamava Ottavio Molinari. Aveva 20 anni, l’età di suo figlio. Il più piccolo, Gianluca. Alto, smilzo, moro e dalla carnagione olivastra. Fresco di studi e con una buona parlantina. Anche per questo Vittorio lo aveva assunto come commesso part-time. Era un giovanotto simpatico, educato, onesto e volenteroso, avrebbero detto di lui un anno dopo, quando della sua vita si sarebbe persa ogni traccia.

Anna se ne innamorò il primo giorno. Dopo le presentazioni, il suo sguardo innocente e virile al tempo stesso le si era posato su uno spicchio di seno che la morbida camicetta color panna lasciava intravedere.

Poi gli occhi guardarono gli altri occhi e i due si ritrovarono in silenzio, come complici di qualcosa che non era ancora accaduto.

“L’amore, pensava, doveva manifestarsi di colpo, esplosione di lampi e fulmini, uragano di cieli che si abbatte sulla vita, la sconvolge, strappa via ogni resistenza come uno sciame di foglie e risucchia nell’abisso l’intiero cuore” (Gustave Flaubert)  

 Ho fatto un sogno. Eravamo sulla moto, io e te, fermi sotto la prima torre a guardare la fiamma in alto che improvvisamente cambiava colore. Prima viola, poi rossa, di un rosso intenso, poi blu elettrico, poi nera. Era diventata densa, molto densa, pastosa. Veniva giù come la lava del Vesuvio. Il magma scendeva verso di noi inghiottendo ogni cosa. Intorno alla raffineria era un deserto sconfinato, giallo, abbagliante.  Faceva molto caldo, non si respirava, gli occhi mi bruciavano. Grondavamo di sudore. Il sellino era diventato rovente e il parabrezza stava cominciando a sciogliersi e ad accartocciarsi su se stesso. Volevo ripartire ma la moto era bloccata. Dai! Forza! Gridavi. Le ruote cominciavano a sprofondare nella sabbia così come i nostri corpi ustionati. Ciao

IL RITORNO A CASTEL CAPUANO 

Arrivai a Capodichino  verso le tre di pomeriggio. Pioveva a dirotto. Il traffico a Napoli era già intenso – Nessun bagaglio, grazie. – In aeroporto avevo preso il Corriere; in prima pagina c’era un articolo sull’uccisione del giudice Morabito: “MASSIMO RISERBO SULLA PISTA BULGARA” il titolo. Il tassista parlava in continuazione. Di tutto. Prima ha attaccato col brutto tempo, poi con la partita del giorno prima contro la Juve. Troppe sviste arbitrali, diceva. Troppe. C’era un fallo di mano in area. Netto! Savoldi si era mangiato un gol a porta vuota. Non avevano concesso neppure due minuti di recupero. E della squalifica di Vinazzani la domenica prima: ne vogliamo parlare? Dopo il primo tempo la partita doveva essere interrotta per pioggia. E  sa perché? Il pallone n-o-n  r-i-m-b-a-l-z-a-v-a più. Ma che cazzo me ne frega a me del pallone che n-o-n  r-i-m-b-a-l-z-a-v-a più, volevo dirgli. La mia mente era altrove; a Marsiglia, in quel casolare fuori mano dove avevo lasciato Giulia. Quando mi rivestii lei dormiva. O fingeva. Ah, ma l’anno prossimo se il presidente non compra A-L-M-E-N-O due o tre giocatori, rischiamo di andare in B. Vedevo la bocca del tassista muoversi dallo specchietto retrovisore, ma a tratti non sentivo la voce. Non volevo sentirla. Quell’omino grassoccio, sudato e maleodorante continuava a parlare a vuoto. Sembrava un pesce in un acquario. Guardavo davanti a me il parabrezza inondato dalla pioggia. Immaginavo le mie mani che gli stringevano il collo fino a strozzarlo. Solo dopo aver imboccato via Caracciolo l’omino capì che non lo stavo ascoltando e finalmente si zittì. Evviva Dio! Arrivai a casa distrutto e affamato. Mi riposai un paio d’ore. Feci una doccia. Presi a volo una pizzetta giù al palazzo, da Mario, e corsi allo studio. Aveva smesso di piovere e il cielo azzurro di Corso Umberto stava per essere solcato da un aereo militare. All’ingresso mi venne incontro Irene – Eduardo, dov’eri finito? Ti abbiamo cercato tutto il giorno. L’avvocato è nella sua stanza – mi disse a bassa voce – Sono stato fuori. Mimmo è libero? – Le chiesi, mentre si affrettava ad estrarre dei fascicoli dallo scaffale del corridoio. Fece di sì con la testa, invitandomi con la mano a raggiungerlo. Imboccai il lungo corridoio e mi diressi verso la sua camera. Nell’altra stanza Federico sfogliava il codice civile scaccolandosi vertiginosamente con l’indice della mano destra. Lo faceva spesso. L’operazione richiedeva normalmente non meno di due o tre minuti per narice: Fede era un perfezionista dell’igiene nasale; per questo nello studio nessuno lo salutava dandogli la mano. Non si era accorto del mio arrivo, il che voleva dire che quella procedura apparentemente intensa aveva avuto inizio solo pochi secondi prima. Stranamente la porta dell’avvocato era spalancata. Colajanni era seduto dietro la scrivania intento a scrivere non so cosa. Sembrava molto preso dalle sue carte. Passava da un atto giudiziario all’altro sottolineando con la matita alcune parti. Pareva quello di sempre, come se la vicenda di sua figlia l’avesse dimenticata, rimossa. Lo osservai prima che lui avvertisse la mia presenza. Indossava una camicia a righe blu con i polsini sbottonati. La cravatta era slacciata, e mentre sottolineava un ciuffo gli ciondolava sulla fronte. Quando fui sulla soglia della camera Mimmo alzò la testa e tolse gli occhiali – Eduà, ma non eri a casa? – No, Mimmo, non ero casa. Come stai? Mi fa piacere ritrovarti a Napoli – dissi. Mimmo allargò le braccia – Dovevo tornare per forza: domani abbiamo il fallimento della F.lli Rossetti. Te n’eri dimenticato? – Fui felice di quella risposta. Compresi che l’attentato al giudice Morabito non lo aveva annientato, come invece temevo. Mimmo aveva la pelle dura e la professione era per lui una priorità assoluta. In quel momento provai per l’avvocato Colajanni una grande ammirazione. Bravo Mimmo, resisti! Pensai – Non lo vuoi sapere dove sono stato? – chiesi – Non disse niente. Poi rialzò la testa – Giulia? – Aveva capito tutto, come al solito – Dov’è? –  In Francia, a Marsiglia – Mimmo si alzò dalla sua sedia, girò intorno alla scrivania e si risedette sulla poltroncina di fronte, quella riservata ai clienti – A Marsiglia? –  Si. Sono arrivato a lei tramite un professore di Roma che l’ha conosciuta tre anni fa – terrorista pure lui – disse Mimmo – Bè, non esattamente – mentii. – Come sta? – l’avvocato rimase colpito da quella notizia, ma non si scompose più di tanto – Forse è già al sicuro. E’ in un casolare, in campagna – continua – disse Mimmo, passandosi la mano sul collo – Non ho altro da dire. Sono rimasto con lei la scorsa notte. Ho provato a convincerla a tornare in Italia. A costituirsi. Non ne vuole sapere. E’ finita. E’ finito tutto. – L’avvocato ascoltò in silenzio massaggiando con la mano il bracciolo della poltroncina. Poi tornò dietro la scrivania e riprese a studiare le sue carte, come se non avessi parlato – Domani verrai anche tu da Notari, alla sezione fallimentare? – chiese – Certo. Andremo insieme –

La mattina seguente, come promesso, passai a prendere Mimmo a casa sua. Era elegantissimo. Più del solito: cappotto grigio scuro di cachemire sul principe di Galles; cravatta Marinella a pois blu e rossi; Borsalino grigio e scarpe lucide, nuovissime. Facemmo colazione al bar di Tonino. L’avvocato diede un’occhiata al Mattino. Cercava l’articolo su Giulia. Lo trovò a pagina tre. Inforcò gli occhiali da vicino e lesse le prime righe. Poi con una smorfia richiuse il giornale e lo lasciò cadere sul tavolino, tra le briciole del cornetto che aveva divorato un attimo prima. Ci incamminammo verso il tribunale, come facevamo una volta. Era molto teso; temeva la reazione dei colleghi. Attraversammo il cortile di Castel Capuano a passo spedito. Davanti alla porta si erano accalcati giornalisti e fotoreporter. Mimmo si fece largo con l’aiuto della borsa – Non ho nulla da dire – rispondeva a chi con insistenza provava ad intervistarlo. Sulle scale incrociammo il collega Polverino con il figlio Paolo; entrambi fecero finta di non vederci. Lungo il corridoio della sezione fallimentare altri avvocati al nostro passaggio si girarono dall’altra parte. Ricordo ancora le loro facce. Nell’ordine: Pino Corradi, Manlio Del Prete, Guido Ricossa, Ottavio Falcone e Sergio Iacobelli. Colajanni camminava con la testa alta, ogni tanto si aggiustava il nodo della cravatta per stemperare il nervosismo. Ci venne incontro Filippo Castaldi, un collega di Nola – Mimmo, come stai? – Bene, grazie – rispose l’avvocato, stringendogli la mano – Coraggio, Mimmo – disse Castaldi. L’avvocato abbozzò un sorriso di circostanza e con la testa lo ringraziò. Prima di entrare nell’aula di Notari, gli passò davanti Gianni Iovino, un suo vecchio collega di studio. Mimmo fu sul punto di salutarlo, ma quando si accorse che lui per evitarlo si diresse verso i fascicoli che erano ammucchiati sul tavolo di fronte al giudice, con imbarazzo, all’ultimo istante ritrasse la mano. L’aula n. 7 era affollatissima. Il dott. Clarizia, curatore del fallimento della F.lli Rossetti Srl, oltre ad essere uno stimato commercialista, in passato aveva amministrato una piccola società di consulenza assieme all’avvocato. Per ironia della sorte era stato anche il padrino del battesimo di Giulia – Mimmo, sono addolorato. – Esordì Clarizia, avvicinandosi – Giggì, non me ne parlare, non dormo da venti giorni. – Non te lo meritavi proprio. Ti capisco.  – No, Giggì, nun può capì – lo interruppe Mimmo. L’avvocato salutò il giudice Notari e il collega Del Vecchio che rappresentava la società fallita. Poi estrasse dalla borsa i documenti che aveva preparato per l’udienza e li esibì. Prima di andare via, si appartò per altri cinque minuti con Clarizia. Al termine di quel colloquio misterioso mi indicò di seguirlo. Fuori, nel corridoio, un fotografo fece in tempo a scattare delle foto mentre l’avvocato provava ad allontanarlo con un calcio. L’intrepido paparazzo riuscì a scattare un’altra foto, e poi un’altra ancora. Colajanni a quel punto sferrò un secondo calcio, ma anche stavolta andò a vuoto. Mimmo fu sul punto di cadere; con la mano riuscì ad afferrare il pomello della ringhiera ritrovando miracolosamente l’equilibrio. – E che maniere! Abbiate un po’ di rispetto per l’avvocato Colajanni – gridò un cancelliere che si trovò a passare sulla scena dello scoop. Nel cortile si avvicinarono altri giornalisti armati di penna e taccuino – Avvocato, ha notizie di sua figlia? – l’avvocato li ignorò e proseguì fino all’ingresso prendendomi sotto il braccio. Si rimise velocemente il cappotto mentre io gli tenevo la borsa. Svoltammo in via dei Tribunali per sviare gli ultimi curiosi, e ce ne tornammo a casa tagliando per Spaccanapoli. Senza aver bevuto neppure un caffè.

