SCUSATE IL DISTURBO – Richard Ford

“La vita è una questione di sottrazione graduale” dice Frank Bascombe nell’ultimo capitolo della quadrilogia a lui dedicata, il più malinconico, il più crepuscolare “Tutto potrebbe andare molto peggio”. È  da lì che riparte Richard Ford dopo l’intermezzo di “Tra loro”, il tenero memoir o romanzo breve uscito nel 2017, nel quale lo scrittore premio Pulitzer racconta la vita dei suoi genitori. I racconti che compongono “Scusate il disturbo” – “Sorry for your trouble” nella versione originale – seguono il tracciato del Bascombe prossimo alla fine, l’uomo che riflette sulla vita e fa i conti con i fantasmi del passato. Dieci storie brevi, tranne due, pervase da un senso di precarietà, che indagano sugli aspetti più intimi e traumatici dell’esistenza: lutti, divorzi, fallimenti. Ciascuno dei protagonisti, quasi tutti uomini di mezza età e benestanti, ha perso qualcuno o qualcosa, oppure è “Fuori posto”, come l’orfano Herry Harding, compatito e baciato in bocca dal suo amico più adulto Naill. I personaggi di Ford devono fare i conti con un’assenza, archiviare un tempo che non ritornerà, viverne uno nuovo. Imprevisti, passaggi, deviazioni, la caducità non risparmia nessuno. Cathleen è una sessantenne pluridivorziata; pensa a come sarebbe stata la sua vita se avesse sposato Ricky, fuggito in Canada molti anni prima per non combattere in Vietnam. La felicità non è mai a portata di mano, è altrove. Attimi insignificanti, momenti decisivi, disincanto: il Ford della maturità ci appare addirittura migliorato, la sua prosa è come sempre minimalista ma più raffinata del solito. Jonathan e Charlotte, protagonisti di “Seconda lingua” – un vero gioiello, forse la migliore delle dieci storie – riescono a volersi bene dopo aver divorziato. In una delle scene più toccanti, lui chiama al telefono il primo marito di lei, Francis, che non ha mai conosciuto. Lo fa per stabilire un contatto, per sentirsi più vicino a Charlotte, ma al telefono scopre di non avere argomenti, non sa cosa dire, balbetta poche parole, poi chiede scusa e attacca. Jonathan è un uomo ferito, solo, ma verranno per lui tempi migliori. Forse. Chi lo sa.

Angelo Cennamo

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LE BESTIE GIOVANI – Davide Longo

Tre romanzi pubblicati in un solo giorno – non con un editore qualsiasi, con Einaudi – e un megaspot di Alessandro Baricco, che insegnerà pure alla Scuola Holden come lui, ma che non è il tipo da lasciarsi andare all’ammiccamento, alla facile adulazione. Davide Longo non è (ancora) entrato nella NBA dei giallisti italiani, ma a modesto avviso di chi scrive è tra gli scrittori di maggiore talento in circolazione. “Il caso Bramard”, “Le bestie giovani”, “Una rabbia semplice” sono romanzi magnifici, semiseriali, con l’ultimo dei tre una spanna sopra gli altri due. “Le bestie giovani” si apre con il ritrovamento in un cantiere di dodici scheletri. Reperti bellici, secondo gli inquirenti, ma qualcosa non quadra e il commissario Arcadipane fiuta un’altra pista, più scomoda, sconveniente, quella giusta: la guerra che quei cadaveri hanno combattuto è più recente, si chiama Anni di Piombo. La storia evidentemente si muove su due piani temporali e Arcadipane dovrà avvalersi ancora una volta dell’aiuto del maestro: Corso Bramard, personaggio enigmatico, cupo, poliziotto esistenzialista dal passato forse torbido. Bramard è una figura chiave in questa storia. Di più non posso dire. Lui e Arcadipane si alternano sulla scena come primi attori. Diversi, anzi diversissimi. Vincenzo Arcadipane non è solo un commissario, è un marito (in crisi), un padre (in crisi), un maschio (in crisi). Davide Longo lo tratteggia con maestria, comicità, sfidando le regole d’ingaggio del Giallo classico. Il dialogo, nella prima parte del romanzo, tra lui e la moglie Mariangela, con il marito che a letto “mette la mano su quella di lei, pesante come un punto alla fine di una frase breve”, è un capolavoro.  “La vita è quello che si vede, al massimo quello che si fa” gli dice la strizzacervelli Ariel. Il romanzo è pieno di frasi così, metafore, sillogismi da sottolineare. Longo sa scrivere, intrattiene, diverte; il senso dell’humor non si apprende in nessuna scuola di scrittura, è come il coraggio di Manzoni: non te lo puoi dare, e un noir che fa anche sorridere ha una marcia in più. 

