UNA SPECIE DI SOLITUDINE – John Cheever

Una specie di solitudine

“Nella mezza età c’è mistero, c’è mistificazione. Il massimo che riesca a cogliere di questo periodo è una specie di solitudine.”

I diari che John Cheever scrisse dalla fine degli anni quaranta fino alla sua morte nel 1982 sono stati pubblicati in Italia da Feltrinelli, nel 2012, con il titolo  Una specie di solitudine. Chi era John Cheever? Cosa c’è dietro l’immagine patinata del celebre scrittore americano del Novecento, autore di racconti e di romanzi di successo che noi tutti apprezziamo? Un uomo pieno di contraddizioni: amava la moglie e i figli ma si sentiva fragile, profondamente solo, incompreso, attratto dalle donne ma spaventato dall’idea di riconoscersi  omosessuale “So di avere una natura tormentata… mi spaventa l’indefinitezza, il pensiero di essere omosessuale mi atterrisce“. La lunga narrazione che Cheever fa della propria vita è forse il suo libro migliore, sicuramente il più vero, il più intenso e poetico. Il flusso di coscienza, dettagliato, su ogni evento della vita familiare e professionale, ci riporta ad altre opere letterarie importanti, penso ad esempio alla saga di Frank Bascombe di Richard Ford o alle Lettere struggenti di John Fante, autore dalla personalità molto simile a quella di Cheever per la dipendenza dall’alcol, la malattia degli ultimi anni, soprattutto per le alterne fortune, la povertà che  ha accompagnato entrambi in diversi tratti della loro carriera “Sembra proprio che, giunto a metà della mia vita, io non abbia fatto nessun progresso, a meno che non sia da considerarsi un progresso la rassegnazione…Siamo più poveri che mai. Siamo in ritardo con l’affitto, abbiamo poco da mangiare, relativamente poco: lingua e scatola e uova. Una montagna di bollette. Io posso scrivere un racconto alla settimana, forse più. Ci ho già provato in passato e non ci sono mai riuscito, ma riproverò” Non vi ricorda l’Arturo Bandini di Chiedi alla polvere?

Dicevamo dell’amore per la moglie Mary. Cheever ce la descrive come una donna talvolta cinica, scorbutica, poco attenta alle sue premure. La detestava per questo, ma ne era geloso e soffriva quando lei, sempre più di frequente, respingeva i suoi slanci affettivi e sessuali. L’idea del divorzio accompagnò entrambi per tutta la vita “Mi infilo in quel bidone dell’immondizia che è l’idea del divorzio

Il tormento per la scrittura è ricco di spunti interessanti “Mi piacerebbe avere un vocabolario più muscolare. E devo stare attento con il mio accento raffinato” altre volte “mi ribello alla parlata comune“. Numerosi i passaggi in cui Cheever parla dei suoi colleghi, dell’antipatia per Saul Bellow “Le sue recensioni mi fanno vomitare… Ho usato la prima persona informale ben prima che uscisse Le avventure di Augie March Magari non dirà niente di sensato, ma non gli troverete una ciocca di capelli fuori posto”. Di tutt’altra pasta Nabokov “Apro Nabokov e rimango incantato da questa gamma di ambiguità, questa meravigliosa atmosfera di falsità… Lo stile della mia scrittura sarà sempre in certa misura prosaico“. Di John Updike scrive “Penso che non avesse pari tra gli scrittori della sua generazione“. Divertente il racconto di un incontro a colazione con Philip Roth “Bevo un drink, vado incontro a Philip Roth alla stazione con i due cani al guinzaglio… la conversazione prende un filone sessuale, ma lui parla, trovo, con grazia, acutezza, spirito”. La passione per Hemingway e il dispiacere alla notizia della sua morte “Si è sparato Hemingway, ieri mattina. Era un grande uomo. Non c’è mai stato, nella mia epoca, nessuno alla sua altezza”.

Ma più di ogni altro, il vero tema centrale di questi diari, di ogni suo singolo paragrafo, è la lotta con l’alcol. Spietata, fatta di pianti, incomprensioni, umiliazioni, depressione, liti furibonde con la moglie e con la figlia Susie “Uso il whisky come antidolorifico per buona parte della giornata“. Il quadro che gli prospetta lo psicologo è quello di un uomo nevrotico, narcisista, egocentrico, senza amici. Dopo vent’anni di dipendenza Cheever decide di farsi aiutare dagli Alcolisti Anonimi, entra in una clinica per disintossicarsi. Il tempo corre via, il successo, i premi, l’omosessualità che non è più vissuta come un tabù, ma anche i primi acciacchi e una diagnosi che non dà scampo. Una specie di solitudine è un libro meraviglioso che intenerisce, annoia, commuove, appassiona, il ritratto di una vita speciale e uguale a quella di tante altre, un’opera letteraria maestosa, indimenticabile.