L’OMICIDIO DEL GIUDICE MORABITO

Ero appena arrivato a Castel Capuano quando cominciò a circolare tra i colleghi la notizia di un attentato nel quale erano rimasti uccisi un magistrato milanese ed un poliziotto della sua scorta. Era la mattina del 7 febbraio del 1978. Il giudice assassinato si chiamava Pietro Morabito. Dopo una brillante carriera come istruttore a Caltanisetta, nei primi anni settanta, lo avevano trasferito al palazzo di giustizia di Milano, dove si occupava prevalentemente di terrorismo. Tre mesi prima della sua uccisione, Morabito aveva fatto condannare per banda armata e tentato omicidio sei persone appartenenti alla colonna milanese delle brigate rosse. Da allora si spostava sotto scorta. Era stato freddato con due colpi di pistola alla nuca, davanti casa sua, in via Broletto, da un commando delle BR formato da almeno quattro persone: tre uomini e una donna. La notizia aveva sconvolto l’opinione pubblica e i giornali non parlavano d’altro. In quei mesi l’Italia era finita sotto una cappa di piombo e sebbene Napoli non apparisse il crocevia più pericoloso di certi movimenti eversivi, la preoccupazione e l’allerta, soprattutto in certi ambienti, era molto alta. All’università, il collega Kalby mi raccontava di aver conosciuto Morabito e di aver frequentato casa sua per diverse settimane. Era una persona taciturna, gentile, sempre disponibile, diceva. Amava i classici latini e nel tempo libero usciva di rado. Kalby era scioccato. Temeva che quel clima potesse degenerare in una vera e propria guerra civile. – Eduardo, siamo tutti sotto tiro. Siamo dei simboli, lo capisci? – La mia opinione non era diversa dalla sua. Anche io ero disorientato e cominciavo ad avere paura. Eppure non potevo immaginare neanche lontanamente che quell’evento così tragico, di lì a poco, avrebbe cambiato la mia vita e soprattutto quella di Colajanni. Il 9 febbraio, intorno alle undici, avevo da poco terminato le udienze. Dopo essermi fermato in libreria per prenotare un romanzo di Saul Bellow, mi incamminai verso lo studio, a piedi. Faceva quasi caldo. Tolsi il cappotto e rimasi con la giacca. Non avevo ancora comprato la solita mazzetta dei giornali. Lo feci alla prima edicola che incontrai sulla strada, a piazza Borsa. Presi tra mani la copia de Il Mattino e rimasi immediatamente colpito da un’immagine disegnata sulla prima pagina. Era l’identikit di uno dei terroristi che aveva preso parte a quel vile attentato. Notai subito che la donna raffigurata nel disegno somigliava in modo impressionante a Giulia. Il taglio degli occhi, la forma del viso e della bocca, la pettinatura, sembravano i suoi. Inoltre nell’articolo, di lato al disegno, c’era scritto che la ricercata aveva all’incirca trent’anni, era alta più o meno un metro e sessanta ed era di corporatura esile. Tutto sembrava corrispondere alla figlia di Colajanni. Incredibile. La prima cosa che mi venne in mente fu di chiamare Giulia e di riferirle quella strana coincidenza. Volevo farle un scherzo, dirle qualcosa tipo – Amore, ma come lo trascorri il tempo libero, andando in giro ad ammazzare i giudici? – No, troppo macabro, di cattivo gusto. Non ci sentivamo da alcuni giorni. Ero salito a Milano il 2 febbraio per una causa. Ci eravamo visti quello stesso pomeriggio, poi lei sarebbe partita per una settimana in montagna con delle amiche. Così aveva detto. Provai a telefonarle. Non rispondeva. Provai di nuovo. Il giorno seguente ne parlai con Mimmo. Anche lui era preoccupato; mi disse che non riusciva a mettersi in contatto con Giulia da parecchio tempo. Chiamai il Parini per avere qualche notizia in più. Il segretario mi rispose che la professoressa Colajanni si era presa un giorno di permesso il 6 di quel mese, ma che da allora non era più rientrata. Immediatamente io e Mimmo ci precipitammo all’aeroporto e prendemmo il primo volo per Milano. L’avvocato, come me, aveva visto l’identikit della donna che circolava in tv e sui giornali ed aveva fatto strani pensieri. Conosceva bene gli ambienti che la figlia frequentava in città e le sue idee politiche. La scomparsa di Giulia poteva essere collegata a quel delitto? Rimanemmo in silenzio tutto il tempo del viaggio.

Alle 22,00 passate, arrivammo sotto casa di Giulia, al civico 41 di via Procaccini. La strada era deserta e faceva un freddo cane. Citofonammo una, due, tre, quattro volte. Non rispose nessuno. Il portone del palazzo, di legno massiccio, era serrato. Bussammo allora al portinaio. Al terzo tentativo si affacciò un omino anziano, pelato, avvolto in una vestaglia di lana a quadretti. Ci disse di non sapere nulla e di aver visto l’ultima volta Giulia la settimana prima; era passata in portineria a pagare il condominio e a lasciare le chiavi del cancello che dava sul retro, dove di solito lei parcheggiava il motorino. Gli chiedemmo di farci entrare nell’appartamento, ma rispose che non poteva, anche perché non disponeva del doppione della chiave di ingresso. Decidemmo allora di cercare Giulia in quel circolo che frequentava abitualmente la sera. Il nome era tutto un programma, si chiamava: “Orgoglio Operaio”. Ma era chiuso anche quello. Il mattino seguente vi ritornammo. Entrando, incrociammo una donna di mezza età, con i capelli corti e grigi, pettinati con la fila. Era seduta dietro una scrivania bianca, coperta di manifesti, giornali, pennarelli e matite colorate. – Prego – Buongiorno – disse l’avvocato. – Stiamo cercando la professoressa Colajanni, sa dirci dov’è? – Chi sono loro? –  Sono il padre. – La donna restò a fissarci per qualche attimo, poi ci suggerì di chiedere a un tale Gianni, detto “il tibia”. Lo chiamavano così perché in uno scontro in piazza aveva riportato una frattura alla gamba sinistra. Colajanni commentò le ragioni di quel soprannome sussurandomi all’orecchio: “E hanno fatto bene”. Il tibia a quell’ora era di turno in fabbrica, sarebbe arrivato al circolo alle due di pomeriggio. Ci fermammo a una tavola calda lì vicino, più che altro per guadagnare tempo. La piega che stava prendendo quella strana vicenda ci aveva tolto la fame e il sonno. Sfogliammo i giornali, tutti mettevano in risalto l’omicidio di Morabito e i primi sviluppi delle indagini. Gli inquirenti stavano seguendo diverse piste non essendo giunta alcuna rivendicazione. Mimmo era stravolto, aveva la faccia pallida. I suoi occhi rimanevano aperti con molta fatica. Non aveva neppure la forza di leggere, ero io a riferirgli i dettagli del caso evidenziando le parti salienti degli articoli. Le indagini erano state affidate al giudice istruttore Carleo. – Chi, Maurizio? – chiese Mimmo. – Sì, Maurizio Carleo. Lo conosci? – Come no, è il cugino del dott. Parisi, il direttore del Banco di Napoli. Siamo stati insieme a Capri tre anni fa. Voglio vederlo – disse l’avvocato, scattando in piedi. Già, ma prima dovevamo incontrare quello strano tipo del circolo, “il tibia”. Erano le due e mezza del pomeriggio, sarebbe dovuto essere già lì. Lo aspettammo per una decina di minuti all’angolo del palazzo; io infreddolito, con le mani in tasca, Mimmo fumando come un forsennato. Eccolo. Senza conoscerlo, riuscimmo a capire che era lui perché zoppicava. E poi perché il suo aspetto rispondeva perfettamente al personaggio che ci era stato descritto. Il tibia aveva una tuta di jeans, la barba e i capelli lunghi, rosso rame, e ai piedi calzava degli anfibi. Puzzava di vino e di hashish – E’ lei il tibia? – Chiesi, un po’ imbarazzato per avere pronunciato quel nome. – Sì, sono io – disse lui, quasi infastidito dalla nostra presenza. – Siamo qui per Giulia – Sì, me l’hanno detto – tagliò corto. – Cosa volete sapere, io e la Giulia ci occupiamo di immigrati e di alcune problematiche sindacali. Stop. – Vogliamo sapere dov’è – disse Colajanni. – E io che ne so, non siamo mica fidanzati? – Disse lui, con aria di sfida. A quel punto l’avvocato lo afferrò per il collo – Stammi a sentire, pezzo di merda, voi e le vostre bombe non mi fate paura. Dimmi dove cazzo è mia figlia, altrimenti questo covo di brigatisti ve lo faccio saltare in aria. Adesso! – Presi l’avvocato per il braccio per allentare la morsa – Basta Mimmo! Sei impazzito? Andiamo via! Andiamo! – Il tibia si sistemò i capelli senza fiatare, poi si allontanò mandandoci a quel paese con il segno della mano. – Lascialo perdere, parleremo con il dott. Carleo – dissi. Mimmo seguitò a guardarlo mugugnando non ricordo cosa, poi esplose – E’ una zoccola! L’ho cresciuta come una principessa e ora me la ritrovo in quel covo di delinquenti. Che schifo! – La rabbia e lo sconcerto di Mimmo erano comprensibili. L’avvocato si sedette sul bordo del marciapiede, si portò le mani sul volto e scoppiò a piangere. Pianse come un bambino. In quell’istante, il prestigio, la fama, il successo, la ricchezza accumulati in tanti anni di carriera sembravano non contare più nulla. Quel dramma improvviso lo stava schiacciando come una pressa. L’immagine di Domenico Colajanni sembrava quella di un vagabondo senza meta. Guardavo la sagoma rimpicciolita del padre afflitto, frastornato, lì sul selciato della strada, con la barba incolta e il nodo della cravatta allentato, e me ne venne in mente un’altra: quella del nostro primo incontro allo studio di corso Umberto. Allora l’avvocato era sorridente, potente, dinamico, autoritario, sicuro di sé,  un vero mattatore. Il Colajanni seduto davanti a me, in quel gelido e buio pomeriggio milanese, era invece un uomo finito. Anzi, non era neppure un uomo: era una larva. Mi sedetti di fianco a lui per condividere lo strazio, il dolore insopportabile. Rimanemmo in silenzio. Poi mi alzai per chiamare un taxi da una cabina telefonica vicina e ce ne tornammo in albergo. Senza dire una parola.