Angelo Cennamo

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I BUONI VICINI – Sarah Langan

C’è del marcio a Maple Street. Siamo alla periferia di Long Island, in un tempo relativamente futuro. La strada è a forma di semicerchio ed è abitata da una middle class apparentemente serena, solidale, pacifica. Ma quella normalità così invidiabile sembra foriera di un’imminente sciagura. La tragedia è a un passo: al civico 116 si trasferisce la famiglia Wilde. I Wilde sono diversi da tutti gli altri abitanti di Maple Street, di una diversità sinistra, malevola, inaccettabile. La loro vicina è Rhea Schroeder, ape regina del quartiere e madre di Shelly, tredicenne viziata, forse un po’ folle. Il passo nel baratro sarà il suo, di Shelly. La ragazza sarà inghiottita da una voragine apertasi in un parco vicino. Con Shelly precipitano tutti e la commedia si fa thriller. I primi indiziati sono i Wilde, ma a Maple Street nessuno è esente da colpe. “I buoni vicini” è un affresco preciso e brutale della nuova borghesia americana. Il sobborgo colpisce ancora. Cheever, Updike, Richard Yates ci hanno regalato storie magnifiche sulle inquietudini della periferia metropolitana. In Revolutionary road la pace suburbana è spezzata dal dramma dei Wheeler, nel romanzo di Sarah Langan il mostro è la comunità. Bello, feroce, dissacrante.


Angelo Cennamo

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OMBRE SULLO HUDSON – Isaac Bashevis Singer

Nei romanzi di Isaac Bashevis Singer c’è sempre un antefatto: l’olocausto degli ebrei. Le storie che Singer racconta sono quello che viene dopo, il secondo tempo di una tragedia che via via prende le forme e i colori della commedia, talvolta della farsa. Pubblicato a puntate su “The Jewish Daily Forward” e poi in volume nel 1957 in lingua yiddish, “Shadows on Hudson” – in italiano “Ombre sullo Hudson”, con quella strana preposizione articolata che non diventa tronca – è forse la migliore opera lasciataci da questo premio Nobel mezzo polacco e mezzo newyorkese, che con il fratello Israel, Bernard Malamud, Saul Bellow e Philip Roth, forma la spina dorsale della grande narrativa ebraica americana. Cosa vuol dire essere ebrei nel Nocevento secolarizzato degli Stati Uniti d’America è l’interrogativo che accompagna ogni personaggio di Singer, tutti infelici, ma anche i suoi lettori. “La religione è fallita, tutte le religioni lo sono. Dio non si è rivelato a nessuno, né ha mai detto cosa vuole…” L’amara conclusione del dottor Solomon Margolin – a cento pagine dalla fine – il più disilluso dei protagonisti e controvoce di una coscienza laica, dà il senso e la misura di cosa ci apprestiamo a leggere in questo libro, lungo, a tratti faticoso, noioso, ma denso di spunti di altissima letteratura e di archetipi che ritroveremo in altri autori più giovani, quelli appena citati. Sì, perché quando arrivi a Isaac Bashevis Singer dopo aver letto tutto o quasi tutto di Roth, Bellow e Malamud, ti sembra di risalire un fiume partendo dal suo estuario. “Ombre sullo Hudson” racconta di un gruppo di ebrei polacchi e tedeschi approdati a New York negli anni Quaranta dello scorso secolo, dopo essere sfuggiti alla furia nazista. Boris Makaver, il più anziano e ortodosso di tutti, è un ricco uomo d’affari dell’Upper West Side, vedovo, con una figlia, Anna, che, nonostante la giovane età, ha già alle spalle due matrimoni finiti. Anna ora flirta con Hertz Grein, un broker di Wall Street, anche lui sposato con figli, donnaiolo sì ma con poca convinzione. Hertz è il primo attore del romanzo. Sua moglie, Leah lo ama con devozione, lui la ricambia tradendola prima con Esther, poi con Anna, poi con entrambe nello stesso tempo. Hertz crede nel Dio di Abramo, ma tradisce anche lui: l’infinita crisi di coscienza di Grein occupa due terzi del libro “Credeva in Dio, ma la fede non basatava. Gli mancavano i fondamenti…Non era in grado di vivere con Dio, ma non poteva neppure immaginare una vita senza di Lui.” Grein è quello che diventerà Henry Zuckerman ne “La controvita” di Philip Roth, e Seymour Levov nell’altro capolavoro di Roth: “Pastorale americana” – il dialogo tra padre e figlia, Anita, improvvisamente adulta e amante di un comunista ribelle, rende bene l’idea del conflitto feroce che si consuma nel romanzo dello scrittore di Newark, anche lui di origine polacca come Singer: ecco gli archetipi di cui vi parlavo. Nel cast di Singer non mancano altre figure grottesche e stravaganti, disorientate dall’edonismo americano, dal frastuono e dalla solitudine che li spinge a rimuginare, ritornare, riannodare i fili di un passato che non sarà mai lo stesso. Cosa attende Boris, Anna, i suoi ex mariti? Cosa ne sarà, soprattutto, di Hertz Grein? “Non sono diventato osservante. Ben lungi. Ma senza Dio ci si annoia. La fede è l’unica cosa che ci salva dalla follia.” 

