L’ANNO DEL PENSIERO MAGICO – Joan Didion

“La vita cambia in un istante…”.
Quando veniamo colti dalla notizia della morte di uno scrittore o di una scrittrice che abbiamo amato, l’istinto ci porta a riaprire i libri che ci ha lasciato, o a cercarne degli altri. “Joan Didion, giornalista” troviamo scritto in molti articoli o notiziari che circolano sul web, perché la Didion è stata soprattutto questo, una giornalista, professione che ha svolto al servizio delle più importanti testate americane e che ha dilatato fino al punto di trasformarla in un nuovo genere letterario – “New Jurnalism” – che mescola la verità nuda e cruda con altre verità possibili, passate attraverso il setaccio o, se preferite, la lente d’ingrandimento dell’immaginazione.

Non si possono separare la vita e la carriera di Joan Didion da quella di John Gregory Dunne, marito, collega, socio, collaboratore, complice della Didion e padre di Quintana, la loro unica figlia, adottata, e divenuta, obtorto collo, parte integrante, direi essenziale, della bibliografia della Didion.  

La sera del 30 dicembre del 2003, mentre Joan è di là in cucina a preparare la cena, John, che sta dialogando con lei dal salotto, smette improvvisamente di parlare. In pochi minuti la stanza, l’appartamento di Manhattan si trasformano in un pronto soccorso. John ha avuto un infarto, per lui non c’è scampo. La fine di John arriva a distanza di qualche giorno dal ricovero di Quintana in terapia intensiva per una subdola forma di polmonite.

Questo è l’antefatto, questo è il fatto. Ora tocca a Joan raccontarcelo, alla sua maniera. “Quella prima notte avevo bisogno di star sola. Avevo bisogno di star sola perché lui potesse tornare indietro. Questo fu l’inizio dell’anno del mio pensiero magico”.

Rileggendo il libro mi sono chiesto qual è la differenza tra il lutto vissuto dalla Didion – “L’anno del pensiero magico” è un romanzo sull’elaborazione del lutto – e quelli capitati a ciascuno di noi. La differenza è una sola: Joan Didion il suo lutto sa raccontarlo, ha le parole per descrivere il naturale processo delle cose che riguardano l’intera umanità, nessuno escluso. La Didion ha gli strumenti. La Didion ha il talento. “Io sono, o sono diventata, il mio modo di scrivere”.  Le 236 pagine del libro sono una lunga riflessione sugli attimi immediatamente successivi all’infarto di John: l’arrivo dell’ambulanza, la corsa in ospedale, i vestiti raccolti in un sacchetto di plastica insieme agli effetti personali, la prima notte da sola, la preoccupazione per Quintana, sedata e monitorata in un altro ospedale, almeno lei si salverà? E i ricordi, tanti, un’infinità: i viaggi, per lavoro o per vacanza, i libri e le sceneggiature scritte a quattro mani, il lessico famigliare, gli anni all’università, la California, New York. Cronaca di una vita borghese che per quanto agiata non può sottrarsi alle regole della natura, sfuggire ai paradigmi della biologia. Il dolore è un luogo sconosciuto finché non ci si arriva; il rischio è quello di lasciarsi soffocare, per non parlare dell’autocommiserazione, piangersi addosso, sguazzare nel vuoto, prerogativa dei soli esseri umani: Non ho mai visto un animale commiserarsi, ha scritto D.H. Lawrence.  
“Il dolore, quando arriva, non è affatto come ce lo aspettiamo”, il dolore è fatto di ondate impreviste, spesso ingestibili.
La morte di John, cui seguirà quella di Quintana – la Didion ne parlerà in “Blue Nights” – ribalta ogni cosa, confonde, spinge a ricostruire la sequenza perduta dei fatti, a rimetterli in ordine e a collegarli tra loro. John, pensa l’autrice, potrebbe tornare indietro. La resurrezione della carne, la Didion non c’ha mai creduto, ma l’illusione che John ritorni da lei, quella sì, può essere praticabile, dev’esserci un modo: scrivere, scrivere, scrivere. 

Nel memoir della Didion, nel suo intimismo, ho ritrovato lo stesso dolore messo da Oriana Fallaci in “Lettera a un bambino mai nato”; la vita interrotta, la vita negata. “L’anno del pensiero magico” è una storia di morte ma è una storia raccontata con garbo, che non stanca e non affligge.