Angelo Cennamo

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BASTARDI IN SALSA ROSSA – Joe R. Lansdale

 

 

Bastardi in salsa rossa - Lansdale

 

Joe R. Lansdale, scrittore texano tra i più eclettici e geniali della ribalta internazionale, capace di mescolare diversi generi, dal western all’horror, dal noir al fantasy, deve molto della sua popolarità alla fortunata saga di Hap & Leonard, la coppia di investigatori più strampalata e divertente della letteratura americana, ora protagonista anche di una serie tv. Il primo bianco, progressista, politicamente corretto, l’altro di colore, omosessuale e dai modi spicci, sempre in mezzo ai guai per risolvere casi complicati e portare a termine missioni ai limiti del possibile. Bastardi in salsa rossa, versione italiana di Rusty puppy – pessima abitudine quella di cambiare i titoli dei libri – esce nel 2017, a due anni di distanza dal capitolo precedente Honky tonk samurai, e non delude le aspettative dei numerosi fan di Lansdale.

Hap Collins e Leonard Pine sono giunti alla soglia della mezza età, due uomini dalla pelle ancora dura, ma stanchi, che dopo mille disavventure e incidenti di percorso – Hap è tornato in vita dopo un delicato intervento chirurgico a seguito di una coltellata quasi letale – sembrano ormai aver rinunciato a voler cambiare il mondo. Alle prese con i postumi dell’operazione chirurgica, Hap, interessato più agli incontri online che alle investigazioni, il suo socio Leonard. Ma quando una donna di colore, Louise Elton, chiede loro di indagare sulla morte misteriosa del figlio Jamar, i due amici capiscono che forse è arrivato il momento di ritornare in pista. Louise racconta che sua figlia Charm è stata pedinata e insidiata da un poliziotto e che Jamar ha cercato di proteggerla. Non ci sono prove di questa versione. Che ci faceva Jamar, studente modello e di buona famiglia, in un ghetto di case popolari come Camp Ropture? Non sarà per caso andato lì per comprare della droga ed essere poi finito in un brutto giro? I due detective trovano un possibile testimone, un tizio che sostiene di aver assistito all’omicidio sul quale stanno indagando, ma le informazioni più utili le ottengono da Reba, una ragazzina di colore molto scaltra che abita a Camp Ropture, “Non è una bambina, è una vampira di quattrocento anni”, dice di lei Leonard. Inizialmente diffidente per aver avuto problemi con la polizia, Reba decide di collaborare ma soltanto a due condizioni: i due dovranno sganciarle una banconota da cento dollari e offrirle un pranzo da McDonald’s. Affare fatto.

Rusty puppy – preferisco chiamarlo col titolo originale –  è un libro scanzonato che affronta dei temi seri e di grande attualità come le discriminazioni razziali, l’emarginazione e il degrado delle periferie, la corruzione, la violenza sulle donne, l’abuso di potere. Lansdale sa veicolare la profondità di certi argomenti con la leggerezza di un fumetto, ed è questo che lo rende uno scrittore speciale, forse unico. La sua scrittura è cruda, essenziale, senza fronzoli, perfettamente aderente alla storie che racconta, ricca di metafore spiazzanti – la metafora è la cifra della prosa di Lansdale. Rusty puppy è un romanzo avvincente e ben costruito, con Mucho mojo, Capitani oltraggiosi e Rumble tumble, uno dei capitoli più riusciti della lunga serie di Hap & Leonard. Dialoghi serrati, tranelli, scazzottate, ritmo incalzante, scrittura piana ma incisiva, battute fulminanti, un pizzico di volgarità: il pulp è servito.

Angelo Cennamo

    

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MIO ASSOLUTO AMORE – Gabriel Tallent

 