IO E COLAJANNI

L’appuntamento con Marta era alle 17,30, davanti al portone di corso Umberto. Civico 253. Da Santa Lucia, dove abitavo, avrei impiegato circa 20 minuti, a piedi. L’avvocato Domenico Colajanni era molto amico di suo marito. Quando ricevette la notizia della mia laurea, Marta volle farmi un regalo: portarmi nel suo studio per farmi iniziare la pratica forense – Vedrai che Mimì ti prende – mi disse con tono deciso – di giovani preparati come te ce ne sono pochi in giro – Marta mi conosceva fin da bambino, abitava anche lei a Santa Lucia. Spesso veniva da noi per farsi cucire gli abiti da mia madre, che all’occorrenza faceva anche la cuoca, la baby sitter e tanti altri mestieri. Mio padre, invece, gestiva un’edicola a Monte Calvario. A casa nostra di soldi ne giravano pochi, e così, per seguire i corsi universitari, anche io cercavo di arrangiarmi come potevo, per esempio dando ripetizioni di italiano e latino o sbrigando delle commissioni nel quartiere. Non volevo pesare sui miei genitori, che oltre a me dovevano provvedere all’istruzione di Nicolino e Tommaso, i miei fratelli più piccoli.

Colajanni a Napoli era un avvocato famoso, e il solo pensiero di varcare la soglia del suo studio mi faceva tremare le gambe. Perché non sfigurassi, mia madre pensò di rivisitare un vecchio vestito che suo marito indossava nelle ricorrenze più importanti: un gessato blu scuro a due bottoni. Il collo era un po’ consumato, ma almeno di sera si notava poco. Le scarpe, seminuove, erano le stesse che avevo indossato all’esame di laurea poche settimane prima. Me le aveva regalate zio Mario, il fratello di mamma, venuto a vivere da noi dopo la morte della moglie Ines. Con la cravatta però volli scialare. Ne avevo adocchiata una bellissima nella vetrina di Marinella, a punta di spillo. Con i pochi risparmi che mi erano rimasti decisi di regalarmela senza farlo sapere a nessuno. Quella cravatta, da sola, valeva più del vestito, delle scarpe e di tutto il resto. Ma si trattò di un buon investimento; sì perché Colajanni, non appena la vide, sobbalzò dalla sedia – Perbacco! La sua cravatta è davvero bella. Dove l’ha comprata? – Da Marinella – risposi io, simulando una certa familiarità con il celebre negozio di Riviera di Chiaia – Hai capito? Si tratta bene il mio giovane collega – Per fortuna che non aveva ancora visto il collo consumato del gessato, la penombra dello studio mi aveva per il momento risparmiato l’imbarazzo – Marta mi ha parlato molto bene di lei, sa? – Esordì l’avvocato – ma temo di non poterla accontentare: ho già tre ragazzi con me e non saprei dove collocarla. Ad ogni modo, può rimanere qui qualche giorno, nel frattempo avrò premura io stesso di trovarle una buona sistemazione in un altro studio – D’accordo avvocato, ma non vorrei disturbare – dissi, sorpreso dalla buona accoglienza – Nessun disturbo, caro….come ha detto che si chiama? – Eduardo, Eduardo Scalera – E dopo aver chinato il capo in segno di riflessione, un attimo dopo aggiunse – Facciamo così, per il momento può sedersi alla scrivania nella prima stanza, quella adiacente alla sala d’attesa. Irene le mostrerà il posto – Prima di indirizzarmi da Irene, la segretaria dello studio, Colajanni volle però presentarmi gli altri praticanti che mi avevano preceduto. I primi due, Marco e Federico, erano alti e magri, con gli occhiali da vista molto spessi. Entrambi abitavano al Vomero. Il terzo, Manfredi, grassottello e dall’andatura goffa, prima di laurearsi in legge aveva sostenuto una decina di esami a medicina, e per questo lo avevano soprannominato: “ ‘o duttor”.

Al momento delle presentazioni, i miei colleghi si guardarono di soppiatto, quasi infastiditi dal mio arrivo. Irene lo intuì, ma per non farmi sentire a disagio semplificò i convenevoli con uno dei suoi moniti – Forza, a lavoro, che domani in tribunale sarà una giornata dura! – In tribunale, io? – Certo, verrai anche tu – disse Irene. A differenza di Colajanni, Irene dava del tu a tutti, tranne al suo datore di lavoro, al quale si rivolgeva con il “voi” – Perché, l’avvocato non ti ha detto niente? – Be’, veramente no – risposi, intimorito dal suo fare militaresco – Allora ci penserò io –  Dopo pochi minuti, entrò nella stanza e mise sulla mia scrivania un fascicolo che aveva estrapolato dallo scaffale del corridoio. C’era scritto: Tribunale di Napoli. E più in basso: Perrone +1 contro Annarumma Fabio – E’ un’azione di reintegra – mi spiegò, supponendo che un fresco laureato come me potesse già comprendere il da farsi. L’ottimismo di Irene sembrò pareggiare il mio disorientamento. Osservai con molto imbarazzo quel malloppo di atti e di documenti, intervallati da appunti scritti a mano. Mentre scorrevo l’indice degli atti, fui colto di sorpresa dall’avvocato che era appena entrato nella stanza – Bravo, vedo che comincia nella maniera giusta – mi disse, sorridendo e con la sigaretta tra i denti – Non si preoccupi, so bene a cosa sta pensando. Ma dovrà solo mettere in ordine cronologico le carte del processo, poi domani, in udienza, vedrà il resto – Alle nove e mezza Irene mi avvisò che potevo andare via, suggerendomi di fare un salto nella stanza del capo. Colajanni, che aveva appena acceso l’ennesima sigaretta, mi fece segno di sedermi – Allora giovanotto, come le sembra questo posto? – chiese, guardandomi fisso negli occhi – Sa, è la prima volta che entro in uno studio legale, ma è esattamente come me l’immaginavo. Prima mi ha detto che devo venire in udienza con lei, domani – Certo, dove crede che si impari la professione? Ci vediamo a Castel Capuano, alle nove in punto, alla prima Sezione civile. Mi raccomando, alla puntualità ci tengo – Anche io – risposi, credendo di fargli cosa gradita. Ma proprio in quel momento lo squillo del telefono coprì le mie parole. La mente di Colajanni stava per volare altrove, così decisi di guadagnare l’uscita dello studio per non disturbare la conversazione, che, a occhio, sembrava alquanto piacevole. Tornando a casa, presi una pizza “a libretto” all’angolo del Rettifilo, da Orazio. La divorai in un attimo pensando al pomeriggio appena trascorso. Ero confuso ma al tempo stesso felice. Avevo conosciuto il più famoso avvocato di Napoli e l’indomani in Tribunale mi attendeva una giornata di lavoro assieme a lui.

Nei corridoi bui di Castel Capuano l’odore del marmo consumato si mescolava a quello del dopobarba degli avvocati, fresco ed intenso, in linea con lo stile e l’eleganza che ostentavano. Non erano ancora le nove ed attendevo con impazienza Colajanni sulla prima scalinata dell’ingresso. L’avvocato era appena arrivato, la sua voce lo precedeva nel cortile centrale. Con lui c’erano Marco e “’o duttor”. Più indietro si attardava Federico. Colajanni sorrideva a destra e a manca, stringendo le mani di altri colleghi che gareggiavano quasi per salutarlo. Il vestito color cachi faceva pandant con i mocassini testa di moro e la borsa di pelle marrone che stringeva sotto il braccio. Sulla camicia, rigorosamente bianca, risaltava una cravatta a fantasia, con pallini bianchi e blu, e dal taschino della giacca si intravedeva un fazzoletto di seta bianca. Imparai presto che quel fazzoletto si chiama “pochette”. Tra le labbra stringeva l’immancabile sigaretta, forse la prima della giornata. Appena mi vide, con la mano mi fece segno di seguirlo, mimando il gesto di bere; capii che intendeva portarmi al bar – Eduà, pigliamoci ‘o cafè – senza rendersene conto era passato al tu. Ne ebbi piacere, cominciavo ad ambientarmi. Il bar di fronte al Tribunale era affollatissimo di avvocati, di loro clienti e di testimoni. Tra un sorso e l’altro, nel marasma generale, si sentivano gli inciuci e i suggerimenti per le udienze che di lì a poco sarebbero iniziate. “Dite così…..anzi no, questo non lo dite……se vi chiedono dei soldi, rispondete che non li avete presi…..” quel posto sembrava un suk arabo – Eduà, le cause cominciano al bar – mi spiegò Colajanni, vedendomi spaesato in mezzo a quella confusione. Poi prendendomi sotto il braccio, mi indicò un collega – Vedi, quello è l’avvocato Morrone, è un caro amico mio. Tempo fa era alla ricerca di un praticante. Gli farò il tuo nome – Grazie, risposi io, un po’ dispiaciuto di non poter continuare il tirocinio con lui. Non appena uscimmo dal bar, Colajanni si mise all’opera – Marco, tu e Federico avviatevi da D’Onofrio. Manfredi, tu preoccupati di quelle copie in cancelleria. Eduardo viene con me da Cirillo per la prova testimoniale. Quando avrete finito, raggiungeteci – Avevo l’adrenalina a mille, e quel caffè non mi aveva di certo calmato.