Angelo Cennamo

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DIECI LIBRI AMERICANI

Richard Yates, scrittore minimalista nato vicino New York  nel 1926 e morto nel 1992 in Alabama, è stato scoperto in Italia per caso, grazie alla versione cinematografica del suo libro meno ignoto: “Revolutionary road”. Pur essendo un gigante della letteratura americana, cantore della middle class dei sobborghi metropolitani, Yates non riscosse neppure in patria il successo che avrebbe meritato. “Non voglio soldi, voglio lettori”, pare abbia detto in uno dei numerosi momenti di sconforto. Pensate, nessun libro di Yates vendette negli Usa più di dodicimila copie. Le sue storie disturbanti, popolate perlopiù di personaggi sconfitti, traditi, che affogano i dispiaceri nell’alcol sfiorando talvolta la follia, non erano esattamente in linea con i gusti, soprattutto con l’ottimismo dei lettori americani del tempo. L’insuccesso di Yates penso sia dipeso essenzialmente da questo. Eppure “Cold spring Harbor”, ma anche “Easter Parade” e “Disturbo della quiete pubblica”, oltre le raccolte di racconti e il già citato “Revolutionary Road”, sono libri davvero imperdibili.

“La ventisettesima città”, pubblicato nel 1988, è l’esordio di Jonathan Franzen. Un romanzo bizzarro, postmoderno, sicuramente diverso dalle storie familiari arrivate più tardi, negli anni Duemila (“Le correzioni”, “Libertà” ecc.). Il primo Franzen è uno scrittore sperimentalista, non il contract author dickensiano che abbiamo conosciuto nella maturità.

“Falconer” è tra le cose migliori lasciateci da John Cheever, altro maestro di minimalismo e di shortstories insieme a Raymond Carver e Richard Yates. Di Cheever non si può fare a meno di leggere “I racconti”, il librone azzurro pubblicato da Feltrinelli, così come i suoi diari: “Una specie di solitudine”.

“Beloved”, qui da noi “Amatissima”, titolo impronunciabile, è il capolavoro della scrittrice afroamericana e premio Nobel Toni Morrison. Il romanzo uscì nel 1987, negli stessi mesi in cui Stephen King pubblicò “It”. Interessante il parallelismo citato da Luca Briasco in un suo saggio tra queste due opere. Leggete “Beloved” ma cercate anche l’approfondimento di Briasco sull’argomento.

“Il centauro” è un libro quasi introvabile. Del prolifico John Updike, scrittore di sintesi come Philip Roth tra realismo e avanguardismo, in Italia è arrivato ben poco oltre la nota quadrilogia del Coniglio. Non ne conosco le ragioni. Updike è stato un romanziere geniale, meriterebbe maggiore attenzione e supporto editoriale. 

“Il rap spiegato ai bianchi” David Foster Wallace lo scrisse ad Harvard insieme a un compagno di corso, Mark Costello, prima di sprofondare in uno dei suoi baratri esistenziali. Non sarà il miglior libro di Wallace ma è un libro di Wallace.

“La casa tonda”, vincitore del National Book Award, ci porta tra i nativi americani. Louise Erdrich, anche premio Pulitzer nel 2021 con “Il guardiano notturno”, racconta solo storie di pellerossa. Difficile stilare una graduatoria dei suoi romanzi, sono uno più bello dell’altro.

“Il migliore” di Bernard Malamud, voce di spicco della narrativa ebraica americana e autore anche di altri due libri magnifici come “Il commesso” e “Le vite di Dubin”, è il più bel romanzo che sia stato scritto sul baseball. Molti di voi ricorderanno il film con Robert Redford che ne fu tratto. 

“Avviso ai naviganti” di Annie Proulx – anno 1994 – racconta la storia di Quoyle, un giornalista di Brooklyn sposato con una donna infedele che, dopo aver perso nello stesso giorno moglie e lavoro, decide di trasferirsi nell’isola di Terranova con le sue due figlie. Il romanzo si aggiudicò sia il Pulitzer che il National Book Award. Un caso rarissimo, credo si sia ripetuto solo una volta con “La ferrovia sotterranea” di Colson Whitehead.