Mio assoluto amore - Tallent

Raramente capita di trovarsi tra le mani un romanzo di esordio accompagnato da un coro pressoché unanime di consensi da parte della grande stampa internazionale, della critica, e con delle recensioni entusiastiche come quella di Stephen King, il maestro indiscusso del brivido, che definisce lo stesso libro “un capolavoro”. Gabriel Tallent – nomen omen – è un giovane laureato del New Mexico, cresciuto in una cittadina sperduta del nord della California, la stessa nella quale ha deciso di ambientare la sua opera prima Mio assoluto amore. Mendocino, questo il nome della cittadina, è popolata da vecchi hippie di mezza età e da agricoltori. In una casa in collina, lontano dal centro abitato, vivono Martin Alveston e sua figlia quattordicenne Julia, detta Turtle. Poco distante, in una roulotte, il padre di lui, Daniel. La madre della ragazza è morta per ragioni che ai lettori rimarranno sconosciute fino a pagina 292, ma intuibili già dai primi capitoli. Martin è un paranoico che non è riuscito ad elaborare il lutto della moglie; rifiuta per sé e per la sua unica figlia ogni contatto col mondo esterno, il mondo civilizzato, a suo dire rovinato dal consumismo e da false convinzioni. Beve birra, gioca a poker, lavoricchia e legge libri di filosofia. Ha allevato Turtle come un guerriero ninja, addestrandola all’uso delle armi – quando in scena compare un’arma, diceva Cechov, bisogna che spari – ed è morbosamente attratto da lei, al punto di abusarne sessualmente. Per quanto sia combattuta dentro di sé e molto sofferente, Turtle appare tuttavia legatissima al padre, non può fare a meno della sua presenza, del suo sostegno e di quell’amore malsano che la gratifica e l’angoscia al tempo stesso. Turtle è una selvaggia, cammina scalza nei boschi, uccide e mangia scorpioni, guida il furgone del nonno, a scuola fatica a relazionarsi con i compagni e apprende poco.

Misoginia, isolamento, circospezione. Sono i tre grandi segnali d’allarme” gli insegnanti capiscono che in Julia Alveston c’è qualcosa che non va. Così come lo capisce suo nonno, da sempre critico verso i metodi educativi di Martin. In una delle scene salienti del romanzo, i due uomini, proprio ragionando di Turtle, hanno un alterco violentissimo a seguito del quale il vecchio viene stroncato da un malore. Poco prima, per caso, in una radura, Turtle aveva scoperto l’esistenza di un altro mondo, una realtà a lei fino a quel momento sconosciuta, la dimensione umana dell’amicizia e dell’amore. L’incontro con Jacob, giovane studente delle superiori, può rappresentare una svolta. Jacob è una figura chiave della storia, per Turtle è il punto di contatto con il mondo che esiste, eccome se esiste, fuori da quel microcosmo sudicio e corrotto nel quale l’ha costretta suo padre. Jacob è la salvezza. Come Ciaula che nella novella di Pirandello scopre la luna, Turtle ora vede davanti a sé un orizzonte nuovo e inimmaginato, ma è confusa, sospesa tra due universi paralleli: la normalità e l’amore autentico che le offre Jacob, e la prigionia incestuosa del suo piccolo nucleo familiare, il vincolo imprescindibile dal padre orco, l’uomo che la adora e la sevizia, il padrone del suo corpo, l’essere bello e attraente dal quale non ce la fa a staccarsi. L’arrivo sulla scena della piccola Cayenne, bambina trovata chissà come da Martin in una stazione di servizio, segna il punto di non ritorno. Il gioco perverso di spari nel quale la piccola viene coinvolta e la successiva scoperta di lei a letto con Martin, darà alla giovane protagonista la spinta verso quella decisione sofferta e sempre rimandata, innescando una spirale di alta tensione che culminerà nella scena decisiva, la più violenta e raccapricciante del libro.

Mio assoluto amore è un romanzo impetuoso, con un ritmo incalzante e un finale pirotecnico. Tallent scrive come un veterano, fedele allo schema del thriller classico, ma capace di esplorare nuovi linguaggi dosando alla perfezione ogni elemento e registro narrativo. Il suo racconto è dominato dall’uso e l’abuso delle armi – è uno dei temi di grande attualità negli Usa – e accende una luce sulla violenza invisibile o taciuta perpetrata ai danni di tante madri e di tanti figli che non hanno la forza né il coraggio di denunciare. L’ambientazione cupa e claustrofobica di alcune scene del libro ricorda quella di Misery, il capolavoro di Stephen King nel quale lo scrittore protagonista è tenuto prigioniero da una sua fan malata di mente. Lo stile di Tallent ricorda molto quello di King, per quanto la storia che lui racconti sia tragicamente legata alla realtà.

Angelo Cennamo

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IL SELVAGGIO – Guillermo Arriaga

 

 

Il Selvaggio - Arriaga

Homo homini lupus.

Questa è una storia di uomini randagi e di lupi addomesticati. Una lunga scia di sangue, del sangue che dà la vita e del sangue che la toglie. Un viaggio infinito all’origine di ogni specie vivente, oltre l’inizio dei tempi, quando gli uomini e le bestie, secondo un’antica leggenda eschimese, parlavano la stessa lingua. Nel libro di Arriaga il battito animale si fa parola, la parola è odio, la parola è vendetta, poi gelosia. La parola diventa fuoco, fiamma che brucia la passione e che incendia i ricordi. Oppure scontro, con i vivi accecati dall’ideologia, dalla sete di potere, e con i morti, fantasmi di un passato che non ha mai preso forma. La parola è anche perdono, e poi amore, amore immenso per la famiglia e per una donna, Chelo, che salverà il protagonista dalla spirale di morte in cui la vita sembra trascinarlo. Due trame separate, impetuose, avvincenti, che nelle ultime pagine si fondono in un solo finale, perfetto e commovente.

