SABBATH’S THEATER – Philip Roth

Nel 1995, con Sabbath’s Theater – il Teatro di Sabbath – in piena maturità, Philip Roth, il più grande romanziere del suo tempo, si consacra tra i migliori scrittori di sesso. Il libro racconta la storia del sessantaquattrenne Mickey Sabbath, un ex burattinaio tormentato dai fantasmi del passato: il fratello più giovane morto in guerra, la madre, la prima moglie fuggita chissà dove, e Drenka, l’adultera con la quale ha sfogato per tredici anni tutta la sua depravazione sessuale “Con Drenka era come lanciare un sasso in uno stagno. Entravi, e le ondine si dispiegavano sinuose dal centro verso l’esterno finché l’intero stagno si ondulava e tremolava di luce”. Mickey Sabbath è un personaggio grottesco, sembra uscito dalla commedia dell’arte “un bugiardo totale, una canaglia, subdolo e disgustoso che si fa mantenere dalla moglie e va a letto con le bambine”. Un uomo senza scrupoli che conduce un’esistenza insensatamente fuori da ogni convenzione, senza nessuno scopo e senza armonia. Ma Mickey ne è consapevole e prova a farsene una ragione: “ho fallito perché non mi sono spinto abbastanza oltre! Ho fallito perché non sono andato fino in fondo.” In una delle scene salienti del romanzo, l’amico Norman, che nella vita ha avuto più fortuna e successo di lui, scopre che Sabbath ha tentato di sedurre sua moglie, e che nelle tasche dei pantaloni nasconde una mutandina di sua figlia. Colto in flagrante, il vecchio artista risponde alla sua maniera, alla maniera di Roth: “So che ti stupirò, Norman, ma oltre a tutte le altre cose che non ho, non ho neppure una teoria. Tu trabocchi di amabile comprensione progressista ma io scorro veloce lungo i marciapiedi della vita, sono un mucchio di macerie, e non possiedo nulla che possa interferire con una interpretazione obiettiva della merda.” È un povero disperato, Mickey, che non vive dando le spalle alla morte come fanno le persone normali. Non ispira simpatia nei lettori, è un uomo inassolvibile, solo l’autore sembra provare per quei fallimenti, per quella vita ripugnante, una vera compassione: “Caro lettore, non giudicare troppo duramente Sabbath: molte transazioni farsesche, illogiche e incomprensibili, sono classificabili grazie alle manie della lussuria.” Dopo una sequela di disastri, nelle ultime pagine del libro, le più esilaranti, ormai sull’orlo della follia, Sabbath cerca in ogni modo di farla finita. Nel cimitero dove riposano i familiari prova goffamente a organizzare la sua sepoltura immaginando il giusto epitaffio: “Morris “Mickey” Sabbath, Amato Puttaniere, Seduttore, Sfruttatore di donne, Distruttore della morale, Corruttore della gioventù, Uxoricida, Suicida 1929 – 1994.” Ma è solo un altro fallimento, l’ennesimo, l’ultimo. Non c’è verso, Sabbath è un uomo condannato a soffrire, la sua vita di povertà e di lussuria è una carambola di sconfitte già scritte, una commedia dolorosa in cui imperversa lo sfacelo, in cui imperversa l’odio, in cui imperversa la disobbedienza, in cui imperversa la morte. Il più rothiano dei romanzi di Philip Roth. 

Angelo Cennamo

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CONVERSAZIONE CON CLAUDIA DURASTANTI

Claudia Durastanti è nata a Brooklyn trentanove anni fa, ma alle sue spalle ha già una laurea in Antropologia culturale, quattro romanzi, il quinto è appena uscito, una lunga serie di traduzioni di libri americani, saggi, articoli, recensioni anche musicali per la rivista Mucchio Selvaggio. Dal 2021 cura La Tartaruga, marchio de La Nave di Teseo, suo attuale editore. Cresciuta tra gli Stati Uniti e la Basilicata, vive stabilmente a Londra dove ha contribuito a fondare il “Festival of Italian Literature”. Collabora infine (infine?) con il Salone del libro di Torino. La prima cosa che mi viene da chiederti è a che ora iniziano le tue giornate e se ti resta del tempo libero. 