Cirillo è nu scassacazz’ – disse l’avvocato, salendo le scale a passo svelto – i testimoni li intimorisce perché è sempre convinto che siano falsi. Qualche volta ha pure ragione. Però, dico io, a te che te ne fotte. Fai il tuo mestiere e lascia perdere! Eduà, tu non ti muovere da vicino a me e guarda attentamente quello che scrivo sul verbale. – Colajanni mi aveva impartito la sua prima lezione, e cioè che la procedura vera è molto diversa da quella studiata sui testi universitari – Capece Vincenzo e Capece Antonietta! – gridò l’avvocato Caliulo, facendosi largo nell’aula. Caliulo, bassino, col naso a patata e peloso, era il nostro avversario; i fratelli Capece, i suoi testimoni. I nostri erano stati già sentiti in una precedente udienza – Capece Vincenzo e Capece Antonietta! – continuava Caliulo – Alfrè, ma sti testimoni li hai citati o no? – chiese Colajanni – Mimì, per la verità no. Però mi avevano assicurato che sarebbero venuti – rispose il collega. Alle 10,30 i fratelli Capece non erano ancora comparsi. A quel punto, Colajanni concordò con il suo avversario un rinvio per la prosecuzione della prova testi – Avvocato – dissi io, richiamandolo in un angolo – ma se il collega i testimoni non li ha citati per l’udienza, perché non ha fatto rilevare al giudice istruttore l’omessa notifica per ottenere la decadenza dell’avversario dalla prova testimoniale? – La mia osservazione era tecnicamente ineccepibile, ma, da praticante inesperto, ignoravo che potessero esistere anche altre norme, come dire: di buon vicinato, oltre a quelle codificate – Vedi, Eduardo – mi spiegò Colajanni – tu dici una cosa giusta, anzi sacrosanta, in punta di diritto. Ma devi capire che con i colleghi, specialmente con quelli amici, non è corretto sollevare eccezioni come questa. A tutti può capitare di dimenticare un adempimento, no? Oggi è toccato al collega Caliulo, domani potrebbe toccare a me. Ricordati che i clienti passano ma i colleghi restano – In meno di un’ora, Colajanni mi aveva già impartito due lezioni di vita forense sconosciute a qualunque autore giuridico: le cause iniziano al bar, la prima; non è corretto approfittare di un collega in difficoltà, la seconda. Il suo ascendente su di me si era di colpo decuplicato. La causa fu rinviata ad una successiva udienza e l’avvocato Caliulo abbracciò “Mimì” in segno di gratitudine, invitandolo a prendere un caffè. E siamo a due – Eduà, vieni pure tu – disse Colajanni – Alfrè, però stavolta pago io – aggiunse, rivolgendosi a Caliulo – A proposito, voglio presentarti il giovane collega Scalera, Eduardo Scalera. Vedrai che tra un po’ ne sentiremo parlare: è uno fino fino – disse, segnandosi la guancia con il pollice – pensa che prima, in udienza, voleva farti decadere dalla prova perché non avevi citato i testimoni – Caliulo sorrise – Scalera, mm, ma sei per caso parente del dott. Scalera, il cardiologo che sta a Fuorigrotta? – mi chiese. Avrei voluto dirgli di sì, ma poi – No, non lo conosco – Scusatemi – intervenne Colajanni – Eduà, c’è il collega Morrone, vieni che gli chiediamo quella cosa – Mariooo! – gridò l’avvocato, alzando il braccio – non te ne andare, devo parlarti. – Raggiuntolo, prima lo abbracciò, poi fece le presentazioni – Mario, lui è il giovane collega Scalera. E’ venuto ieri al mio studio per iniziare il praticantato, ma io non ho molto spazio e allora… se tu potessi……sai è molto preparato, non per dire, ma è un ragazzo in gamba – Non lo metto in dubbio – disse l’avvocato Morrone – del resto, per stare da te non può che essere così. Ma vedi, Mimì, sto traslocando e al nuovo studio dovrebbe venire la figlia del notaio Cicalese, glielo avevo promesso. E poi Gianni e Stefania stanno ancora con me; quei due dicono sempre che se ne vanno e non se ne vanno mai. Mi dispiace tanto. Ma, se non ricordo male, Guido è alla ricerca di un collaboratore – Chi, Guido Caracciolo? – domandò Colajanni – Sì, lui – rispose Morrone – Non sia mai! Se lo mandiamo da quell’azzeccagarbugli non imparerà neppure a scrivere una lettera. No, non se ne parla proprio. Senti a me, Eduà, mò vedo io come risolvere la questione. Vorrà dire che ci stringiamo, e un posto per te lo facciamo uscire lo stesso – In quel momento avrei voluto afferrargli la testa e dargli un bacio in fronte, ma mi uscì solo un timido e commosso – Grazie di cuore, avvocato – Meglio così – concluse Morrone – a proposito – domandò – il caffè lo avete già preso? – Sì, grazie – dissi io, pensando di rispondere anche per conto di Colajanni. Ma lui, nel frattempo, aveva già messo il braccio sulla spalla del collega, e con l’altra mano mi fece segno di seguirlo. I caffè erano già arrivati a tre e la mattinata non volgeva ancora al termine. Alla mezza, dopo aver simulato di bere una quinta tazzina, tornai a casa elettrizzato – Eduà, ma che c’hai la febbre? – chiese mia madre vedendomi così stravolto – No mammà, è solo felicità – le dissi, digrignando i denti.

IL MATRIMONIO DI FEDERICO

  

Caldo asfissiante. Afa. Alle quattro di pomeriggio, con 36 gradi all’ombra, arrivammo a via Cilea, sotto casa di Federico. Le lamiere dell’Alfa Romeo di Colajanni erano diventate roventi come quelle di una padella, e i sedili in pelle una vera tortura per i nostri corpi già martoriati dagli abiti della cerimonia. Colajanni indossava un fresco lana blu scuro su una camicia rigorosamente bianca. La cravatta a pois era in tinta con l’enorme pochette che gli usciva dal taschino, e ai piedi calzava i soliti mocassini neri. Lucidissimi. All’ultimo momento l’avvocato dovette rinunciare al panama perché in un gesto di stizza lo aveva lanciato fuori dal finestrino dopo essersi accorto di aver sbagliato strada mannaggiamòrt. Giulia, liberatasi della divisa di ordinanza – scarpette da tennis, jeans a zampa di elefante, maglietta stropicciata e capelli arruffati – aveva ritrovato l’eleganza dei primi tempi. Per la serata aveva scelto un tubino rosso scuro con una stola color panna. In macchina aveva tolto i sandali. Cercava disperatamente di refrigerarsi con un ventaglio di seta che si era premurata di mettere nella borsetta prima di scendere. Non appena arrivammo in prossimità del palazzo, Colajanni indicò una cabina telefonica.

– Eccola –  Cosa? – La cabina telefonica. E’ da quella cabina che Federico ci annuncia i suoi disastri – Giulia scoppiò a ridere – Quali disastri, pà?  – I peggiori – disse l’avvocato, accendendosi la sigaretta, mentre con l’altra mano si passava il fazzoletto sulla fronte. – Poverino, non lo hai mai sopportato – Giulia non riusciva a comprendere l’avversione di suo padre per quello sciagurato di Federico. Era convinta che la sua fosse pura antipatia e che l’attività di studio, quella strana goffaggine, gli errori ripetuti e ripetuti ancora, la negligenza e a volte la strafottenza non c’entrassero nulla con le liti continue: Federì, hai capito o no? Federì, che cumbin? Federì, ho detto ricorso non atto di citazione. Federì, hai dimenticato ‘a borsa nata vota in tribunale? Eccheccazz!

– Vedi, Giulia – disse l’avvocato – Federico per me è una persona di famiglia. L’ho accolto nello studio come un figlio. Non è vero, Eduà? Ma se devo dirla tutta, la sua ostinazione per la professione mi ha sempre fatto incazzare. Glielo dico dal primo giorno: Federì, fai un concorso. Chiedi a tuo zio se ti prendono alla Sip. Niente da fare. Deve ringraziare il suocero che gli passa quelle quattro pratiche dell’Inps, se no, a quest’ora, stava fresco. – Sarà – disse Giulia – ma con lui sei troppo severo. Dovresti dargli più tempo, nessuno nasce avvocato –

Riuscimmo a parcheggiare proprio vicino al portone, tra un cassonetto straripante di rifiuti e il furgoncino di un fruttivendolo, e salimmo in fretta per consegnare i regali prima che lo sposo si avviasse in chiesa. Colajanni gli aveva comprato un orologio svizzero, completamente d’oro, con i numeri romani. Io dei gemelli ed un fermacravatta. Federico, sarà stata l’emozione o forse il caldo, ci venne incontro più rincoglionito del solito e sudato come un parcheggiatore abusivo sotto il sole di ferragosto. Tanto che Colajanni, dopo avergli fatto gli auguri, si strofinò il fazzoletto sul viso, manco avesse baciato una puzzola. Con molta fatica scartò i regali ricevuti, e visibilmente  commosso ci ringraziò con un altro bacio. Colajanni però stavolta riuscì a schivarlo.

– Forza forza, avviamoci che è tardi – disse l’avvocato, guadagnando l’uscita. Montammo di corsa in macchina e sfrecciammo verso S. Antonio a Posillipo dove di lì a poco si sarebbe tenuta la funzione. Mimmo grondava di sudore e suonava il clacson all’impazzata come se stesse correndo in ospedale con un ferito a bordo. Nonostante i lavori in corso per il rifacimento dell’ultimo tratto della carreggiata di via Orazio, arrivammo sulla collinetta di Posillipo in perfetto orario. Lasciammo le chiavi a un tizio col cappellino da marinaio che tutti chiamavano ‘o barone, e ci avviammo verso la chiesa. Io e Giulia avanti, Colajanni un paio di metri dietro di noi. C’erano molte auto in sosta e la piazzetta era quasi piena.

L’avvocato preferì rimanere all’esterno. Attese la fine della messa appoggiato alla ringhiera della piazzetta fumando come un forsennato. Di tanto in tanto si avvicinava al sagrato per controllare a che punto fosse la cerimonia. Io e Giulia invece dovemmo soffrire stoicamente tra i primi banchi del santuario assieme agli altri invitati assiepati fino all’ingresso. Benedizione. Campane. Amen. Foto. Quando finalmente gli sposi uscirono, fu una liberazione per tutti. Colajanni si rimise immediatamente alla guida della sua Giulietta e, prima ancora che io e Giulia ci sistemassimo nell’abitacolo e chiudessimo per bene gli sportelli, sgommò verso il ristorante. Il peggio era passato.

Da Ciro a Marechiaro l’aria profumava di polpi all’insalata e di fritto di paranza. Il tavolo che ci avevano assegnato era nell’angolino più suggestivo della terrazza. Il tramonto ci sorprese all’improvviso – Finalmente respiriamo – disse Giulia, aggiustandosi i capelli con un fermaglio di madreperla. La brezza piano piano si fece vento e gli ombrelloni sull’estremità della terrazza cominciarono ad ondeggiare.