Richard Powers, come William Vollmann, appartiene alla stessa generazione e “corrente letteraria” di Foster Wallace. Finché fu in vita, Wallace oscurò entrambi. Ma la vita di Wallace non fu lunga, e Powers – un po’ meno Vollmann – ebbe modo di rifarsi. “Orfeo” uscì nel 2014. Come quasi tutte le storie di Powers, da “Generosity” a “I sussurri del mondo” – altro premio Pulitzer – fino al più recente “Smarrimento”, si fonda su una originalissima mescolanza tra scienza e umanesimo. 

Angelo Cennamo

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LA SCRITTRICE DAL PENSIERO MAGICO

Joan Didion ci ha lasciato ieri all’età di 87 anni, pare per una complicazione del morbo di Parkinson. La Didion era nata a Sacramento nel 1934 e si era fatta le ossa nella redazione di Vogue prima di diventare una figura di spicco del cosiddetto “New Journalism” (l’espressione fu coniata da Tom Wolfe), ovvero quel genere di scrittura affermatasi dai primi anni Sessanta che mescola la narrativa con la non fiction. La ricordiamo per i suoi numerosi articoli, reportage, collaborazioni con alcune delle più importanti testate americane (New York Times, Life, Esquire), sceneggiature di film di successo come “Qualcosa di personale”, “È nata una stella”, per libri indimenticabili – in Italia editi da Il Saggiatore e Edizioni E/O – due su tutti: “L’anno del pensiero magico”, che nel 2005 si aggiudicò il National Book Award, e “Blue Nights”. Con la sua scrittura piana, senza orpelli, con classe, coraggio e autenticità, la Didion ha raccontato le trame oscure della politica americana, il costume, drammi personali come la malattia della figlia e la morte del marito, John Gregory Dunne, col quale ha condiviso anche diversi progetti professionali.

“La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Ti siedi a tavola e la tua vita non è più la stessa”. Buon viaggio, Joan.

Angelo Cennamo

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CUORI IN TRAPPOLA – Jennifer Hillier

Jennifer Hillier è nata a Toronto ma ha vissuto per molti anni nel nord ovest degli Stati Uniti, nello Stato di Washington. “Cuori in trappola”, il suo nuovo romanzo (dal 13 gennaio in libreria), il primo arrivato in Italia con Fazi editore e la traduzione di Giuseppe Marano, è ambientato proprio nei sobborghi di Seattle, in quel lembo di terra glaciale e operoso che per mille motivi si discosta dai panorami più familiari al genere thriller della costa atlantica e californiana. 

Qui tre adolescenti – Angela Wong, Georgina Shaw e Calvin James – dopo aver bevuto a una festa, si lasciano andare a un pericoloso gioco erotico. Georgina è amica di Angela e Calvin è il suo ragazzo. Di Angela, dopo quella festa, si perde ogni traccia, ma a distanza di quattordici anni, il suo corpo fatto a pezzi viene ritrovato in un bosco vicino alla vecchia casa di Georgina, oggi manager di successo di una nota casa farmaceutica. Angela è stata uccisa da Calvin, “lo strangolatore di Sweetbay”, nel frattempo accusato anche di altri delitti. Georgina finisce sotto processo e condannata per occultamento di cadavere.

La Hillier mette subito in chiaro la dinamica dell’assassinio: ci sono dubbi sulla responsabilità di Calvin? Pare di no. Eppure la storia non manca di colpi di scena e scivola via, rapidamente, attraverso un triplice canale temporale: il tempo fatti, la detenzione di Georgina, la sua uscita dal carcere. La vicenda raccontata dalla Hillier – che (solo) per certi versi ricorda quella di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata in Italia alcuni anni fa – è strutturata sulla doppia linea dell’amicizia tra Angela e Georgina, e la relazione tra quest’ultima e Calvin.

Altra figura chiave della storia è quella di Kaiser Brody, un vecchio compagno dei tre protagonisti che ritroveremo nel ruolo, ingrato, del poliziotto che arresta Georgina.

Gli intrecci barra sfumature, sessuali e psicologici, sono molteplici. È il punto di forza del romanzo. Ma “Cuori in trappola” non è solo un thriller; lo sviluppo ulteriore della trama aprirà infatti un nuovo capitolo: la maternità, vissuta, repressa, calpestata, con esiti imprevedibili, crudeli soprattutto. Insomma, Jennifer Hillier sa tenerci sulla corda anche spoilerando se stessa: la morte non è tutto. “Cuori in trappola” è un romanzo di vite spezzate, amori dannati, sogni traditi. Non c’è scampo né redenzione.