Angelo Cennamo

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NINNA NANNA – Ed McBain

Non so se da questo romanzo, Ninna nanna – Lullabay nella versione originale uscita negli Usa nel 1988 – sia stata tratta una versione cinematografica o una fiction tv. Me lo chiedo perché leggendo il libro mi è sembrato di vedere tutto quello che accadeva dentro la storia: i luoghi, i personaggi, di assistere alle conversazioni; Ninna nanna è essenzialmente un romanzo di dialoghi: precisi, serrati, credibili, quasi una sceneggiatura, e Ed McBain – al secolo Salvatore Albert Lombino (non solo DeLillo e Fante) – di sceneggiature ne ha scritte diverse – Gli uccelli di Alfred Hitchock, ad esempio. McBain era nato a New York nel 1926, e a New York ha ambientato tutte le storie di questo ciclo oramai leggendario, una specie di nave scuola anche per molti giallisti nostrani. McBain è un maestro, e l’87mo Distretto il perimetro nel quale si muovono i poliziotti usciti dalla sua penna, un luogo col quale i lettori familiarizzano fin da subito: bastano poche pagine e si diventa amici degli ineffabili Meyer e Carella, Stephen Carella è il poliziotto sul quale Alessandro Robecchi ha plasmato il “suo” Pasquale Carella – ecco dove lo avevo sentito! Ninna nanna è il miglior episodio della serie, scrive Stephen King sulla quarta di copertina, e se lo scrive lui bisogna crederci. Sono le due e mezza del primo giorno dell’anno quando un duplice omicidio sveglia, è il caso di dire, l’87mo Distretto. In un appartamento chic di Isola vengono ritrovati i cadaveri di una bambina e della sua giovanissima baby-sitter. Secondo il referto dell’autopsia la ragazza avrebbe avuto un rapporto sessuale poco prima di essere stroncata da una pugnalata al petto. Le indagini si muovono nella direzione dell’ex fidanzato della vittima, che nel frattempo ha abbandonato gli studi universitari e si è rifugiato a casa di un’amante più vecchia di lui, un tempo la sua baby-sitter. Tutto questo mentre nella trama parallela l’agente Kling si ritrova al centro di una faida tra gang rivali che si preparano a mettere a ferro e fuoco la città. Altro non si può aggiungere sulle due tracce alternate che compongono il romanzo, anche perché, trattandosi di un poliziesco lo spoiler sarebbe imperdonabile. Ci si può però interrogare sulla qualità e sulle tecniche con le quali certi autori si cimentano con storie di delitti e investigazioni: si può scrivere un poliziesco meglio di Ed McBain? Certo che no.  

Angelo Cennamo

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NERO LUCANO – Piera Carlomagno