Un’orchestrina prese a suonare uno vecchio swing americano e la terrazza di colpo si trasformò in una pista da ballo. Alla batteria riconobbi Marcello Calopresti, un vecchio compagno di università che non vedevo da anni. Federico conosceva Marcello? Forse era solo un caso. Suonavano pezzi americani molto ritmati, “sincopati” diceva l’avvocato. Poi passarono ai classici napoletani, sempre con arrangiamenti americani. Quando sulle note di “Voce e notte” l’avvocato scoppiò a piangere, non riuscii a trattenere il mio stupore: Colajanni aveva un animo sensibile e io non me ne ero mai accorto. Giulia lo guardò con tenerezza. Con la mano gli accarezzò la fronte. Li osservai in silenzio, rapito da quella scena così commovente ed insolita per due persone come loro, decisamente poco inclini al sentimentalismo. Giulia meno di lui. Eppure. Quella canzone doveva significare sicuramente qualcosa per entrambi. Giulia più tardi mi spiegò che era la stessa che aveva fatto innamorare i suoi genitori. Di fronte al ricordo della moglie, scomparsa prematuramente proprio nel dare alla luce la loro unica figlia, Colajanni non ce la fece a mascherare il suo stato d’animo e si lasciò andare ad uno straziante sfogo emotivo, suscitando la curiosità degli invitati più vicini al nostro tavolo. Lui non se ne curò e si abbandonò fino in fondo al doloroso ricordo, accompagnando le note con un leggero gesto della mano. Poi, rialzando il capo e incrociando il mio sguardo affettuoso, accennò un sorriso, amaro e stentato. Solo un’infelice incursione di Federico poteva spezzare quel malinconico incanto, quell’atmosfera così struggente e beffarda. Difatti, proprio in quell’istante, il giovane sposo, contro ogni benevolo senso dell’opportunismo, si materializzò al nostro tavolo, e vedendo Colajanni in quello stato, con gli occhi rossi di pianto, esclamò ad alta voce – Avvocà, ch’è successo? Non vi sentite bene? Chiamo qualcuno? – Colajanni girò il collo strangolato dalla cravatta di Marinella, e con la coda dell’occhio gli fece capire che era tutto a posto. Poi, con la mano gli fece segno di andare. Dove, lo intuimmo solo io e Giulia.

IL TESTAMENTO DI COLAJANNI

La morte dell’avvocato Colajanni era costata 24 milioni di lire, tutti in banconote da centomila. Quando Davide Maestrelli – questo era il nome del killer – venne fermato dai carabinieri ad un posto di blocco nei pressi di Gioia Tauro, la borsa era ancora sul sedile anteriore. Maestrelli non oppose resistenza, ma confessò l’omicidio solo dopo un lungo e tormentato interrogatorio. In un primo momento, l’assassino riferì di non conoscere l’avvocato. Disse di avergli soltanto rubato l’auto, all’interno della quale aveva poi trovato, per puro caso, la borsa con il denaro. Una versione debole,   poco verosimile. Nonostante tutto però Maestrelli riuscì ad evitare l’ergastolo. Abbandonò definitivamente il carcere di Opera nel novembre del 1999. Oggi credo lavori in una comunità di tossicodipendenti in provincia di Pisa. Agli inquirenti raccontò che fu contattato dall’avvocato tramite un suo cliente, tale Antonio Santomauro – il cui nome, per la verità, non mi dice nulla – e che Colajanni dovette faticare parecchio per convincerlo ad eseguire quell’incarico così speciale. Raccontò pure che la somma richiesta all’avvocato era di gran lunga inferiore a quella contenuta nella borsa: circa la metà. Colajanni dovette insistere affinché accettasse il doppio, perché la sua vita – avrebbe detto nel corso della trattativa – valeva molto di più dei quindici milioni di cui Maestrelli si sarebbe accontentato. In realtà Mimmo avrebbe preferito spararsi da solo. Ci provò una sera che eravamo andati tutti via dallo studio. Dopo aver fumato tre o quattro sigarette, si scolò un’intera bottiglia di Vodka. Tirò fuori dalla borsa la rivoltella che gli aveva procurato un suo vecchio conoscente, Gennaro Caravano – detto “pachialone” – se la puntò alla tempia, chiuse gli occhi, e premette il grilletto. Pensò di essere già morto quando si accorse che la sicura si era bloccata misteriosamente, impedendo così all’unico proiettile inserito nel caricatore di uscire dalla canna. Da allora non volle più riprovarci.

La sua uscita di scena l’avvocato volle curarla nei minimi dettagli. Intendo dire che non si limitò soltanto a scegliersi l’assassino e a pattuire con lui il prezzo del delitto, ma si premurò anche di programmare il futuro del suo studio legale attraverso una lunga lettera testamento che redasse in duplice copia. Una ce la fece trovare nel primo cassetto della scrivania, l’altra la consegnò al notaio Carmando di Torre Annunziata. Quella lettera, scritta di suo pugno e su carta intestata, era un vero  capolavoro letterario, a metà strada tra una memoria difensiva e una sceneggiatura teatrale. Nessun altro documento, neppure fotografico, ha raccontato la personalità e la natura più intima di Mimmo Colajanni meglio di quelle poche righe. Per prima cosa, l’avvocato volle spiegare le ragioni del suo gesto, che a suo dire fu dettato dall’insostenibilità di una vita “troncata nella sua parte essenziale”, quella per cui diceva di essersi sempre battuto: ottenere la stima di chi lo aveva conosciuto e frequentato. La seconda parte del testo l’avvocato la dedicò invece ad ognuno dei suoi colleghi di studio. Tutti, compreso Brunella, l’ultima arrivata. Una sorta di pagellino nel quale si divertì a tracciare il profilo umano e professionale di ciascuno, evidenziando pregi e difetti come farebbe un maestro elementare con i suoi alunni. In cima a quell’elenco l’avvocato scrisse il nome della segretaria: Irene Monterisi. Mimmo la definì “una collaboratrice straordinaria, perno insostituibile dello studio e sua memoria storica. Confidente insuperabile e lavoratrice instancabile”. L’aveva conosciuta a Sorrento, nello studio del collega Pippo Marano. Mimmo rimase colpito dalla velocità con la quale quella ragazza magrolina e dalle mani affusolate riusciva a scrivere sotto dettatura, sia a macchina che a mano. E dai modi gentili che adoperava per ricevere ed intrattenere i clienti. Irene parlava correntemente l’inglese ed il francese, e se la cavava pure con il tedesco, essendo di madre berlinese. Dopo aver terminato le magistrali si iscrisse all’università. Ma alla fine del primo anno fu costretta ad abbandonare gli studi per mantenere i suoi fratelli, rimasti come lei orfani di entrambi i genitori. Per convincerla a lavorare nel suo studio, Mimmo le promise il triplo dello stipendio che le pagava l’avvocato Marano. In più, si offrì di pagare personalmente le spese mediche per le cure del fratello più piccolo, affetto da una malattia rara e poco conosciuta. Attenzioni che Irene meritò pienamente per le eccellenti doti organizzative che fecero di lei il vero dominus dello studio. Più che una segretaria, Irene era un avvocato aggiunto; aveva maturato un tale esperienza sul campo che, se solo avesse voluto, sarebbe stata in grado di gestire una causa da sola, dall’inizio alla fine, e di andare in aula a patrocinare. Nessuno se ne sarebbe accorto che non aveva studiato la legge.

Ben diverso fu il capitolo dedicato a Federico. Mimmo ne parlò come di “un ragazzo generoso e sensibile, prestato all’avvocatura (proprio così), ma sempre disponibile con chiunque avesse bisogno”. Federico era tra virgolette capitato nel suo studio per una promessa che l’avvocato aveva fatto a suo padre, Attilio, caro amico di infanzia e mancato collega. Più che l’adempimento di una promessa, l’assunzione di Federico Mimmo la definì un dovere morale. Dovere che però gli costò parecchio in termini di salute e di denaro. Lo stress nervoso che Mimmo accumulò per le sua bizzarra interpretazione della professione lo portò più di una volta a sfiorare l’infarto. Per colpa di Federico l’avvocato perse almeno tre cause facili facili, e fu costretto a risarcire di tasca sua numerosi clienti malcapitati. Effettivamente Gustavo, Maria, Federico De Cleva, fin dagli esordi, manifestò una scarsa inclinazione per la professione forense. E la sua sbadataggine in alcuni momenti rasentava la disabilità. Il lato forte del suo carattere era sicuramente la simpatia ed un innato senso dell’umorismo. Istintivo direi. Federico era capace di farti ridere nei momenti più impensabili anche con un semplice gesto, con la sola mimica facciale. Quando grazie ai suoi buoni uffici perdemmo la causa con una nota multinazionale americana, lui disse che lo aveva fatto apposta per non incrinare il patto atlantico. Solo una volta l’avvocato fu sul punto di mandarlo via sul serio, il giorno in cui smarrì un pacco di cambiali che lui raccontò di aver utilizzato come fiches per giocare a poker con gli amici.

Federico è stato per me come un fratello. Io e lui, insieme, abbiamo girato mezzo mondo divertendoci come matti. Non ci crederete ma una volta in Africa, nell’estate del ’70, Federico mi salvò la vita. Davvero. Capitò durante un safari. Avevamo perso le coordinate del gruppo; cominciammo allora a seguire un sentiero che ci era stato indicato da un abitante del posto. Ad un tratto, mentre mie ero accovacciato per prendere una mappa dallo zaino, sentii alle mie spalle Federico fare un balzo. Mi voltai pensando che fosse inciampato o che volesse farmi uno dei suoi scherzi. Invece no: si era avventato su un pitone che stava per afferrarmi la caviglia. Estrassi  immediatamente il coltello che mi ero portato dietro e glielo conficcai sulla testa. Al pitone. Dopo quella disavventura, la sera, al villaggio, gli organizzatori del safari ci festeggiarono come degli eroi e ci regalarono una nuova vacanza. Di quel pitone e della sua uccisione alla maniera di Indiana Jones ne parlarono tutti i giornali, anche qui in Italia. Federico fu addirittura ospitato in uno show televisivo e intervistato da un noto documentarista. Conservo ancora nel mio salotto la pelle viscida di quella bestia. Cinque anni dopo volli ricompensare Federico per il suo gesto eroico. Decisi di aiutarlo a ricomprare l’appartamento di via Foria che aveva perso in una sciagurata partita a poker, al casinò di Venezia. Una serata terribile. Con una misera doppia coppia di 10 il mio amico ebbe la brillante idea di aggiungere al piatto altri due milioni e mezzo di lire. Quando gli avversari scoprirono le carte, Fede rischiò il coma.