“Alcuni bambini crescono con amici invisibili, io sono cresciuto con un fratello invisibile”

Messico. Fine degli anni Sessanta. Juan Guillermo è il gemello di un bambino morto durante la gravidanza, sconfitto tragicamente in quella battaglia fetale invisibile, inconsapevole, e sconosciuta a chi vive fuori dal grembo materno. “Per otto mesi un gemello identico a me mi è cresciuto accanto”. Juan è sopravvissuto grazie a numerose trasfusioni, al sangue venduto da un esercito di mercenari che gli hanno trasmesso globuli rossi, piastrine e dna. Con l’ombra del gemello morto e con il peso di una colpa che non gli appartiene, Juan cresce giocando con il fratello maggiore Carlos tra i tetti della città, giochi talvolta pericolosi, indicibili. “A Carlos e ai suoi amici bastava salire sui tetti per scomparire”. Le terrazze sotto il cielo dove Carlos gestisce i suoi traffici illeciti ci ricordano le vele di Scampia raccontate da Roberto Saviano in Gomorra, o le periferie degradate di Roma nel Romanzo criminale di De Cataldo. I sud del mondo si somigliano tutti. Carlos ha una doppia personalità, è uno spietato delinquente che si arricchisce col traffico di droga, ma nello stesso tempo legge e studia, da autodidatta, Platone, Nietzsche, Faulkner, la storia, la biologia. Nessuno nel quartiere è più colto di lui. Juan segue le orme del fratello, e per agevolare le sue trame oscure comincia a frequentare la setta religiosa di Humberto, i bravi ragazzi che se ne vanno in giro incappucciati a correggere chi esce dal seminato, e che per dare una lezione a Carlos, per punire le sue deviazioni dal giusto, lo lasciano affogare in uno dei serbatoi di quelle terrazze dove lui trascorre gran parte delle giornate. La morte di Carlos porta dentro di sé qualcosa della morte di Juan José, l’altro fratello: il serbatoio come metafora del sacco amniotico.

Il racconto di quella tragica fine, mentre i genitori sono in viaggio in Europa, somiglia a una sequenza cinematografica: Juan riporta le annotazioni sul diario di viaggio della madre, e le alterna con gli attimi angoscianti dell’omicidio in una beffarda contrapposizione tra divertimento e dramma.

“Ho avuto due fratelli. Tutti e due sono morti per colpa mia. E se non ne sono stato colpevole del tutto, almeno ne sono stato responsabile”.

La morte non risparmia nessun familiare di Juan. Tre anni dopo i suoi genitori rimarranno vittime di un fatale incidente d’auto, forse un suicidio. Arriaga descrive la scena con una efficacissima grafica onomatopeica, dal sapore fosterwallaciano, nella quale il volo dell’auto e l’urlo dei due coniugi ci appaino come in un’immagine tridimensionale. Parole e forme come suoni. Pagine di  grande impatto emotivo.

Orfano e senza più nessuno “Orfano fino al midollo” Juan si consola con l’amore e con il sesso di Chelo, altro personaggio chiave del romanzo. Chelo è uno spirito libero votato alla promiscuità, una ragazza con un vissuto tormentato che sfoga le proprie insicurezze andando a letto anche con altri uomini; lo fa, dice, per non lasciarsi travolgere dalla depressione.

La vita che Juan deve ricostruire con molta fatica ricomincia da lei, e da Colmillo, un cane lupo che si scoprirà essere un lupo vero, sottratto alla morte che i padroni volevano somministrargli perché indomabile e pericoloso per i vicini. In Colmillo Juan rivede se stesso. Salvare Colmillo vuol dire salvare la sua stessa vita. Ecco la sfida. Poco tempo prima, osservando dei feti umani in un laboratorio scolastico, il giovane protagonista aveva riflettuto sul percorso evolutivo che si compie nei mesi della gestazione in chi nasce prematuro come lui. Quel percorso si interrompe. Così, chi nasce prima del tempo lo fa in un momento intermedio fra uomo e animale “Sono cresciuto con l’idea di essere rimasto per sempre in uno stato semianimale, selvaggio“.