Ora iniziano alle 7.30 e procedono in grande confusione tra treni, traduzioni, pagine di lettura rubate (ormai leggo i libri che desidero leggere come se mi stessi ubriacando di nascosto, è diventata un’attività quasi viziosa), manutenzione del lavoro e mestizia perché nelle fasi di promozione dei romanzi senti i pensieri originali che si allontanano, scrivi peggio e pensi peggio. Poi finisce. E torno a svegliarmi alle 10 per andare a dormire alle 2. 

Ti ho conosciuta come autrice nel 2019 (poi ho recuperato il pregresso). La straniera, il tuo quarto libro, un po’ romanzo un po’ memoir (“La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”) ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica e ha sfiorato il premio Strega. Quando lo lessi rimasi folgorato prima ancora che dalla storia, dalla bellezza e dalla modernità della scrittura. La straniera è stato anche libro dell’anno per Telegraph Avenue. Mi risulta che è stato tradotto in una ventina di paesi, dico bene?   

Sono diventati venticinque, ha avuto una storia particolare come libro e per certi versi irripetibile. Da traduttrice, ho una percezione approfondita e anche particolare della traducibilità, non credo che sia tutto necessariamente trasferibile in ogni lingua e contesto. Quello era un libro intrinsecamente comparato. Una cosa che volevo fare dal giorno dell’uscita e per cui non ho avuto mai tempo era passare un po’ di tempo con mia madre a NY. L’ho portata lo scorso Natale, e passeggiando verso South Street Seaport mi ha raccontato delle storie assurde sulla sua vita americana che non finiranno mai nella Straniera. Stavo chiudendo le bozze del libro nuovo e ho voluto prepararlo che quella fase della mia vita durata cinque anni stava un po’ per chiudersi – La straniera avuto davvero la fortuna di vivere una vita lunghissima – e dunque magari in un certo senso sarebbe finita questa fase anche per lei che era al centro di quel romanzo. Mia madre mi ha guardato in maniera perentoria intimandomi: “La straniera non finirà mai” (ho una foto buffissima in cui sembra il patriarca di Succession mentre lo dice)  e proprio in quel momento mi è arrivata una mail di Elisabetta Sgarbi per dirmi che i diritti del libro erano stati venduti in Giappone. Ho riso moltissimo. Ha ragione lei, per alcuni aspetti. Ma poi è uscito Missitalia, che per tanti aspetti è un romanzo più personale, intimo, nella misura in cui riguarda le mie visioni e ossessioni e lo stato dei miei pensieri sulla storia e la contemporaneità. E avrà le sue traduzioni, che saranno altrettanto preziose, anche se rispetto alla Straniera si tratta di ere geologiche contigue ma separate. 

(La straniera) è una storia di confini e sul superamento dei confini: normalità / disabilità, povertà / benessere, il silenzio  e il suono delle parole dette, il dialetto lucano e l’italiano, lo studio e la cultura come strumento di emancipazione. Un altro tema del romanzo è l’identità. Tu sei nata a New York e ci sei rimasta fino ai sei anni. Cosa vuol dire nascere in un posto come New York? Pensi che abbia segnato in qualche modo il tuo destino di autrice, che lo abbia caricato di ulteriori significati? 

Oltre all’infanzia ho avuto le estati americane, tutte fino ai diciassette anni, poi ho iniziato a fare altri viaggi. Penso che questo punto di origine mi abbia trasmesso immediatamente un senso di elettricità e di importanza, di ricerca del pericolo e dell’angolo sbagliato; invece di capire me stessa e la mia casa e la mia famiglia volevo capire le case degli altri e le strade in cui stavano male e le ragazzine che scappavano e rubavano nei negozi e si sceglievano presto un’appartenenza e una divisa fuori dalla famiglia. E questo forse ha lasciato un’impronta importante. New York mi ha messo subito a contatto con i fantasmi dell’arte e della storia, probabilmente mi ha dato sin da subito la sensazione di possibilità e affrancamento dalla solitudine. E io sono diventata una lettrice e scrittrice così, cercando i miei sentimenti selvaggi nella folla, negli altri. Ci ho messo tantissimo tempo a tornare a me. Non so come sarebbe andata se fossi stata una creatura silvana o nata e cresciuta in provincia, negli anni della formazione ho avuto sia il deserto lucano che la domenica a messa che appunto questa dimensione totalizzante della città assoluta, cruda, verticale. Per certi aspetti è stato un privilegio assoluto: vivere NY senza sparirci dentro, senza addomesticarla del tutto, senza annoiarmene, anche se ora che sono adulta e ci passo più o meno un mese l’anno sento che si è sedimentato tutto e forse ho perso anche una lingua con cui raccontarla.  