In un paesino del materano, Grottole, vicino a una diga, viene trovato il cadavere di un uomo. Ha il cranio spaccato in due, forse da un colpo d’ascia. Poco distante dal corpo, a firmare l’atroce delitto, una cartina geografica della Basilicata. L’uomo assassinato si chiamava Brando Carbone ed era un noto ingegnere del posto, ma da alcuni anni abitava a Varese. Brando Carbone aveva una moglie, Leda Montessori, donna di gran classe, dal passato torbido e sessualmente inquieta; e una fidata collaboratrice, sempre al suo fianco, forse la sua amante: Lia Guidi. Inizia così “Nero Lucano”, il nuovo romanzo di Piera Carlomagno – edito da Solferino – secondo capitolo della serie di Viola Guarino – la chiameremo così, dal nome della protagonista – cominciata due anni fa con “Una favolosa estate di morte” e destinata a proseguire, ne siamo sicuri, visto il successo degli esordi. Viola Guarino è una giovane anatomopatologa, caparbia (capatòst), esperta, e dotata di un intuito specialissimo, tanto che l’hanno soprannominata “la strega”. Vive con la nonna Menghina, la lamentatrice funebre più pagata della Basilicata, se ne va in giro per borghi e calanchi con una moto Ducati di grossa cilindrata, e flirta a fasi alterne con Loris Ferrara, il Sostituto Procuratore napoletano, di istanza a Matera perché in fuga da un matrimonio in crisi, e che indaga insieme a lei sui delitti che la Carlomagno racconta in queste sue meravigliose storie di provincia. Dicevamo dell’ing. Carbone. Non sarà che le due donne che gli stavano intorno, o l’una o l’altra, siano implicate in questo strano omicidio?Chissà. Ma non finisce qui. E no, perché Brando Carbone non resterà l’unica vittima di questo romanzo. E allora? E allora le cose si complicano, e non bastano i soliti rituali: le cartine geografiche, e stavolta pure dei versi della Divina Commedia, a facilitare le indagini. Viola e Loris avranno un bel da fare per venire a capo di questa vicenda che si sgretola nel presente ma che parte da molto lontano. “Nero Lucano” è un giallo dai meccanismi perfetti e con un alto tasso di suspense – in America li chiamano page-turner: non riesci a staccarti, non puoi fare a meno di voltare la pagina successiva sperando di capirci di più. Piera Carlomagno attinge alla nobile tradizione, tutta italiana, dell’antica arte del racconto; la sua scrittura artigianale, la cura per i dettagli e i bassorilievi emotivi dei personaggi, ci riportano ai maestri di una narrativa che va preservata, difesa dalla retorica del noir di facile consumo, quella di Fruttero e Lucentini, Loriano Machiavelli, Piero Chiara – i suoi misteri lacustri mi hanno ricordato il clima, l’omertà, l’indolenza di una certa borghesia materana. In “Nero Lucano” ritroviamo una Viola in gran spolvero, anche più umana. Occhio però ad un’altra donna: Leda Montessori, la miglior attrice non protagonista del libro. Un’ultima annotazione la lascio per il titolo: la sintesi perfetta, carveriana, di una storia nera come il crimine, certo, ma anche come qualcos’altro. 

Angelo Cennamo

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UN PIEDE IN PARADISO – Ron Rash

Anni Cinquanta. In una cittadina sperduta sui monti Appalachi, Oconee, scompare Holland Winchester, giovane reduce della Corea, un piantagrane mezzo matto, la cui proprietà confina con quella dei coniugi Holcombe. Amy e Billy vivono da soli nella loro casa di campagna, con un figlio che tarda ad arrivare. Come mai? La diagnosi del dottor Wilkins è una condanna senz’appello: Billy è sterile. La soluzione, l’unica possibile, forse è a portata di mano, proprio su quel confine, che tragicamente diventa lo spartiacque tra il bene e il male, il lecito e l’immorale. Dov’è finito Holland? Lo sceriffo Alexander – una delle cinque voci narranti di questa storia, insieme a quelle di Billy, Amy, del figlio della coppia e del vicesceriffo – sa, ma non ha le prove. “Un piede in paradiso” uscì negli Stati Uniti nel 2002; per arrivare in Italia ha percorso un lungo giro durato vent’anni: diversi editori si erano rifiutati di pubblicare il libro prima che La Nuova Frontiera – evviva – si sia decisa a farlo, affidando la traduzione all’esperto Tommaso Pincio. Quanto al suo autore, di Ron Rash possiamo dire che è il più grande scrittore americano che gli italiani non conoscono. Nativo di Chester, South Carolina, Rash si colloca nella scia della gloriosa tradizione letteraria del Sud, quella di Faulkner, Eudora Welty, Flannery O’Connor, Harper Lee, Richard Ford. Il suo minimalismo graffiante – frasi brevi e toni drammatici – è l’impasto ideale per storie noir e di provincia come questa, a metà strada tra “Crum” di Lee Maynard e “Cape Fear” di John MacDonald. La vicenda di Holland, la magnifica polifonia del racconto soprattutto, con lo sguardo di ogni protagonista sulla storia, trascinano il lettore, come in un prodigioso effetto stereo, nella reale dimensione dei fatti, nel fango, le sterpaglie, le intemperie dei luoghi. “Un piede in paradiso” è un romanzo su una paternità usurpata, negata, e sulla terra: seminata, espropriata, la terra che inghiotte ogni cosa, cancellando la vita, i ricordi, le prove, il disonore.   

Angelo Cennamo

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