L’identificazione tra l’uomo e la bestia feroce diventa allora uno dei temi centrali del romanzo. Colmillo va domato e riportato nel suo habitat naturale. Dicevamo delle due trame separate. La seconda storia, che per tre quarti del libro non ha nessun punto di contatto con la prima, vede come protagonisti Amaruqu, un cacciatore solitario dello Yukon (Canada), il cui destino si lega indissolubilmente a quello di un lupo, e Robert, un ingegnere chiamato a sondare i luoghi dove deve essere costruito un oleodotto, ma che finisce per rimanere ammaliato e stordito dal “richiamo della foresta”. Nelle ultime pagine le due storie viaggiano finalmente su un solo binario, nella felice e liberatoria ricomposizione di ogni tormento. Sono le pagine forse più potenti ed emozionanti di questa lunga narrazione nella quale ritroviamo gli echi di tanti altri capolavori della letteratura, da Zanna bianca di Jack London all’Amleto di Shakespeare, da Oliver Twist di Dickens a Le avventure di Augie March di Saul Bellow.

Angelo Cennamo

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CHOURMO – Jean-Claude Izzo

 

Chourmo - Izzo

 

Chourmo, in provenzale, vuol dire ciurma, i rematori della galera. Nella lingua corrente la stessa parola indica la mescolanza, la contaminazione culturale tra etnie diverse. Jean-Claude Izzo, scrittore francese di chiare origini italiane – suo padre era emigrato dalla provincia di Salerno – alla mescolanza ha dedicato tutta la sua produzione letteraria, a cominciare dalla celebre trilogia marsigliese. Chourmo è il titolo del secondo libro della saga. Fabio Montale, il protagonista, ha lasciato la polizia “Oggi non ero più niente. Non credevo ai ladri. Non credevo più alle guardie” per vivere di pesca e gustarsi il ritmo lento del mare “Bevevo con piacere e impegno. Ascoltando jazz. Coltrane o Miles Davis, negli ultimi tempi”. Fabio sorseggia del buon vino, mangia delle succulente zuppe di pesce, gioca a belote, e discute di politica seduto al bar con gli amici di sempre, quelli ovviamente sopravvissuti ad agguati e ripicche. Marsiglia è una città affascinante, accogliente, ricca di bellezza e di un’umanità generosa, ma in molti dei suoi quartieri, quelli più poveri e degradati, serpeggiano l’odio e la violenza. Montale, suo malgrado, viene risucchiato in un’indagine che parte dall’assassinio del figlio di sua cugina, la bella Gélou che da giovane aveva fatto girare la testa a tutti  – Montale ne era innamorato – e lo porta negli ambienti razzisti del Fronte nazionale e dei clan mafiosi che bazzicano il porto. I temi centrali del romanzo, perfettamente semplificati dal titolo, sono pertanto la contaminazione, la sua negazione, e l’identità. In una delle scene salienti, Montale litiga duramente con la cugina e l’accusa di aver dimenticato le proprie origini napoletane – nabos dicono i marsigliesi per offendere i meridionali italiani immigrati – e di essere diventata anche lei razzista. Suo figlio è stato assassinato perché si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato: doveva incontrarsi con la fidanzatina araba che i suoi genitori si rifiutavano di ospitare in casa loro. Chi sono i francesi? Si chiede Izzo nei suoi libri. Un algerino che ha combattuto per difendere la Francia è o non è un francese? Albert Camus non era un vero francese?  Quando Izzo ha scritto la sua trilogia, l’11 settembre, gli attentati di Charlie Hebdo e del Bataclan forse non erano eventi prevedibili, eppure i primi segnali di quello che sarebbe accaduto di lì a qualche anno cominciavano a vedersi. Scrive Izzo “Troppo alcol o troppa religione, è la stessa cosa. Fanno male. E sono quelli che hanno fatto le peggiori cose che vogliono imporre il proprio modo di vedere! Di vivere!”.

“Chourmo”, mescolanza, è questa la strada che ha imboccato la città di Marsiglia, che sarà sempre e soltanto l’ultimo scalo del mondo “Il suo futuro appartiene a coloro che arrivano. Mai a quelli che partono”

 Angelo Cennamo

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SENZA CODA – Marco Missiroli