Il tuo romanzo di esordio Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (premio Mondello giovani) è praticamente un romanzo americano. La storia risente chiaramente delle tue letture giovanili, mi viene in mente su tutti Meno di zero di Ellis, ma anche Le ragazze di Emma Cline, che però è uscito qualche anno più tardi. Passami la battuta: sei stata Emma Cline prima di Emma Cline. 

Che esordio impressionista quello! Anche se credo che con L’ospite abbia scritto il suo libro davvero importante. Quello che mi piace di Cline è il suo modo di flirtare con i generi, che sia il true crime o l’horror psicologico mettendo tutto indissolubilmente al servizio della frase, dell’estetica, dello stile, che per alcuni è il suo vero peccato. Come se diventasse troppo filmica. Ma capisco quel vizio originale: per me all’inizio il modo era tutto, forse lo è ancora anche se credo che dalla Straniera in poi e in parte con la sequenza che ha portato a Cleopatra va in prigione sono diventata più una scrittrice di forma, e credo che il rischio sia di un approccio così il manierismo, l’eccesso di stile ovviamente. Ma io ho avuto un approccio molto fisico alla letteratura americana, prima ancora di Ellis e Didion e DeLillo ed Egan sono stata una grande consumatrice di Fitzgerald e Kerouac e ho capito che non volevo fare niente se non c’era ritmo e possessione, se la lingua non diventava anche un esorcismo, un’immagine indelebile, uno squarcio nella percezione che solo un certo scrittore o una scrittrice poteva generareInsistere e accelerare fino a creare un proprio mondo, un proprio codice. È come diceva quel personaggio nella Trama del matrimonio di Eugenides modellato su David Foster Wallace, che era ossessionato dal voler diventare un aggettivo. Ho amato gli autori divorati da questa ambizione. Rispetto a una letteratura seriale impostata sulla somiglianza e la riconoscibilità, continuo a difendere la differenza.

Io e te apparteniamo a generazioni diverse eppure siamo cresciuti leggendo gli stessi autori; prima ho citato Ellis, ce ne sono altri: DeLillo, Carver, McInerney, David Foster Wallace… A proposto di Wallace, una volta chiesi a Luca Briasco se il postmodernismo può dirsi un’esperienza archiviata dopo opere come La scopa del sistema e Infinite Jest. Briasco rispose che è morto e sepolto con Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan. Uno degli autori che traduci è il premio Pulitzer Joshua Cohen (ad oggi in Italia sono usciti quattro libri di Cohen con Codice editore, tutti e quattro li ha tradotti Claudia Durastanti. Durastanti è per Choen quello che Silvia Pareschi è per Franzen: la sua unica voce italiana). Senza nulla togliere all’autorevolissima opinione di Briasco, non pensi che autori come Cohen e Ben Lerner, per esempio, il postmodernismo riescano in qualche modo a tenerlo in vita e a declinarlo secondo altre forme?