Angelo Cennamo

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LINCOLN HIGHWAY – Amor Towles

Amor Towles ha uno strano nome per essere nato a Boston. Di lui in Italia non si sa molto, ma c’è un dettaglio che potrebbe incuriosirvi: uno dei suoi libri di maggiore successo, “Un gentiluomo Mosca”, è finito, insieme ad altre ventiquattro opere di fiction, in un bizzarro sondaggio del New York Times sul più bel romanzo degli ultimi 125 anni. 

“Lincoln Highway” è uscito nel 2021 sia negli Usa che in Italia, pubblicato come il già citato “Un gentiluomo a Mosca” da Neri Pozza. È una storia lunghissima, più lunga delle 634 pagine che la compongono. Densa, densissima di fatti, nomi, circostanze, divagazioni, forse non tutte necessarie. Polifonica, con tre voci narranti, due appartengono a due dei protagonisti, più una terza (fuori campo).

Siamo nel Nebraska, l’anno è il 1954. Il giovane Emmett Watson è tornato a casa dopo aver scontato un anno di riformatorio per aver colpito e ucciso un suo coetaneo. Qui lo attendono il fratellino Billy e una montagna di debiti che lo costringeranno a cambiare aria. Emmett vorrebbe trasferirsi in Texas ma il sogno di Billy è quello di raggiungere la madre, fuggita molti anni prima a San Francisco. Billy è convinto che sia ancora viva e che stia aspettando lui ed Emmett proprio lì, in California. A dividerli è solo la storica Lincoln Highway, la prima strada ad attraversare gli Stati Uniti dall’Atlantico al Pacifico. Il piano sarà anche fantasioso, ma prima di partire ai Watson capiteranno due imprevisti. Il primo si chiama Duchessa, l’altro Woolly. Duchessa e Woolly sono fuggiti dal riformatorio dove Emmett ha scontato la sua pena con un numero degno di Harry Houdini.

Questo, per sommi capi, è il nucleo della storia raccontata da Towles; tutto il resto è un’infinita e rocambolesca sequela di intoppi, contrattempi, sotterfugi, furti, menzogne ed inseguimenti nei quali i quattro ragazzi, più Sally – una vicina di casa dei fratelli Watson e voce narrante insieme a Duchessa – verranno risucchiati per oltre cinquecento delle 634 pagine del romanzo, sul cui sfondo non c’è la Lincoln Highway ma New York, perché è lì che una delle mille deviazioni della trama condurrà Emmett, Billy, Duchessa e Woolly. New York è raggiante, operosa, promette di realizzare qualunque sogno; “Lincoln Highway” è soprattutto un libro di sogni oltre che di attraversamenti. Si viaggia sì, ma a ritroso, nell’infanzia, alla ricerca di ricordi, eredità e genitori smarriti; nella letteratura come nella storia: su un treno merci, i fratelli Watson incontreranno un nero di nome Ulysses; Billy gli farà conoscere l’origine del suo nome e gli racconterà della peregrinazione dell’eroe omerico, la stessa di quel girovago senza meta. Epico e appassionante come certi classici, da Twain a Kerouac, da Salinger a Chabon. Meraviglioso.

Angelo Cennamo

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CRY MACHO -Richard Nash

Richard Nash è uno scrittore e drammaturgo americano, “Cry Macho” il suo romanzo di punta. In Italia è arrivato con cinquant’anni di ritardo, sulla scia del successo cinematografico riscosso dall’omonimo film interpretato dal Re Mida Clint Eastwood.

È una storia di frontiera, picaresca, un po’ western un po’ crime. Mike Milo ha avuto un passato glorioso nel circuito dei rodei, prima cioè che gli piombasse addosso “l’anno perduto”: un divorzio doloroso più altre disavventure, incidenti compresi. A soli trentotto anni, Mike può dirsi un uomo finito, con una bacheca piena di trofei inutili e un futuro tutto da inventare. L’incarico affidadatogli dal suo ex datore di lavoro di riportare il figlio dal Messico in Texas – missione che non ha nulla a che vedere con i buoni sentimenti – è per lui una specie di ultima spiaggia.