Senza coda - Missiroli

A Marco Missiroli piace raccontare l’infanzia con la voce dei bambini. In Atti osceni in luogo privato, il romanzo della sua consacrazione, pubblicato da Feltrinelli nel 2015, il giovane protagonista assiste dallo spiraglio di una porta all’adulterio di sua madre con un amico di famiglia. Ne Il buio addosso, una ragazzina zoppa che vive in un paesino dell’Alta Provenza, nell’Ottocento, viene discriminata e reclusa per la sua diversità. Senza coda è il libro d’esordio, vincitore nel 2006 del premio Campiello Opera prima. Al centro della storia c’è il piccolo Pietro, figlio di un politico siciliano colluso con la mafia. Nel romanzo la Sicilia viene appena citata, non si vede, così come non si vede tutto il resto: la professione del padre, i rapporti con il crimine organizzato, gli antefatti. Missiroli ci mostra esclusivamente il mondo di Pietro e lo fa con gli stessi occhi del bambino. I turbamenti per la sofferenza della madre, che in silenzio e senza ribellarsi subisce la violenza del marito, forse complice dei suoi misfatti, il perimetro degli spostamenti abituali, quello dei suoi giochi: la villa di famiglia, il viale con la ghiaia, il vecchio giardiniere Nino, la macchina “Bianca” con la quale il piccolo protagonista sogna di viaggiare come un adulto, e quella strana passione per le lucertole che lo diverte così tanto, e che condivide con il compagno di scuola Luigi. Pietro le uccide, taglie le loro code e ne conserva i corpi mutilati in un barattolo. La vita di Pietro non è poi così diversa da quella di tanti altri suoi coetanei, ma c’è una frase, una preghiera che il padre senza nome e senza volto continua a sussurrare al suo orecchio, una misteriosa richiesta alla quale Pietro non riesce a sottrarsi: “Fra tre giorni ci vai da Carmine, a papà?”. Carmine è il volto del male, il muro contro il quale si infrangono l’ingenuità, il candore, i sogni del protagonista. Di tanto in tanto, Pietro è obbligato ad incontrarlo in un luogo nascosto per consegnargli una busta gialla, sigillata. Quale segreto è contenuto in quelle buste? Le parole del bambino scritte in corsivo e alternate alla narrazione della storia sono la confessione intima delle sue paure, le domande alle quali Pietro non riesce a dare delle risposte. Pensieri che ci riportano alle riflessioni di un altro personaggio della letteratura moderna, Oskar Schell, il ragazzino di Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer. Come Pietro, anche Oskar vorrebbe decifrare l’enigma legato ad una busta trovata per caso nel ripostiglio di casa sua. La molla che lo spinge a vagare, da solo, per le strade di New York, alla disperata ricerca di un dettaglio, uno qualunque, che possa spiegare, giustificare la morte di suo padre, ed aiutarlo ad elaborare il lutto.

Senza coda è un romanzo tenero e crudele che racconta la breve storia di una rivelazione. Fin dalle prime pagine, Missiroli è bravo ad alimentare l’attesa, a condurre il lettore poco alla volta alla la tragica conclusione della vicenda, l’epilogo agghiacciante e sorprendente di una trama ben congegnata e sviluppata attraverso una scrittura sempre precisa, elegante, cristallina. Un libro bello e potente che ha rivelato a poco più di vent’anni uno dei migliori talenti della narrativa italiana.

Angelo Cennamo                                      

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SEI STATO FELICE, GIOVANNI – Giovanni Arpino

Sei stato felice, Giovanni - Giovanni Arpino

Di Giovanni Arpino ricordavo la collaborazione con Il Giornale di Indro Montanelli. Erano i primi anni Ottanta, Il Giornale era un quotidiano controcorrente, lo è sempre stato, spigoloso ed arguto come il suo direttore, Arpino ne curava la pagina culturale, ma scriveva anche di cronaca e di costume. Ritrovarlo in libreria con il suo romanzo d’esordio, ripubblicato dalla minimum fax con una veste grafica rinnovata ed elegante, è stata una piacevole sorpresa. Sei stato felice, Giovanni Arpino lo scrisse nel 1950, a poco più di vent’anni, durante gli studi universitari, in poche settimane, dentro una stamberga genovese. Di questo libro l’autore non conservò mai un buon ricordo, tanto da essere contrario ad una sua ristampa. Chissà perché lo giudicava un romanzo imperfetto, zoppicante “Il mio gettone d’esordio è picaresco, anarchico, corsaro. Il suo sigillo è l’avventura, che si innerva ovunque, in casa e fuori, sui terreni conosciuti a memoria e no, tutti permeabili alla sorpresa, al colpo di dati”. Le 240 pagine dell’ultima edizione scorrono via con leggerezza. Il piglio è quello del romanziere americano, Arpino amava i classici della letteratura d’oltreoceano: Hemingway, Faulkner, Steinbeck. E non è un caso se il plot consegnato alla Einaudi dal giovane e bizzarro studente piemontese sia stato promosso proprio da uno scrittore che la cultura americana forse l’amò più di quella del suo paese: Elio Vittorini “Caro Arpino, il suo libro mi è veramente piaciuto”.