Premetto che io ho un rapporto distorto con l’idea di classico. Tanto che in A Chloe per le ragioni sbagliate c’è un personaggio che vuole laurearsi con una tesi che mette al confronto Nikolaj Stavroghin dei Demoni di Dostoevskij e Nick Shay di Underworld di DeLillo, perché per me Underworld è un classico contemporaneo, e cioè un romanzo che non può essere scritto e sovrascritto, che genera ed esaurisce la sua unicità. Io credo che se vogliamo usare delle categorie, dobbiamo esporle all’andamento temporale, non per segnalarne la nascita e la fine (il romanzo non muore, l’autofiction non muore) ma per riconoscerne le varie fasi interne. Cioè un genere letterario diventa abbastanza maturo o vecchio da maturare varie stagioni dentro di sé. E il postmoderno a cui si riferisce Briasco chiudendolo con Il tempo è un bastardo è finito sottotraccia, ma abbiamo il postmoderno di Joshua Cohen o di Valeria Luiselli ma soprattutto dell’ultimo romanzo di Catherine Lacey, Biografia di X, anche se credo che resterà un episodio circostanziato nella sua produzione letteraria. Così a spanne mi verrebbe da dire che si tratta di un postmoderno in cui il romanzo ha coscienza della sua fragilità e debolezza, allora saccheggia dalla literary non fiction, si rigenera e torna a sé stesso in forma aumentata. L’altro elemento di crisi rispetto al postmoderno di Egan, che è e resta una grande progettatrice di interni quando si tratta di storie, è l’idea (appunto originaria e costitutiva della narrativa postmoderna) di qualcosa che non può tornare e non deve tornare. Non a caso lei ha tratto tantissima influenza dalla serialità televisiva, e il fatto che anche questo formato ora non riesca più a portare avanti dei progetti labirintici ma perfettamente giustificabili in termini di senso e costruzione del mondo, fa sì che si viva una fase di scritture di quel tipo in cui c’è una maggiore precarietà e crisi di senso, che nei casi migliori diventa materia viva del romanzo. E quindi forse siamo addirittura a un postmoderno che vampirizza le sue fasi germinali, un po’ un uroboro. 

Un altro scrittore che traduci è Nickolas Butler (uscito dal prestigioso Iowa Writers’ Workshop). Una volta ebbi con lui un piccolo screzio, niente di che; gli dissi che a volte dava la sensazione di essere uno scrittore costruito, impostato secondo gli stereotipi del Midwest: barba, camicia a quadri di flanella, storie di pick up, fienili, buoni sentimenti, roba del genere. Ma io sono autenticamente del Midwest! rispose piccato. Vabbè, pace fatta. Il mondo di Butler come quello di Tiffany McDaniel, Kent Haruf, Ron Rash, Willie Vlautin…  così rustico, bianco, conservatore, trumpizzato, è l’ultima frontiera di un’America di provincia ancora scolpita nell’immaginario di noi europei ma che nelle nuove tendenze è un po’ scemata. Come sta cambiando la narrativa americana anche alla luce di fenomeni relativamente recenti come il Sensitive reading, la Cancel culture eccetera? 

Butler è uno scrittore antico, ha un approccio alla pagina e alle storie che forse aveva più a che fare con Sherwood Anderson che con Kent Haruf, almeno agli inizi. C’era il bagliore di quel tipo di candore, soprattutto nei racconti. E credo che per la fortuna della sua ricezione, ma anche per la sfortuna della sua autonomia come autore, Butler sia emerso in un momento in cui la traduzione della letteratura americana in Italia ha optato per un paesaggio rurale minimo, a volte consolatorio, selezionando volutamente determinate opere che ricostruissero una mappa di quel tipo. Ma è stata un’America per certi aspetti immaginaria, in differita, un Midwest diluito che ha fatto scuola e piccolo palinsesto in Italia, basandosi sulla somma di certi libri simili e affini, mentre lì accadeva anche altro e soprattutto altro. Quindi quando parliamo di letteratura americana contemporanea, è importante tenere presente che la somma delle traduzioni in Italia e delle scelte di catalogo crea degli scenari artificiali, che possono essere belli e riusciti, ma che trovano senso in questo contesto e in questo paese. Io credo che la narrativa più interessante almeno fino a qualche anno fa sia discesa da non americani madrelingua: Yuri Herrera, Ocean Vuong anche se non so davvero come si evolverà la sua scrittura e se resterà un episodio, Aleksander Hemon, Valeria Luiselli, oppure da pensatori formali come Ben Lerner o Catherine Lacey o Hernan Diaz. Lacey è forse l’ultima autrice americana che mi ha generato un entusiasmo pari a quello di Jennifer Egan. O da autori come Denis Johnson, che per me sta alla letteratura americana come Paul Thomas Anderson sta al cinema: con un senso di essere l’ultimo, ed è stato l’ultimo, poco letto, compreso, volutamente subdolo nel cambiare forma alle aspettative di lettura. Sul sensitive reading credo che aumenteranno i romanzi nella vena di Percival Everett: e cioè smascherando l’idea che questa idea di letteratura auto-rappresentativa e sanificata sia portata avanti dalle minoranze o che sia nel nome di presunti eserciti immaginari. Sul fronte britannico, basta pensare alla meraviglia di Ragazza, Donna, Altro di Bernardine Evaristo. Le schegge di Ellis ha avuto una buona vita editoriale e quando dice che ha dovuto ambientarlo per forza per aggirare il conformismo dei discorsi politicamente corretti sul presente io non gli credo: è andato nel passato perché lì sta la sua forza, lì la terra mitica della sua scrittura, lì funziona l’ingranaggio. Come analista del presente Ellis ha le armi spuntate. Come romanziere è ancora potente. 