Dopo le prime cento pagine, la scena del romanzo cambia. Mike, che oltre domare i cavalli e farsi addomesticare dalle belle texane non ha particolari qualità né sembra brillare per intelligenza, si avventura con un furgone scassato in Messico alla ricerca del piccolo Rafo, questo il nome del ragazzino, che attualmente vive (così almeno gli è stato riferito) con la madre, donna piuttosto violenta e perversa. Tutta la seconda parte della storia è il viaggio di ritorno dei due protagonisti dal Messico al Texas. Oltre duecento pagine di fughe e di nuovi incontri, alcuni piacevoli altri meno, in cui il rapporto tra Mike e Rafo dall’iniziale diffidenza reciproca si ribalta in una surrogata ed imprevedibile paternità. Rafo è un ragazzino vispo, cresciuto praticamente da solo, per strada, un Oliver Twist texano, cocciuto ma molto religioso e generoso oltre ogni aspettativa. Mike è stato padre di una bambina morta prima che il suo matrimonio finisse. Insomma è una gara tra due disperati, il rapito e il rapitore. Nash è bravo a tenere alto il ritmo del racconto, la trama si dipana in molti rivoli, non tutti necessari e ben collegati, ma Mike e Rafo “funzionano”, non si dimenticano. 

“Cry Macho” è un romanzo sulla perdita e sull’essere padre. Uscì negli Usa nel 1975; Winslow, Vlautin, Offutt, Lansdale non erano ancora approdati alla scrittura: chissà che non abbiano anche loro una copia di questo libro. 

Angelo Cennamo

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RIPOSA, CONIGLIO – John Updike

Finisce più o meno com’è cominciata trent’anni prima, la storia di Harry Angstrom, con una partitella a basket. Stavolta però è diverso: Harry non ha la baldanza dei tempi del liceo e le sue coronarie gli hanno giocato più di un brutto scherzo. Tap su rewind. “Riposa, Coniglio” – “Rabbit at rest” nella versione originale – è il quarto capitolo della cosiddetta quadrilogia del Coniglio. Uscì nel 1990 e a John Updike valse il secondo premio Pulitzer della sua carriera, il primo se lo aggiudicò con il terzo volume della serie, “Sei ricco, Coniglio”. 

Siamo nell’ultimo scorcio della stagione reaganiana, la Guerra Fredda – la rigida contrapposizione tra Est e Ovest che per Harry dà senso e misura agli Stati Uniti d’America – è finita. I coniugi Angstrom, cinquantasei anni lui, cinquantaquattro lei, si sono trasferiti sotto il sole della Florida, mentre il loro unico figlio, Nelson, manda avanti le due concessionarie Toyota – “Il terreno” – ereditate da sua madre Janice. Negli ultimi tre decenni gli Angstrom non si sono fatti mancare nulla: povertà, ricchezza, droga, tradimenti reciproci, fughe, ritorni, tragedie familiari come la morte per annegamento della sorellina di Nelson.

Il Grande Romanzo di Coniglio Angstrom stupisce per una perfezione progressiva, di stile e di contenuti, che non ha precedenti, e i Pulitzer vinti non con i primi due libri – “Corri, Coniglio” e “Il ritorno di Coniglio” – ma con gli ultimi due, confermano l’insolita evoluzione di una storia che anziché sgonfiarsi, oltre le mille pagine si arricchisce di fatti e situazioni che ne amplificano la bellezza. Mi diceva un commesso della Feltrinelli che i romanzi di Updike, autore molto prolifico ma poco tradotto in Italia – saranno attualmente disponibili all’incirca sei titoli – si vendono col contagocce. È un vero peccato perché Updike è tra le voci migliori del secondo Novecento americano, non inferiore in quanto a valore a scrittori come Philip Roth, Saul Bellow, Bernard Malamud, Richard Yates (quest’ultimo riesumato solo grazie allo scouting di Minimum fax, altrimenti…).

Tornando al romanzo, tutta la vicenda si compie tra la Florida e la Pennsylvania. Il rapporto tra Harry e Nelson ne è una delle tracce principali. Diciamola tutta: per quanto gli voglia bene, Harry non sopporta Nelson, non gli è mai andato a genio quel figlio prima mammone, oggi cocainomane e ladro in casa propria. A Harry Nelson non piace neppure fisicamente: la calvizie incipiente, il codino, l’orecchino, per non parlare del sospetto che il ragazzo sia omosessuale e magari malato di AIDS, lo rendono ai suoi occhi un essere quasi ripugnante. 