Brunella era stata una studentessa modello. Si era laureata a pieni voti, in tre anni e una sessione, con una tesi sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio ( il divorzio). Mimmo nel suo pagellino la definì “degna di cotanto padre – Guido Masturso era stato presidente della Corte d’Appello di Firenze e autore di diverse pubblicazioni – e dotata di grande versatilità”. Indossava solo vestiti scuri, giacca e pantalone. Dava del lei a tutti e non amava intrattenersi a lungo con i colleghi. Anche perché il fidanzato, Gianluca, era gelosissimo. L’accompagnava tutte le mattine in studio e tornava a prenderla la sera, dopo le otto. Una volta Gianluca vide Brunella prendere un caffè con Federico, giù al bar di Tonino. Scherzavano. Federico, come al solito, faceva le imitazioni dei colleghi di studio. Gianluca attese che i due uscissero dal bar, e dopo aver allontanato la fidanzata con il braccio, sferrò un montante al viso di Fede stendendolo al suolo come una pera cotta. Da allora Federico evitò qualunque forma di contatto con Brunella. Anche in Tribunale. Anzi, ogni volta che lei gli si avvicinava, scappava con una scusa qualunque.

Per Giulia, “la figlia perduta”, Mimmo scrisse solo un mestissimo “omissis”.

Al sottoscritto, “il figlio maschio che non aveva mai avuto”, l’avvocato dedicò un profluvio di parole struggenti. Tra me e Mimmo c’era sicuramente un affetto speciale. Mimmo segui con molta dedizione il mio praticantato. E non solo quello. Era attento ad ogni dettaglio, anche nell’abbigliamento. Mi dava continuamente delle dritte sulla scelta delle giacche e delle cravatte. Mi voleva uguale a lui, e un po’ ci riuscì. Amava scherzare e divertirsi, ma sul lavoro era intransigente. Molto. I primi mesi allo studio urlava in continuazione. Non ammetteva nessun errore. Tutto quello ho imparato lo devo a lui. Anzi, se devo dirla tutta, Mimmo mi ha insegnato anche quello che non ho mai saputo o capito della mia professione. La prima volta che andai in udienza da solo gli riferii che non seppi replicare a un’osservazione del giudice. Lui non trattenne la rabbia – Come sarebbe non hai detto niente? Un avvocato sa sempre cosa dire. Dovevi inventarti una cazzata qualunque. – Ecco, questo era Domenico Colajanni.

Un’ultima annotazione Mimmo volle riservarla agli altri colleghi del Foro di Napoli, a cominciare dal presidente dell’Ordine, Piero Corradi. – Caro Piero – questo l’incipit – è da molto tempo che volevo dirtelo: come avvocato non vali un cazzo, ma come uomo sei anche peggio. – Particolarmente significativo l’ultimo rigo – Vi diffido dal prendere in considerazione qualunque forma di commemorazione pubblica in mio onore all’interno del Palazzo di Giustizia. –

Così parlò il defunto Colajanni.

UN TRAGICO APPUNTAMENTO

– Leggi – Mimmo aveva appena ricevuto una raccomandata inviatagli dal presidente della Banca Mediterranea, uno dei clienti più prestigiosi dello studio. Il testo ricalcava quello di decine di altre missive inviate in quei giorni da altri clienti: “Egregi Avv.ti Domenico Colajanni e Eduardo Scalera, bla bla bla, con la presente vi revoco i mandati conferitivi in relazione alle cause in oggetto. Vi invito a comunicarmi le vostre parcelle per le competenze professionali fino ad oggi maturate. Cordiali saluti – dott. Alfredo Persico.” Poche parole per riassumere l’improvvisa sfiducia, la paura forse, di essere rappresentati e difesi da due avvocati in qualche modo legati alle Brigate rosse. Quando Mimmo mi consegnò quella lettera, prima ancora di leggerla ne intuii il contenuto – Eduà, hai fatto un pessimo affare a metterti con me. Mi dispiace, figlio mio, e me ne vergogno – L’avvocato aveva gli occhi lucidi. Si era tolto gli occhiali e, come era solito fare nei momenti di peggiore scoramento, si era portato le mani sul viso in segno di riflessione – Passerà, Mimmo – gli dissi – Non ti abbattere. Non hai nulla di cui vergognarti. Lavorare con te è un privilegio. Io ne vado fiero –  Mimmo scoppiò a piangere. Mi alzai per chiudere la porta della stanza e isolarlo dal resto dello studio. Non volevo che Federico, Brunella e Irene lo vedessero in quello stato di prostrazione – Vogliono la parcella? Ebbene gliene presenteremo una con i controfiocchi, e senza nessuno sconto. – Dissi, per allentare la tensione.

Il giorno seguente, mentre ero in riunione con i colleghi Maffei e Deledda per la causa di divorzio di una mia lontana parente, vidi passare nel corridoio un tizio con i capelli lunghi e dei grossi occhiali da sole; indossava un giubbotto di pelle nera e dei jeans attillati. Lo avevo già notato altre volte, almeno due, sempre allo studio, ma senza farci troppo caso. Questa volta, però, a destare la mia attenzione fu la raccomandazione che Mimmo, subito dopo la sua uscita, fece ad Irene – Chiama il dott. Calise, il sig. Costabile e l’Ing. Manfredini – le disse – e informali che l’appuntamento di venerdì pomeriggio deve essere rimandato. Mi tratterrò in studio solo pochi minuti, poi andrò via – La disposizione di Mimmo mi incuriosì molto anche perché all’incontro con l’Ing. Manfredini, fissato in agenda già da parecchio tempo, l’avvocato ci teneva particolarmente. L’ingegnere, infatti, doveva stipulare un contratto di fornitura per parecchie decine di milioni di lire con una nota azienda alimentare  e avviare una collaborazione che poteva rivelarsi molto proficua. Per quale motivo, mi chiedevo, Mimmo aveva deciso di rinviare quell’appuntamento così importante e, visti i tempi, anche decisivo per le sorti dello studio? Cosa aveva di più importante da fare della stipula di quel contratto? E perché quella decisione così repentina fu comunicata a Irene proprio quando quello strano tipo era uscito dalla sua stanza? Non approfondii la questione né chiesi spiegazioni, anche perché la riunione assorbì tutto il mio tempo fino a tarda sera. Ma quel venerdì volli vederci chiaro. Attesi l’avvocato allo studio anticipando il mio arrivo alle tre del pomeriggio. Mimmo invece si presentò più tardi del solito, dopo le cinque. Aveva con se’ una borsa nera. Fece un paio di telefonate, poi rimase dietro la scrivania a rovistare nei cassetti, alla ricerca di chissà che cosa. Circa venti minuti dopo, uscì dalla stanza, sempre con la stessa borsa. Passando davanti alla mia camera, dal corridoio incrociò il mio sguardo. Mi salutò con la mano. Era scuro in volto e stranamente taciturno. Anche al telefono aveva parlato a bassa voce, fatto insolito per uno come lui abituato ad urlare. Decisi di seguirlo. Uscito dal portone, l’avvocato si avviò all’autorimessa dietro al palazzo; si fece consegnare le chiavi della sua auto da Umberto, il garagista, e montò in macchina. Aspettai che uscisse dall’ingresso principale e feci lo stesso percorso anch’io. Dopo aver attraversato il Rettifilo, lo vidi imboccare l’autostrada, in direzione Salerno. Lo seguii a debita distanza, cercando ovviamente di non perderlo di vista. Al primo autogrill Mimmo azionò la freccia e deviò. Parcheggiò l’auto oltre i bagni pubblici, ma non uscì dall’abitacolo. Rimase lì oltre dieci minuti. Starà aspettando una donna, pensai. Strano, Mimmo non avrebbe mai fissato un appuntamento galante su una piazzola dell’autostrada. Le donne di Mimmo si facevano attendere negli hotel a cinque stelle, altro che autogrill. No, non poteva essere. La faccenda era più complicata. Mentre mi arrovellavo la mente con tutte le ipotesi possibili, si avvicinò alla sua auto un uomo. Mi spostai per vedere meglio; era lo stesso tizio che avevo incrociato allo studio qualche giorno prima. Indossava lo stesso giubbotto di pelle nera e portava gli stessi occhiali scuri. Sì, era proprio lui. Dopo aver parlato con Mimmo attraverso il finestrino, fece il giro dell’auto, aprì la portiera destra e salì a bordo. Mimmo mise in moto e proseguì il suo viaggio misterioso. Continuai a seguirlo avendo la conferma che stesse per accadere qualcosa di strano da un particolare apparentemente insignificante. Insignificante per chi non ha mai conosciuto l’avvocato Colajanni. Passando davanti al bar dell’autogrill, Mimmo non sentì il bisogno di bere un caffè con il suo passeggero. Non mi sembrava vero. Imboccarono la Salerno-Reggio Calabria e l’abbandonarono all’uscita di Eboli. Poi seguirono la via del mare. Mimmo svoltò per una stradina che conduceva alla foce del Sele; era un sentiero tortuoso e polveroso. In prossimità dell’estuario, l’auto finalmente si fermò. Erano le otto passate, cominciava a fare buio. Arrestai la mia auto dietro una siepe, a circa trenta metri da quella dell’avvocato, e attesi. Mimmo e quel tizio rimasero dentro per diversi minuti. Ma cosa ci sarà venuto a fare l’avvocato in questo posto così isolato, e in compagnia di quello sconosciuto, mi chiedevo con insistenza. Vuoi vedere che quel tizio è un amico di Giulia? Magari è anche lui coinvolto nell’attentato al giudice Morabito. Cercavo delle spiegazioni plausibili a quell’appuntamento così enigmatico. Ad un tratto, vidi Mimmo aprire lo sportello ed uscire dall’auto. Camminava lentamente verso il mare, con la testa abbassata. Subito dopo, l’altro si spostò sul sedile di guida. Mise in moto e fece inversione. Poi tese il braccio fuori dal finestrino impugnando una pistola. La puntò verso la schiena dell’avvocato e sparò due colpi da una distanza ravvicinata. No! Ebbi un soprassalto – No! – Gridai a squarciagola. Mimmo si accasciò sulla sabbia, mentre il suo carnefice ripartì a tutta velocità. Quella scena agghiacciante mi tolse il fiato. Provai ad aprire lo sportello della mia auto per raggiungerlo. Era bloccato. Ci riuscii al terzo tentativo. Cominciai a correre verso Mimmo, ma le mie gambe erano paralizzate. Inciampai nella sabbia più volte, persi una scarpa. Piansi. Raggiunsi il suo corpo trafitto, lo girai dall’altra parte. Aveva gli occhi sbarrati, e dalla bocca socchiusa gli usciva un filo di sangue – Mimmo! – Gridai – Mimmo! – Mi guardai intorno cercando aiuto, ma quel posto era completamente deserto e buio. Trascinai il corpo fino alla macchina. Lo stesi sul sedile posteriore e corsi verso l’ospedale più vicino. Mentre guidavo, lo chiamavo ad alta voce sperando che fosse ancora vivo. Ero disperato. Mantenevo il volante con la mano sinistra mentre con la destra suonavo ininterrottamente il clacson. Imboccai la statale facendo tre quarti del tragitto nella corsia contraria. Dopo alcuni chilometri fui affiancato da un’auto della polizia. Dal finestrino mi presentai all’agente che con la paletta mi faceva segno di accostare. Gli dissi che era un caso urgente. Capirono e mi fecero strada a sirene spiegate fino all’ospedale di Eboli. Mimmo continuava a perdere sangue. Il suo corpo, nel frattempo, a seguito delle brusche frenate, era caduto dal sedile. Aveva un braccio infilato tra i due sediolini anteriori. Vedevo la manica della giacca sporca di sabbia penzolare sul freno a mano e ritrarsi ad ogni frenata. Al pronto soccorso, il medico di turno non poté che constatare il decesso; uno dei due proiettili gli aveva trafitto il cuore. L’avvocato era morto sul colpo.