Da qualche anno hai accettato una sfida impegnativa: curare e rilanciare il glorioso marchio de La Tartaruga. Che esperienza si sta rivelando?

Sono felice se questa esperienza serve a far circolare dei testi poco conosciuti o talmente noti da diventare quasi sacri come Sputiamo su Hegel, per dare a questi libri una vita pubblica, non basata per forza sui numeri, ma sullo scambio, il consiglio, la creazione di una piccola biblioteca. Sono pochi libri che hanno voglia di restare o di tornare.  È una dimensione nuova per me, mi permette di far esistere cose che mancavano come Mia madre ride di Chantal Akerman o Coniglio maledetto di Bora Chung che rischiano di smarrirsi in cataloghi sensibili al femminismo ma anche molto vari e discontinui. Per natura, non credo di saper fare le cose a tempo indebito. In ogni rivista, realtà editoriale, posto di lavoro o festival culturale sono arrivata per imparare, sono arrivata al punto di assumermi delle responsabilità e poi ho provato la gioia di vedere che un’intuizione personale poteva diventare un’ispirazione per qualcun altro. Senza questa trasmissione di senso inizio a sentirmi male. È faticosissimo oltre che noioso lasciare sempre e solo il proprio marchio su tutto, ed è bellissimo invece quando la letteratura, i libri degli altri, sono talmente potenti che ti sovrastano e ti fanno quasi sparire. È uno strano momento di pace. 

Proprio in questi giorni hai concluso l’editing del tuo nuovo romanzo. La straniera risale a quattro anni fa, c’è molta curiosità tra i tuoi lettori. Puoi darci qualche anticipazione? 

Sono arrivata talmente in ritardo che il libro è uscito quasi da due mesi. Si intitola Missitalia, è un trittico che tratta la storia come sogno e il sogno come storia in duecento anni tra Val d’Agri, Roma, e la Luna, con abbondanti interferenze americane. Scriverlo è stata un’esperienza di esplorazione incontenibile, parla di scoperta di una risorsa, di sfruttamento intensivo di una risorsa e di rapporto con la fine di quella risorsa. Che può essere il petrolio, l’amore, forse anche il romanzo. Una scrittrice che ammiro molto e a cui voglio molto bene mi ha detto che dopo averlo letto le era sembrato un oggetto venuto da una dimensione altra, che le aveva lasciato un po’ una sensazione di curiosità e di meraviglia e voglia di giocarci. È una definizione generosa, ma mi ha reso contenta. E mi sto abituando piano piano alle sue affinità e divergenze con La straniera. 

I dati sulla lettura in Italia non sono incoraggianti: oltre il 60% dei nostri connazionali non legge neppure un libro all’anno, con punte dell’80% al sud. Alla letteratura in troppi preferiscono altre forme di racconto: fiction tv, cinema, social… Pensi che il romanzo abbia i giorni contati? 

Credo che l’editoria per come è strutturata ha dei giorni se non contati sicuramente turbolenti. Sono le solite storie sui circoli viziosi della sovraproduzione, del ciclo isterico della pubblicazione, che per contrasto sta creando delle realtà quasi vittoriane, di editoria mecenate a ritorno zero, con progetti avulsi da qualsiasi razionalità economica. Mi sembra una fase ripetitiva, isterica. Ma il romanzo vitale, quello che porta avanti il senso del romanzo o la sua permanenza nella storia, va avanti a prescindere da queste logiche. È condannato ad emanciparsene, ma non sempre si trova il coraggio di assecondare quello che chiede. E allora si scrivono libri, si scrivono esemplari di narrativa, si scrivono buone opere con un senso di mercato preciso, ad alta funzionalità. Si è sempre fatto così. E credo che ogni autrice e ogni autore possa essere estremamente visionario o estremamente cinico in base alle circostanze della vita, dal suo rapporto di fiducia con la letteratura. Uno spera di non essere mai troppo scoraggiato da rischiare, e da assecondare una profonda visione intima e interiore. 

