Sfogliando l’atlante del grande romanzo italiano noir, alla voce “Firenze”, troviamo Marco Vichi, autore tra i più interessanti della sua generazione ma non iscrivibile alla categoria dei giallisti in senso stretto. Vichi, infatti, per sua stessa ammissione non ama il genere poliziesco Non mi appassiona il giallo in sé, dice, per quanto il protagonista delle sue storie sia un commissario di pubblica sicurezza, il commissario Franco Bordelli. A volerla dire tutta, Vichi non è affatto un giallista, e probabilmente neppure un vero e proprio scrittore noir. Più che indagare sui delitti, infatti, il Bordelli di Vichi indaga sulle vite altrui, e indagando indagando, finisce per raccontarci molto più di sé che delle vittime delle sue inchieste: la guerra combattuta nel battaglione San Marco, ricordi che di volta in volta affiorano come dolorosi flashback, le donne amate, quelle che si gira a guardare per strada, gli amici come Ennio Bottarini detto “il Botta”, il ladro buono che lo aiuta a sbrogliare le matasse e col quale va a funghi sulle colline fuori città; Rosa la tenera puttana a riposo con l’anima di una bambina che gli fa i massaggini e che sogna di sposarlo; Piras, il poliziotto zoppo, suo inseparabile braccio destro; il dott. Diotivede, il medico legale che somiglia un po’ al professor Sassaroli di Amici miei – il contesto, le atmosfere sapientemente evocate da Vichi hanno molto a che vedere con quelle del film di Monicelli. A proposito di Amici miei, un particolare che non abbiamo ancora rivelato è che le avventure di Bordelli sono ambientate negli anni Sessanta, periodo sicuramente suggestivo, insolito – Dario Crapanzano colloca le sue trame nella Milano degli anni Cinquanta, Maurizio de Giovanni nella Napoli degli anni Trenta, non conosco altri casi di retrodatazione narrativa a parte i loro – e soprattutto impegnativo, faticoso, per chi scrive storie seriali.
Morte a Firenze, romanzo pubblicato nel 2009 e vincitore del premio Scerbanenco, si apre con la scomparsa di un bambino. Il cadavere viene ritrovato in un bosco alcuni giorni dopo, in una radura poco distante dal luogo dove il commissario è andato a funghi con il Botta. Nessun testimone, nessuna traccia. La polizia, come si usa dire in simili circostanze, brancola nel buio. Bordelli ha sul collo il fiato del questore Inzipone, infuriato per i titoli dei giornali e per l’indignazione dell’opinione pubblica, ma il commissario non sa proprio dove sbattere la testa. Siamo negli anni Sessanta, non ci sono ancora le moderne tecnologie che supportano gli inquirenti nei giorni nostri: l’esame del dna, le videocamere, internet, i telefonini, né il giornalismo televisivo dei quarti gradi e di chi li ha visti; le inchieste si svolgono ancora secondo la tecnica primitiva della deduzione, dello spirito di osservazione, con i pedinamenti, alla maniera di Maigret. Ma come dicevamo a proposito dello stile di Vichi, la morte del bambino non sembra essere la parte essenziale della narrazione. Al centro della storia, infatti, c’è soprattutto lui, Franco Bordelli, le sue giornate tra San Frediano e la questura, le mille sigarette accese, il maggiolino Volkswagen che rumoreggia come un trattore, le divagazioni sui pregiudizi della borghesia classista, la cultura fascista di cui è ancora permeato il Paese, le cene in trattoria da Cesare con pappardelle al sugo di lepre, le paste e fagioli e il vino pugliese di Totò, le canzoni, i film al cinema da solo, l’infatuazione per Eleonora, la bella commessa di via Pacinotti, troppo giovane per un ultracinquantenne invecchiato e prossimo alla pensione come lui La sua vita era un disastro. Solo, senza una donna. Stava pure ingrassando. Anche il suo lavoro era una misera faccenda. Bordelli ci riporta ad un altro personaggio letterario di quegli stessi anni, il Dorigo di Un Amore di Dino Buzzati, l’attempato architetto che si invaghisce di una minorenne perché non riesce a vivere la normalità familiare dei suoi coetanei.
Passano i giorni ma del bambino assassinato non si sa ancora nulla. Una pista ci sarebbe pure: una bolletta del telefono trovata per caso nel bosco; forse un dettaglio insignificante, probabilmente lo è, ma è l’unico appiglio. Piove su Firenze, piove a dirotto, l’Arno comincia a correre rapido sotto i ponti, gonfio e scuro come non si era mai visto. A pag. 161, il disastro. Nel racconto preciso, nitido, magistrale dell’autore – la naturalezza con la quale Vichi ricostruisce la Firenze di quei giorni lo fa sembrare uno scrittore contemporaneo ai fatti accaduti – le strade sommerse dal fango, le auto accatastate una sull’altra, la gente sui tetti, volontari giunti da ogni luogo tentano di salvare il possibile. Tra le pagine dedicate all’alluvione troviamo brandelli del testo di “Ma che colpa abbiamo noi” una vecchia canzone dei Rokes, simbolo di una rivoluzione che due anni dopo avremmo chiamato “Il Sessantotto”. Vichi si incunea nei sentimenti e nel costume del tempo, è bravissimo nel riprodurre l’atmosfera di un’Italia sospesa tra il ricordo della guerra e l’illusione di un’emancipazione che stenta a realizzarsi. Vichi sa scrivere, la sua prosa non è un vuoto esercizio di stile come quello di certi autori da premio Strega, le sue trame sono cariche di pathos e di autenticità, Vichi sa trascinare il lettore nella storia In mezzo a piazza Santa Croce l’enorme Dante di marmo osservava schifato la melma puzzolente che stagnava ai suoi divini piedi, e i suoi occhi sdegnati sembravano brillare di una luce cattiva. La tempesta, poi il sereno. E l’indagine sull’omicidio del bambino? Sembra essersi smarrita tra i detriti dell’alluvione; Bordelli brancola nel buio, come Firenze in quella notte infernale di fango e distruzione. Al commissario non resta allora che la traccia iniziale, la bolletta della Sip trovata nel bosco, e sperare che quel foglietto di carta sia per davvero “il filo di Arianna” che lo porti fuori dal labirinto.
Angelo Cennamo