– Chi è questo signore? – Chiese il medico – L’avvocato Domenico Colajanni. E io sono il suo collega di studio, Eduardo Scalera – dissi, in presenza dei due agenti che mi avevano scortato. Estrassero i documenti dal portafogli che Mimmo aveva nella tasca interna della giacca e redassero un breve rapporto. Subito dopo, uno degli agenti mi invitò a salire sulla loro auto e mi condussero in caserma. Era notte fonda. Attesi l’arrivo del commissario in una saletta, piantonato da altri tre poliziotti. Mi girava la testa e avevo dei crampi allo stomaco fortissimi. Mi veniva da vomitare.

La notizia dell’uccisione di Mimmo, intanto, cominciava a circolare anche sui media. Da una stanza vicina sentii che la stavano dando al tg nazionale. Riferivano di una morte avvenuta in “circostanze misteriose” e che io, “un suo collega di studio”, risultavo l’unico sospettato. Io? Dal rumore di una sirena, intuii che il commissario era appena arrivato. Lo vidi mentre attraversava il corridoio a passo spedito, accompagnato da un altro agente. Mi condussero da lui solo dopo una decina di minuti. Era piuttosto alto, corpulento, con pochi capelli. Indossava una giacca a vento scura su un pantalone di velluto a coste. – Commissario Basile, si accomodi.  Eduardo Scalera, nato a Napoli l’8 novembre del 1941, domiciliato a Napoli in via Filangieri n. 21. Dico bene? – Sì, è esatto – dissi –  Avvocato, lei esercita la professione nello studio legale Colajanni. E’ così? – dice bene – risposi, mentre un suo collega annotava tutto con un’Olivetti 22 mezza scassata – Allora, ricapitoliamo. Due nostri agenti affiancano la sua vettura che procede ad altissima velocità sulla S.S. 18 con a bordo il cadavere dell’avvocato Colajanni, e la scortano fino all’ospedale di Eboli dove viene accertato il decesso, avvenuto per due colpi d’arma da fuoco – la sintesi di Basile lasciava intendere che la mia posizione destava più di qualche sospetto – Può spiegarci, avvocato, cosa ci faceva quel cadavere nella sua auto? Come ci è finito, e perché lei si trovava in quella zona? – Le domande del commissario erano più che pertinenti. Raccontai nei minimi particolari lo svolgimento di quella giornata terribile, senza trascurare però l’antefatto della vicenda di Giulia che, a quel punto, mi sembrò decisivo per la tragica fine di Mimmo – Veda, commissario, Giulia Colajanni, la terrorista indagata per l’attentato al giudice Morabito, è la figlia di Domenico Colajanni. Negli ultimi tempi la vita di Mimmo era diventata un inferno. – Capisco.  Lei dunque ritiene che quel tizio fosse un killer ingaggiato dal suo collega allo scopo di farsi ammazzare? – Chiese il commissario dopo la mia dettagliata ricostruzione dei fatti – Credo di sì. L’ho capito quando ho visto l’avvocato scendere dalla sua auto ed incamminarsi verso il mare: si stava preparando alla sua esecuzione. E poi la borsa; sono sicuro che contenesse il prezzo di quell’omicidio – dissi – Foti, avete segnalato la targa dell’auto dell’avvocato Colajanni alle altre pattuglie della stradale? – Sì, lo abbiamo già fatto dall’ospedale – rispose un agente – Avvocato Scalera, lei sa che se questa sua versione non dovesse trovare dei riscontri nel giro di poche ore, io sono tenuto ad arrestarla – Conosco il mio mestiere, commissario –  dissi. Basile abbassò la testa e con le dita della mano cominciò a tamburellare sulla scrivania alla ricerca di una soluzione che fosse la più equa possibile. Sbuffò. Poi concluse – Intanto debbo trattenerla in caserma. Ma se entro le prossime ore non dovessero saltare fuori delle novità rilevanti – Faccia tutto quello che ritiene di dover fare, commissario. – Lo interruppi, mentre con imbarazzo mi preannunciava l’imminenza di un  provvedimento restrittivo. Mi ricondussero nella saletta di prima, e mi fecero piantonare da due agenti. Rimasi lì tutta la notte, la peggiore della mia vita, seduto su una poltroncina di vimini, nella speranza che ritrovassero da qualche parte l’assassino di Mimmo. Il tic tac di un orologio a muro scandiva il tempo che mi separava dalle manette e dal carcere. Ancora poche ore e sarei finito sotto accusa per l’omicidio di Domenico Colajanni. Pazzesco. Mi sembrava di vivere un incubo. Prima la storia di Giulia, poi la tragica uccisione di Mimmo. E per finire il mio arresto. Una maledizione infinita. Cominciai a fare degli strani pensieri, a riconsiderare dei brutti sogni che avevo fatto un paio di mesi prima. Pensai che quell’assurda vicenda, in qualche modo, fosse stata già scritta. Ero stanchissimo, non avevo chiuso occhio per tutta la notte e l’ultima cosa che mi era capitato di masticare nelle precedenti ventiquattro ore era stato un tramezzino al prosciutto comprato giù allo studio, nel bar di Tonino. Alle prime luci dell’alba ritornò in caserma il commissario Basile in compagnia dello stesso agente. Fui condotto nuovamente nella sua stanza – Avvocato, può andare – mi disse laconico. In quell’istante capii che avevano catturato il killer di Mimmo. Feci un respiro profondo. Strinsi la mano al commissario e lasciai la caserma da un ingresso secondario per evitare i giornalisti che nel frattempo si erano accalcati davanti al cancello. Sul piazzale trovai Federico. Aveva appreso la notizia della morte dell’avvocato dalla televisione ed era corso a Eboli con la sua spider rossa ancora senza assicurazione. Rimanemmo abbracciati per un po’ – Dimmi che non è vero. Sono sconvolto. Ma perché lo hanno ucciso? – disse con la voce rotta dal pianto – Come al solito non aveva capito un cazzo. – Dai Fede, torniamo a casa. Ti spiegherò tutto in macchina.

UN QUADRO DI VALORE

– Eduà, avviati in aula e comincia a scrivere il verbale. Io intanto aspetto i fratelli Cimmino giù all’ingresso. Mi raccomando, se dovessi incontrare il collega Barbato, digli di attendermi che tra un po’ cominciamo – Quella mattina Colajanni era arrivato in Tribunale stravolto, il suo garagista aveva chiuso l’autorimessa per lutto lasciando tutte le auto nel parcheggio con la saracinesca abbassata. L’avvocato fu costretto a chiamare un taxi e pagarlo profumatamente. Per non arrivare tardi in udienza, infatti, aveva supplicato l’autista di non curarsi della segnaletica stradale, semafori rossi compresi. Quando il tassista si fermò a Castel Capuano, il rumore della frenata si sentì fino a Poggioreale. Colajanni indossava un completo di lino bianco e una cravatta blu scuro. Dal taschino della giacca fuoriusciva una pochette in tinta che, a occhio, poteva avere le dimensioni di un asciugamano. Ai piedi calzava dei mocassini neri morbidissimi, senza calzini, e la sigaretta che portava tra i denti, per la tensione accumulata, aveva finito per stritolarla. Quel giorno, dal giudice Francavilla, si teneva la prova testimoniale della causa intentata dall’ing. Claudio Newak contro Renato Bagutta, il sarto ufficiale dello studio. Newak, a dispetto del cognome polacco, era napoletanissimo. Di mattina lavorava all’Italsider di Bagnoli e di pomeriggio si dedicava alla progettazione di prototipi da corsa che proponeva senza successo alle case automobilistiche di mezzo mondo. A Bagutta, l’ingegnere aveva commissionato delle giacche di seta; gli servivano, diceva, per le gare di ballo alle quali amava partecipare di tanto in tanto. Sì, perché Newak, se di giorno si mostrava sobrio e composto, in perfetta linea con i canoni estetici della sua professione, di notte invece si trasformava in un eccentrico e coloratissimo ballerino di salsa. Chi lo avrebbe mai detto. In cambio delle giacche, Bagutta dall’ingegnere non volle del denaro ma un quadro che aveva visto nel salotto di casa sua, a via Orazio. Si trattava di un olio su tela che riproduceva l’immagine di una nobildonna circondata da altre figure femminili, forse delle cortigiane. Newak accettò lo scambio senza eccepire alcunché. In più, si premurò lui stesso di trasferire il quadro da casa sua all’atelier di via Poerio.