Trump. L’ho citato prima a proposito dell’America rurale di Butler. In tempi non sospetti (American Psycho di Ellis), negli anni della Casa Bianca (Il decoro di David Leavitt) e sotto mentite spoglie (Il presidente dell’ONAN di Infinite Jest di Wallace non è Donald Trump ma quel Johnny Gentle gli somiglia molto) ha segnato anche la fiction degli Stati Uniti, il racconto della nazione. Secondo te, Trump è il prodotto di una certa America o è una certa America che è stata forgiata e plagiata da personaggi come Trump? 

Direi la prima. Un tempo era un americano singolare e marginale, oggi per certi aspetti è un arci-americano che gode di risonanza e popolarità, perché la storia tende a elevare certi tratti culturali e spirituali in base alle circostanze di un’epoca, di un determinato momento. È come assistere alla distorsione difrequenza e di volume di certe forme dell’inconscio collettivo; è stato il suo momento mentre ora Trump vive di una bizzarra forma di riciclo, di adesione spossata al pensiero negativo e controcorrente. Non è più una febbre, è una ricaduta. Una guerra civile bagnomaria. Non lo dico per ignorare la violenza delle deportazioni al confino, le morti per razzismo sistemico, il delirio misogino sulla vita sessuale delle donne,l’aggressività e sofferenza che si produce a ogni livello del quotidiano negli Stati Uniti, ma perché la temperatura alla vigilia delle nuove elezioni è più questa, di un infezione estesa e a bassa intensità che compromette il ragionamento e fa andare in giro in maniera sbandata. È una cosa che mi preoccupa quasi di più del trionfo della morte della sua prima vittoria elettorale. 

Quanto influisce, se influisce, l’attività di traduttrice nella ideazione delle tue storie, e qual è un autore o un’autrice che ti piacerebbe tradurre?  

Credo che tradurre Notti insonni di Elizabeth Hardwick per esempio abbia profondamente cambiato il mio modo di rapportarmi all’aggettivazione, al simbolismo della prosa, ero in uno stato di trance e di anomalia della forma – quel libro è misterioso e inclassificabile – che mi ha fatto venire voglia di diventare una scrittrice nuova, più indecifrabile a me stessa. È stata un’influenza profonda su certe scelte di Missitalia. Ma tradurre voci così è un’esperienza che centellino con cura. Ora sono felice di lavorare al mio primo fantasy letterario, The book of love di Kelly Link. Mi fa bene anche questo ordine, questo rapporto con la macchina narrativa. Come diceva Pavese che non voleva tradurre Fitzgerald per non rovinarsi e non rovinarselo, io non toccherei mai una pagina di Don DeLillo. Ne morirei. 

Il tuo rapporto con i social. Alcuni autori e autrici ne sono fuori, pensano che gli scrittori debbano parlare solo attraverso i propri libri. Altri, come si dice, sono sul pezzo, cavalcano l’onda, partecipano anche a discussioni animate sulla politica, sul clima eccetera. 

Sono meno reattiva di un tempo, ma Facebook ha avuto un’influenza positiva nell’esperienza del feedback rispetto a degli esperimenti di pensiero e di stile per me, è stato a suo modo un laboratorio che ho sfruttato intensamente, finché non ho deciso di chiudere quell’esperienza perché si era cronicizzata nel sempre uguale. Non mi interessa tanto cosa si dice e cosa si dibatte – mi sono tolta dopo dei dibattiti molto accesi in seguito a un pezzo che ho scritto su Amanda Gorman per Internazionale – ma il modo in cui la falsa conoscenza che si produce là sopra è diventata una parte integrale del nostro modo di apprendere e trasmettere le storie. Quando Amalia Spada all’inizio di Missitalia dice che la cosmologia di una persona si crea per false conoscenze, frammenti di aneddoti, che restano le cose meno importanti perché bruciano prima e fanno una bella cenere, sta dicendo in fondo quello. E non è solo una critica negativa alle fake news: io credo che abbiamo veramente desiderato e amato questo modo di raccontare più iridescente e spesso irrazionale, dobbiamo farci i conti, e capire quanto ci ha cambiato, e ha mutato i romanzi nel profondo, non nella superficie. 