Sei stato felice, Giovanni non ha una trama, è una finestra spalancata sulla vita di uno scansafatiche, belloccio, squattrinato, che se ne va in giro senza meta per i carruggi genovesi in cerca di fortuna o di chissà cosa “A me piaceva vivere così, alzarmi a sonno finito, essere legato solo al sole o al freddo, andare al porto, passeggiare”. Gli scenari squallidi ma ricchi di umanità nei quali Arpino colloca i personaggi del racconto, il protagonista e i suoi compagni di viaggio: Mario, Olga, Mangiabuchi, sono gli stessi che ritroveremo più avanti nelle canzoni di Fabrizio De André e di Gino Paoli. La Genova di Arpino è una città sofferente, impoverita dalla guerra, brulicante di traffici oscuri, ma smaniosa di rimettersi in cammino e di guardare al futuro con speranza. Il porto, i vicoli affollati di marinai e di puttane, gli odori, i sapori mediterranei ci ricordano la Napoli di Ermanno Rea e la Marsiglia di Jean-Claude Izzo. Il girovago di Arpino non ha le idee molto chiare, vive alla giornata, litiga, si ubriaca, contrae debiti, e non distingue il sesso dall’amore

“Ero stato un mucchio di cose, mai un uomo che comincia a muoversi davvero. Ero stato un mucchio di vite cominciate e lasciate lì una per una come vecchi fazzoletti per noia stupidaggine irritazione. Ora quelle vite dovevano servirmi”.

Una storia di sbronze, un inno all’amicizia, alla libertà, alla vita.

Ero stato felice perché troppo libero e senza legami, ora potevo scegliere e fare e disfare ogni cosa a modo mio“. È tempo di ripartire, Giovanni. Per dove, non ha importanza.

Angelo Cennamo

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IL MALE OSCURO – Giuseppe Berto

 

 

Il male oscuro - Berto

 

Quando Ernest Hemingway definì Giuseppe Berto tra i migliori scrittori italiani con Vittorini e Pavese, diversi romanzieri di quel tempo storsero il naso, molti furono rosi dall’invidia. Berto, del resto, non fece mai mistero del clima di ostilità alimentato intorno alla sua figura di uomo libero, estraneo alle solite conventicole, da una certa editoria dominante di sinistra. Nel 1964, all’età di cinquant’anni, dopo aver fatto i conti con una brutta malattia che lo aveva fiaccato nel fisico e nell’anima, Berto si ritira in un luogo isolato della Calabria, Capo Vaticano, e in poco più di due mesi butta giù di getto alcune centinaia di pagine poi racchiuse in un libro destinato a sconvolgere la letteratura italiana: Il male oscuro. E’ un non-romanzo, spiegherà lo scrittore nell’appendice al testo, che racconta la sua lunga lotta con il padre, una lotta durata sessant’anni. Il libro, che vinse sia il Premio Viareggio che il Campiello, per stessa ammissione dell’autore riflette due importanti precedenti della narrativa: La coscienza di Zeno di Italo Svevo e La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, opera che ne ha ispirato non solo l’impianto narrativo ma anche il titolo:

“Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato”.

A differenza di questi due romanzi, il racconto di Berto non si limita tuttavia a descrivere una nevrosi, ma la incarna, le dà voce, la storia è come se si raccontasse da sola

E in effetti accade che fatti e pensieri sgorghino in gran parte automaticamente da quelle oscure profondità dell’essere dove la malattia prima e la cura poi sono andate a sfruculiarli fino a fargli venire questa immoderata voglia di esternarsi della quale mi sembra di essere passivo esecutore”

Il male oscuro, scritto secondo uno stile che Berto definirà “psicanalitico”, molto moderno, con una prosa scarna e una punteggiatura minimalista, per quanto affronti un tema serio e scabroso come la malattia, non è affatto un libro deprimente, e neppure noioso. Non mancano infatti spunti ironici, momenti di comicità che ne alleggeriscono la narrazione alternando toni, registri e stati d’animo in una perfetta sincronia di situazioni che comprendono ogni aspetto della vita quotidiana dell’autore: le difficoltà della professione di sceneggiatore, la disperata ricerca della gloria, la perenne mancanza di quattrini, il matrimonio litigioso con la giovane consorte “la ragazzetta”, oltre ovviamente ai sensi di colpa legati alla morte del padre, che condurranno lo scrittore alla nevrosi e alla psicanalisi

“Come ha dimostrato il padre mio che da vivo non contava più niente mentre appena morto o poco dopo ha ripreso a soverchiarmi……..Proprio l’abbandono del padre in punto di morte avrebbe determinato il conflitto morale che mi ha condotto alla psiconevrosi, è quella la realtà orrenda dalla quale fuggo per rifugiarmi nella malattia” 