Un anno dopo, per puro caso, l’ingegnere fu invitato ad un convegno sulla pittura italiana del ‘600, organizzato al Maschio Angioino da un noto critico d’arte di origini francesi con il patrocinio della Federico II. Newak prima di allora non aveva mai messo piede in un museo né a una mostra d’arte. Gli unici dipinti che l’ingegnere era in grado di attribuire con certezza al loro autore erano: “La Gioconda” e “L’ultima cena”. “La dama con l’ermellino”? Forse. Dopo essersi intrattenuto con alcuni amici all’ingresso del castello, Newak si diresse con Paola Mancini, la collega che lo aveva invitato, verso la sala grande dove era stata allestita l’esposizione. Finse di riconoscere alcuni dipinti annuendo col capo e sorseggiando il Martini con ghiaccio che gli avevano versato al buffet. Poi ad un tratto il suo sguardo si posò in basso, sulla parete di fianco all’ingresso. In una frazione di secondo il volto di Newak divenne bianco come il cardigan che indossava sotto la giacca, e il sangue cominciò a gelarsi nelle vene. Proprio lì, in quel breve tratto di muro, l’ingegnere riconobbe il quarto dei quattro quadri che aveva imparato a conoscere in tutta la sua vita. Fu colto da un lieve malore, tanto che Paola si allarmò e chiese aiuto – C’è un medico? Presto! – Nel frattempo la vista offuscata di Newak fluttuava tra le cornici e gli arazzi della sala. Le gambe cominciarono lentamente a cedere e il bicchiere col Martini cadde sul pavimento frantumandosi ai piedi di un visitatore giapponese, che non si accorse di nulla.    Paola pensò a un infarto, immaginando che la corsa fatta da lei e Claudio poco prima per prendere il taxi avesse compromesso le coronarie del collega al punto da stroncarlo definitivamente. Non poteva sapere, Paola, che la causa di quel mancamento era invece all’interno della sala. Lì, davanti ai suoi occhi. Non poteva sapere, Paola, che il dipinto che con tanta leggerezza Newak aveva ceduto a Bagutta in cambio di quelle giacche di seta non era, come lui credeva, una delle tante croste appese alle pareti del suo appartamento, ma un capolavoro di Luca Giordano di inestimabile valore. Una guida stava spiegando che il Giordano ne aveva realizzati due: uno era esposto al British Museum di Londra, l’altro non si sapeva che fine avesse fatto. Non appena rinvenne dallo svenimento, Newak realizzò il grave errore commesso e andò su tutte le furie. Pensò che Bagutta lo avesse truffato. In realtà a Bagutta, che di arte se ne intendeva ancora meno dell’ingegnere, quel dipinto era piaciuto per una sola ragione: era “a pittura” – una strana espressione gergale con la quale a Napoli viene qualificato un quadro di valore.

Nella causa intentata dall’ingegnere Newak Claudio, Colajanni difendeva il convenuto Bagutta Renato. Mimmo mi aveva concesso di affiancarlo nelle udienze della fase istruttoria perché mi facessi le ossa. Per dimostrare che dietro la richiesta del quadro da parte del suo assistito non si celava nessun intento fraudolento, l’avvocato aveva citato come (falsi) testimoni i fratelli Antonio e Salvatore Cimmino. I Cimmino raccontarono al giudice istruttore che in un primo momento la scelta di Bagutta era caduta su un quadro diverso da quello rivelatosi poi di Luca Giordano. Al sarto, infatti, piaceva un paesaggio di campagna con dei puledri bianchi che scorrazzavano vicino a un torrente. Dissero che quell’immagine, così bucolica – “bucolica” fu la parola usata da Colajanni nella memoria difensiva – gli ricordava Cairano, il paese dov’era cresciuto. Ma Newak insistette perché Bagutta si prendesse il dipinto con la nobildonna e gli lasciasse quell’altro. Forse perché dall’alto della sua incompetenza lo aveva giudicato di maggiore valore. Chissà. Ad ogni modo, l’ingegnere, pur di riprendersi il capolavoro di Giordano, chiese la rescissione del contratto, ipotizzando a carico di Bagutta un presunto approfittamento dello stato di bisogno. Una strategia, come dire, azzardata e poco credibile, ma l’unica possibile per rimediare a quella leggerezza che Mimmo non esitò a definire “una grande cazzata”.

Colajanni, pur senza sottovalutare ogni dettaglio e passaggio tecnico, fin dalle prime battute sembrò piuttosto ottimista sull’esito del processo – Edua’, hai capito l’Ingegnere? Vuole farci credere che è un pezzente con una casa di 6 stanze a Posillipo, tre cavalli ad Agnano e due domestici alle dipendenze – Come al solito aveva ragione. Effettivamente la tesi difensiva di Newak era insostenibile e non poteva che perdere consistenza davanti al giudice Francavilla. Dopo la prova testimoniale la causa fu rinviata per la precisazione delle conclusioni e alla fine la domanda proposta da Newak venne rigettata con compensazione delle spese. Bagutta vinse la causa. Ma non il quadro. Lo stesso giorno in cui il giudice pronunciò la sentenza, infatti, il dipinto di Luca Giordano finì direttamente nello studio legale di Mimmo come “equo compenso professionale”. – Lo vedi quel quadro, Irene? – disse l’avvocato alla segretaria – Mi credi se ti dico che ne esistono solo due copie? Una è esposta al British Museum di Londra, l’altra… –

LA PRIMA LEZIONE

Quando cominciai a lavorare con il prof. Crocitti alla stesura del suo manuale di diritto privato, l’ambizione di ritrovarmi un giorno al suo posto, lo confesso, la coltivavo. Crocitti mi concesse di figurare come coautore del manuale e così il mio nome comparve su uno dei testi più diffusi in quegli anni nelle facoltà di giurisprudenza. La carriera di docente mi affascinava molto. Avevo già partecipato a dei seminari nella precedente sessione, ma non mi era ancora capitato di tenere delle vere e proprie lezioni agli studenti. Accadde la prima volta il 20 novembre del 1976. Cominciava il nuovo anno accademico e mi fu affidata la seconda cattedra di diritto privato appartenuta fino a pochi mesi prima al prof. Randazzo, esimio giurista nonché eccellente jazzista. Quando gli fu comunicato dal rettorato che aveva raggiunto la soglia della pensione, Randazzo esclamò – Poco male, potrò finalmente dedicarmi alla musica a tempo pieno – Randazzo si era già organizzato con un quartetto di vecchi amici, i “Marechiaro’s Jazz Quartet”, per suonare nei club più esclusivi della penisola. Il tour, molto reclamizzato anche dalle riviste specializzate, non ebbe tuttavia una buona sorte: il professore, infatti, a causa di una paralisi dovette rinunciare allo stravagante progetto artistico già dopo la seconda data, e ritirarsi nella sua villa di Genzano, alle porte di Roma.

La mattina del 20 novembre a Napoli diluviava. Per non fare tardi e dilungarmi in complicate manovre di parcheggio, decisi di chiamare un taxi. La città era paralizzata da un ingorgo gigantesco. Spiegai al tassista che avevo molta fretta e lui, serafico, mi suggerì di farmela a piedi. Non aveva tutti i torti. Seguii in parte il suo consiglio e scesi quattro isolati prima dell’università. Corsi come un matto sotto la pioggia torrenziale. In una mano tenevo l’ombrello nell’altra la borsa. Gli occhiali completamente bagnati mi rendevano il tragitto ancora più complicato. Per la fretta mi scontrai con una coppia di anziani fermi davanti alla vetrina di un negozio di scarpe. Non ebbi il tempo neppure di scusarmi. Divorai la scalinata dell’ingresso due gradini alla volta e mi precipitai in segreteria, dove trovai il ristoro di una sedia e di un tè caldo. I pantaloni erano bagnati fino alle ginocchia e le scarpe si erano trasformate in due scialuppe di salvataggio. Incrociai i colleghi Floris e Deidda del mio stesso dipartimento. Floris si era appena trasferito da La Sapienza. Con suo padre, il temutissimo Francesco Maria, avevo dato l’esame di diritto romano, qui a Napoli. – In bocca al lupo, Eduardo – mi disse Deidda, stringendomi la mano ancora umida – Hai visto? Per te si è scomodato anche il prof. Vermigli – Vermigli era il preside della facoltà. Aveva la fama di essere un duro, e dopo il brutto episodio della contestazione nell’aula magna, dove un gruppo di studenti la settimana prima aveva sequestrato per più di due ore il rettore, si aggirava tra le aule come un segugio, scortato da un poliziotto in borghese – Speriamo bene – dissi, asciugandomi gli occhiali con il fazzoletto. Erano tempi difficili; nelle università si respirava un brutto clima e più di un collega mi riferiva di aver ricevuto delle minacce. Mancavano pochi minuti alle nove, attraversai il lungo corridoio sfilandomi l’impermeabile fradicio e mi indirizzai verso l’aula designata, la numero otto. Oltrepassai la soglia, sistemai la borsa e il soprabito su una sedia di metallo di fianco alla cattedra, salutai con un “buongiorno” i mie ragazzi e cominciai la lezione. Breve introduzione sul corso di laurea e prime nozioni sul codice civile. L’aula era stretta e lunga. Le pareti colorate di grigio, come il pavimento di marmo lucido. Gli arredi piuttosto scarni: la cattedra, piccolina, su un palchetto basso di legno consumato; più o meno dieci file di banchi; un armadietto di ferro, anch’esso di colore grigio, appoggiato alla parete in fondo; tre luci al neon sul soffitto. Il crocifisso, la foto di Giovanni Leone e un vecchio calendario di quattro anni prima, strappato al mese di ottobre. A destra, un finestrone ampio, appannato dalla pioggia, si affacciava sul cortile interno. Non ricordo altro, tranne un forte odore di naftalina. Tutto filò liscio e non mancò una piacevole sorpresa. Tra le matricole che affollavano la stanza ce n’era una seduta all’ultimo banco. Non sembrava giovanissima, ma era agghindatissima, con un doppiopetto grigio scuro e una cravatta blu a pois. Fingeva di prendere appunti su un’agendina. Mimmo Colajanni era venuto a vedermi. Quando uscirono tutti, mi avvicinai a lui. Aveva gli occhi lucidi per la commozione. Con un filo di voce mi disse – Eduà, sei stato bravo come sempre – Gli sorrisi pizzicandogli la guancia. Attraversammo il corridoio sottobraccio. Salutammo Vermigli e il suo vice, e sotto la pioggia battente ce ne tornammo allo studio. Prima di salire Mimmo volle fare un salto al bar di Tonino per un caffè. Erano le 10,30 e non ne aveva bevuto ancora uno, un vero record – Guagliò, l’ho sempre detto che tu c’hai stoffa. Ma non ti montare la testa, mi raccomando. A proposito, non penserai mica di lasciare il tuo vecchio socio? – Mimmo sapeva essere padre e guappo alla stessa maniera. Era sempre ossessionato  dall’idea che qualcuno potesse prima o poi abbandonarlo: i clienti, gli amici, la figlia – Io a te? Ma neanche per sogno. – gli risposi, dopo aver mandato giù il caffè in un solo sorso. La risata dell’avvocato echeggiò per tutto il bar. Si fece incartare due sfogliatelle, pagò il conto al garzone dietro la cassa. Poi, dopo avermi dato il solito colpo di karate sulla spalla, mi afferrò per la vita e disse – Dai, saliamo che è tardi-

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