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150 ACRI – Melinda Moustakis

È l’angolo estremo del continente americano, in alto, a ovest, guardando la mappa. Uno Stato americano che non confina con nessun altro Stato americano. Nel 1956, quando ha inizio questa storia, l’Alaska non è neppure uno Stato ma una terra di nessuno, con poche strade, poche case. Insomma, un posto selvaggio, inospitale, per quanto anche adesso…

Melinda Moustakis è cresciuta in California ma è nata lì. Una quindicina d’anni fa, la sua raccolta di racconti Bear Down, Bear North vinse premi prestigiosi come il Flannery O’Connor Award. Con 150 Acri, il suo primo romanzo, in Italia edito da Atlantide con la traduzione di Ilaria Oddenino e Marco Bianco (bellissima la cover di Andrey Osadchikh), Moustakis ci porta nella sua terra di origine per raccontarci una vicenda familiare di sfide coraggiose, dura e lirica come certi classici della letteratura Western. Quando parte dal Texas per fare visita alla sorella maggiore Sheila, che vive col marito ad Anchorage, una cittadina sulla baia di Cook, Marie è poco più di un’adolescente. L’incontro casuale con Lawrence è un gioco di sguardi e nessuna conversazione. Lawrence è arrivato dal Minnesota per costruirsi una casa su una terra concessa, e per mettere su famiglia “La prima donna che gli sembri in grado di resistere a un inverno nella casa di legno, Lawrence le chiederà di sposarlo”. È un uomo di poche parole, burbero. Dorme su un divano in un vecchio scuolabus, e intanto sogna la sua casa di legno e una dozzina di figli. A Marie, Lawrence non chiede nulla. Su un biglietto scrive 150 acri. Una promessa. Un invito. Una provocazione. Dopo pochi giorni sono già sposati. Il romanzo parte da qui. Il matrimonio tra Lawrence e Marie è un salto nel buio: i due non si conoscono, non c’è nulla che li lega se non quel coraggio, forse incoscienza, di sfidare l’ignoto. La storia è il lungo diario di una coppia che vive un apprendistato lento e difficile. Costruire è la prima parola chiave. Costruire la casa, costruire la famiglia, costruire il futuro “il matrimonio è uno strumento per avere figli”. Destino è la seconda. Esserne parte, assecondarlo contro la malasorte. E poi sacrificio, tolleranza. Preservare. Ma prima di tutto la grammatica dei luoghi: sterpaglie, fango, paludi, melma, tronchi, neve, orsi. Il paesaggio domina. I personaggi sono pochi come gli abitanti. Oltre Lawrence e Marie, c’è l’altra coppia: Sheila e Sly, e poi Joseph, il padre di Lawrence, che nella parte centrale del racconto avrà un ruolo importante: aiutare figlio e nuora a costruire la casa e salvare il loro matrimonio da una serie di incomprensioni e da un dramma che rischia di azzerare ogni piano. Passano i giorni, i mesi, la routine di Lawrence e Marie è una sequenza di gesti e di procedure faticosi. Lawrence ha un passato di cui non va fiero. Il suo lato oscuro è uno dei temi del libro. Ma di argomenti ce ne sono diversi: il senso e il significato dell’appartenenza, l’identità, la noia, la sopportazione del dolore e la sua condivisione. 

150 Acri è una parabola biblica, uno straordinario romanzo di frontiera, una storia d’amore e di fede che fa pensare ad autori come Jack London e Ron Rash, ma anche al Pennacchi di Canale Mussolini. 