Uno dei personaggi chiave del libro è senz’altro Teresa, o Pru, la nuora di Coniglio. Il bacio in bocca che nella scena iniziale lei dà al suocero al suo arrivo in aeroporto, accende una spia che tiene i lettori in allerta fino alle ultime pagine. Il sesso. Cosa ne sarebbe del resto di Coniglio Angstrom e del suo autore – “Un pene con un grosso vocabolario” disse di lui David Foster Wallace – senza quel sofisticato e pruriginoso punto di osservazione che in tempi recenti avrebbe mandato su tutte le furie i paladini della Cancel Culture?

Ma c’è dell’altro. Il sogno. Nella lunga storia raccontata da Updike, nella quale le vicende pubbliche si alternano a quelle private, gli Angstrom il successo riescono ad acciuffarlo grazie al duro lavoro e all’eredità milionaria ricevuta dalla sola Janice, ma la dipendenza di Nelson e la sua spregiudicatezza nella gestione degli affari rischiano di mandarlo in frantumi. Nessuno dei personaggi del libro, né Harry né Janice né Pru, e nemmeno le amanti o ex amanti di Harry, è moralmente al di sopra di qualcun altro. Tutti sbagliano, tutti invocano il perdono, tutti perdonano tutti. 

“Riposa, Coniglio” è un romanzo sulla infelicità di qualunque condizione familiare ma anche sulla impossibilità di emanciparsi dalla famiglia. A pochi metri dalla conclusione, dall’alto di un drone immaginario, Updike ci mostra il corpo di Harry steso sul campo di basket con gli occhi spalancati al cielo: la sequenza di un film da premio Oscar. Capolavoro. 

Angelo Cennamo

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UN ANNO DI LIBRI

Brutta parola bilancio. Cercherò di evitarla, ma un paio di cose su questo 2021 le voglio dire. Un ottima annata, come il titolo di quel vecchio film con Russell Crowe, ve lo ricordate? Intanto due esordi pazzeschi, entrambi finiti nella shortlist di Telegraph Avenue, quelli della giovanissima afroamericana Raven Leilani con “Chiaroscuro”, e dello scozzese Douglas Stuart con “Storia di Shuggie Bain”, vincitore del Booker Prize nel 2020. Il ritorno ai vecchi fasti di Chuck Palahniuk dopo una serie di prove opache: “L’invenzione del suono” è un libro coraggioso e geniale, un raro esempio di avanguardismo in tempi in cui si sperimenta pochissimo. I racconti di “Scusate il disturbo”, un altro bel tassello che si aggiunge alle precedenti raccolte del minimalista Richard Ford, perfetto nella forma breve quanto nella lunga distanza. “Un piede in paradiso” di Ron Rash ha fatto un giro immenso prima di approdare in Italia, ci sono voluti vent’anni e l’intraprendenza de “La Nuova Frontiera”, editore sempre attento alla narrativa made in Usa. Rash è tra i migliori scrittori americani viventi, qualcuno lo sa? 

Il 2021 ha segnato anche l’atteso ritorno di Don DeLillo, il suo brevissimo “Il silenzio” è stata però la più grande delusione della stagione insieme a “L’arresto” di Jonathan Lethem, che con questo libro di flop consecutivi ne ha inanellati almeno tre. “Billy Summers”, preceduto dalla raccolta “Later”, ha invece riportato Stephen King agli standard di altri tempi. Se non sai cosa leggere, vai alla voce Stephen King: otto volte su dieci ti andrà bene. Tre bellissimi romanzi sono quelli dei premi Pulitzer Louise Erdrich (“Il guardiano notturno”) e Richard Powers (“Smarrimento”), e “Crossroads” di Jonathan Franzen, il primo episodio della saga familiare degli Hildebrandt. C’erano aspettative altissime su Franzen e non sono state deluse.

Veniamo agli italiani. “Due vite” di Emanuele Trevi è un romanzo intimo, accorato, ben scritto, ma poi? Sul premio Strega sarebbe meglio stendere un velo pietoso. I libri migliori erano altrove. Tre su tutti: “Di chi è la colpa” di Alessandro Piperno, romanzo maestoso sulla identità e l’impostura, “Sembrava bellezza” di Teresa Ciabatti, “Gli invernali” di Luca Ricci, terzo capitolo della sua quadrilogia sulle stagioni. Una citazione a parte merita “Dice Angelica” di Vittorio Macioce, opera che sfugge a qualunque canone: visionaria, originale, anzi unica. I romanzi citati sono autenticamente italiani, nel senso che potevano essere scritti solo qui, per voce, stile, mood ecc.