Il male oscuro è un libro struggente che ci riguarda tutti: padri, figli, amici, lavoratori, amanti. Scavando nella propria anima, Berto si mostra al lettore per quello che è: un uomo fragile, disperato, ma desideroso di ritornare a vivere, per il bene di se stesso e soprattutto di sua figlia, nella quale rivede la propria infanzia e la paternità sconosciuta di quell’uomo severo e scorbutico che morendo lo ha scaraventato nell’abisso. Il rapporto difficile tra Berto e suo padre, ma anche gli stenti di una professione povera di successi mi hanno ricordato la parabola di John Fante, il giovane scrittore squattrinato che sogna la gloria e che in uno dei suoi capolavori, La confraternita dell’uva, si scontra con il vecchio Nick Molise, il padre padrone che non gli perdona di averlo abbandonato per inseguire il successo.

“Ed ecco che piango un’altra volta sul mio fallimento e sconforto, e sulla mia solitudine al limite del nulla”

Angelo Cennamo

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LA PELLE – Curzio Malaparte

 

La pelle - Malaparte

 

 

Il primo ottobre del 1943 è una data memorabile per la storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa intera dalle sofferenze della guerra, e perché proprio quello stesso giorno scoppia una terribile peste, una peste che non corrompe il corpo ma l’anima delle persone, e che da Napoli si diffonde in Italia e nel resto del continente. I soldati alleati ne rimanevano immuni tanto che il sospetto che fossero loro a portare il morbo, a costringere le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé, divenne presto una certezza. Curzio Malaparte, già autore del besteller Kaputt, scrive un romanzo reportage su quei giorni terribili, decide di intitolarlo La peste, ma nel 1947 l’uscita de La peste di Albert Camus lo costringe a rivedere la propria decisione e a cambiare il titolo in  La pelle.

L’esperienza di Malaparte ricorda quella di altri scrittori illustri che dalla guerra vissuta in prima persona, verrebbe da dire vissuta sulla propria pelle, trassero romanzi crudi ed appassionanti come questo. Ernest Hemingway, ad esempio, trasferì ricordi ed appunti della prima guerra mondiale, da lui combattuta sul fronte italiano, in Addio alle armi. Beppe Fenoglio rappresentò se stesso ne Il partigiano Johnny, il romanzo “anglo-italiano” che racconta la gloria e la ferocia della Resistenza nelle langhe piemontesi da una visuale diversa rispetto alle solite narrazioni sulla guerra civile.

La pelle è un viaggio lungo e struggente nella Napoli deturpata dagli orrori della seconda guerra mondiale. Il ritratto brutale, commovente e poetico di un’umanità sbandata, costretta a qualunque bassezza pur di sopravvivere “Durante la guerra si lottava per non morire…..con la liberazione si doveva lottare per vivere……lottare per vivere è una necessità vergognosa, può essere una cosa umiliante, orribile……Non è più lotta contro la schiavitù per la libertà, è lotta contro la fame ”. Malaparte ci conduce nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, tra prostitute e lazzaroni che fanno a gara per comprare e rivendere soldati di colore, anche per poche ore, il tempo di trascinarli in un bar, ubriacarli e spogliarli di tutto quello che hanno addosso. Un grosso business che consentiva ai più lesti e intraprendenti di mettere da parte capitali ingenti.

“La libertà costa caro. Molto più caro della schiavitù. E non si paga né con l’oro, né col sangue, né con i più nobili sacrifici: ma con la vigliaccheria, la prostituzione, il tradimento, con tutto il marciume dell’animo umano”.

Il girone dantesco attraversato da Malaparte in compagnia di alti ufficiali americani, con i quali lo scrittore interloquisce per denunciare la crudeltà dei vincitori e difendere la dignità di quella plebe calpestata e vilipesa, comprende anche ambienti colti, intellettuali, spesso frequentati da aristocratici decaduti o da omosessuali trozkisti che leggono Proust e Sartre “Si faceva della pederastia credendo di fare del comunismo”. La scena della Figliata, l’antica cerimonia sacra del culto uraniano con la quale si rappresenta il parto di un uomo, ci riporta alle immagini della Napoli velata di Ozpetek; l’eruzione del Vesuvio con “Quella gengiva rossa che orlava i tetti” ai “Grafici d’asfalto” del Re pallido di Foster Wallace.

È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla” è questo, in estrema sintesi, il messaggio triste e beffardo contenuto nello straordinario reportage di Malaparte, che come scrisse Milan Kundera “con le sue parole fa male a se stesso e agli altri”.

Angelo Cennamo

 

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