Un’ultima annotazione sul Giallo. Accanto alle belle prove dei collaudatissimi Antonio Manzini (“Vecchie conoscenze”) e Alessandro Robecchi (“Flora”), aggiungerei il trittico di Davide Longo (Longo, Scuola Holden, avrebbe meritato lo Scerbanenco con “Una rabbia semplice”); il romanzo sulla Lucania di Piera Carlomagno (“Nero Lucano”), il noir in salsa texana di Omar Di Monopoli (“Brucia l’aria”), i thriller di Antonio Lanzetta (“L’uomo senza sonno”) e Piergiorgio Pulixi (“Per mia colpa”).  

Angelo Cennamo

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STORIA DI SHUGGIE BAIN di Douglas Stuart è il libro dell’anno

Le famiglie infelici non si somigliano, scrive Tolstoj. L’infelicità della famiglia Bain però contiene dentro di sé qualcosa di universale “Se capisci una disperazione, capisci qualsiasi disperazione” dirà un giorno Raymond Carver al suo giovane studente David Leavitt. Prima di riuscire a pubblicare “Shuggie Bain” – in Italia “Storia di Shuggie Bain”, edito da Mondadori con la traduzione di Carlo Prosperi – romanzo di esordio e vincitore del prestigioso Booker Prize nel 2020 – Douglas Stuart si è sentito dire “no, grazie” da ben trentadue – trentadue! – case editrici. 

È il 1981. Glasgow è una città messa in ginocchio dalla crisi economica. Al numero 10 di Downing Street – quanto dista Londra da Glasgow? – Margaret Thatcher deve fronteggiare l’onda d’urto del mondo operaio. Di lì a poco, gli irlandesi U2 urleranno “Sunday Bloody Sunday” rivelando al mondo l’orrore della guerra di religione tra cattolici e protestanti. Cosa c’entra la religione nelle vicende della famiglia Bain, vi starete chiedendo. C’entra, perché all’origine di questa storia c’è un’idea di felicità familiare fondata sulla appartenenza e la condivisione di certi principi. È il perimetro nel quale cresce l’insoddisfazione e matura la fine del matrimonio tra Agnes Bain e il suo primo marito. Agnes Bain – fate attenzione a questo nome perché la storia che porta il nome di Shuggie è soprattutto la “sua” storia – è una donna bellissima e inquieta, data (probabilmente) in moglie ad un uomo cattolico dal quale ha avuto due figli: Catherine e Leek. La fuga da questo marito, buono, premuroso, perfetto per i suoi genitori ma non per lei, ha il volto di Shug, un tassista – questa storia è piena di taxi e di tassisti – rozzo e donnaiolo. Nasce il terzo figlio, Shuggie. Shuggie non è la voce narrante del libro, ma tutto il racconto è filtrato attraverso il suo sguardo. L’unione tra Agnes e Shug è corrotta dall’incomprensione e dai continui tradimenti di lui. Agnes si rifugia nell’alcol. Inizia un calvario fatto di traslochi, miseria, pregiudizi. Nel villaggio di Pithead, abitato perlopiù da minatori disoccupati e da mogli frustrate, la presenza di Agnes porta curiosità e scompiglio; la pietra dello scandalo rotola tra una lussuria avvilente e una perenne indigenza, in un continuo alternarsi di vicende pubbliche e private. I soldi dei sussidi non bastano mai. La puttana dal cappotto rosa e il figlio frocetto sono sulla bocca di tutti. Agnes non si dà per vinta, resiste finché le forze l’assistono, nella sua vita ormai non c’è spazio che per l’alcol. Il rapporto travagliato tra il piccolo Shuggie e sua madre è il cuore di questa storia, umana e brutale al tempo stesso. Il corpo seminudo e martoriato di Agnes avvolto dalle braccia del figlio è una Pietà rovesciata. Siamo alle ultime battute del romanzo, le più commoventi. Scorrono i titoli di coda. Standing ovation. 

Agnes Bain è il miglior personaggio femminile degli ultimi vent’anni, a metà tra Anna Karenina e la Magnani di Roma Garofolo nel film di Pasolini: se “Storia di Shuggie Bain” è libro dell’anno, è soprattutto per merito suo.  

Angelo Cennamo

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