Angelo Cennamo

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PURPLE AMERICA – Rick Moody

Hiram Frederick Moody III, scrittore e musicista newyorchese meglio conosciuto con lo pseudonimo di Rick Moody, allievo di John Hawkes dal quale ha attinto il piglio sperimentalista, il coraggio di esplorare nuove forme di scrittura e di intrattenimento infrangendo i vincoli e le regole più comuni  della tradizione.  Ha collaborato con riviste prestigiose come  “Esquire”, “New York Times”, “Harper’s” e “New Yorker”. Spesso viene accostato ad autori del passato come Updike e Cheever, io invece trovo che Moody somigli solo a sé stesso e al suo (quasi) coetaneo David Foster Wallace per il massimalismo, il virtuosismo retorico della prosa a volte schizofrenica (realismo isterico) e per come riesce, specialmente in opere più autobiografiche come Il Velo Nero, a incunearsi nelle pieghe del dolore, a raccontarci il dolore in ogni sua sfumatura, anche la più invisibile. Purple America (Rosso Americano) – uscito negli Usa nel 1997, lo stesso anno di Pastorale Americana di Philip Roth, Underworld di Don DeLillo e Mason & Dixon di Thomas Pynchon, e pubblicato in Italia da La nave di Teseo – è il romanzo della consacrazione di Moody dopo i primissimi successi Carcasi batterista, chiamare Alice e Tempesta di ghiaccio. La storia è tragicomica e per certi versi riflette il modo di scrivere dell’autore, che con poche parole messe nella stessa frase è capace di farci ridere ma anche di mozzarci il fiato. Tutto accade in quarantotto ore, un tempo breve che nel romanzo però si dilata all’inverosimile. Hex Raitliffe è un trentottenne balbuziente alcolizzato con “massicci occhiali da saldatore legalmente-non-vedente-incapace-di-vedere-a-un-palmo-dal-naso” tornato a casa dalla madre gravemente malata per accudirla dopo che il suo patrigno l’ha abbandonata di punto in bianco. Hex non è un figlio perfetto, anzi nella sua vita non è riuscito a combinare nulla di buono –  questo romanzo è fondamentalmente una storia di fallimenti e di occasioni mancate – lo sguardo di Moody verso i suoi personaggi però è indulgente, misericordioso, altre volte cinico, secondo i canoni del romanziere di razza, versatile  e imprevedibile,  che sa brutalizzare o prendersi gioco, beffarsi delle debolezze altrui. La tenerezza con la quale Exe aiuta la donna (paralitica e quasi del tutto afona) a fare il bagno nel dettagliatissimo incipit (sette pagine senza un punto) ricorda la premura  del giovane protagonista di un altro bellissimo romanzo italiano di qualche anno fa: L’invenzione della madre, opera prima di Marco Peano. Come nel libro di Peano, le parole di Moody danno corpo al corpo, il corpo del genitore ingabbiato, martoriato dalla tetraplegia, che arriva a implorare il suicidio assistito come ultimo desiderio. Ma il rapporto tra Exe e la madre, che evolverà in un finale thriller, è solo uno dei diversi temi affrontati. Moody alleggerisce il dramma della malattia e della fuga del patrigno, coinvolto nella  stessa giornata anche in un incidente a una centrale nucleare, con una trama parallela, più grottesca, che ha come protagonista una ex compagna delle medie di Hex, Jane Ingersoll. Le due vicende viaggiano insieme ma sembrano non toccarsi. La descrizione anatomico-cabarettistica del breve corteggiamento, tra eros e tanathos, soprattutto del primo bacio tra i due e del conseguente accoppiamento sessuale: goffo, avvilente, esilarante, con Jane che “bofonchia vocali inedite”, è un pezzo di altissima letteratura, tra le scene migliori del romanzo. Non saprei dire quanti libri abbia venduto o venda Rick Moody nel suo paese e all’estero, quello che so è che Moody scrive meglio di tanti autori americani in Italia più popolari di lui “La bocca di lei sa di porti del New England, di sigarette, alcool, esperienza”. Nel 2001, il New Yorker lo inserì tra i venti giovani autori americani che avrebbero segnato la letteratura del nuovo secolo. Il suo ultimo libro è The Long Accomplishment: A Memoir of Struggle and Hope in Matrimony (La lunga impresa del mio matrimonio), uscito nel 2019 con Henry Holt e co. – in Italia edito da La Nave di Teseo.  

Angelo Cennamo

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THE PALE KING – David Foster Wallace

“Raccontare l’apatia con garbo e umorismo. La sconfitta della noia è come l’estasi istantanea in ogni atomo. Se sei immune alla noia, non c’è nulla che tu non possa fare”. Si può giudicare l’opera di David Foster Wallace separandola dalla pulsione di morte che abitava la sua mente e che a soli quarantasei anni lo ha portato al suicidio? Il realismo isterico della prosa massimalistica, lo sguardo malincomico sulle vicende umane affrescate nelle pagine dei pochi romanzi  pubblicati e dei racconti, sono probabilmente legati a quel malessere, all’urgenza, già altre volte avvertita, di abbandonare la vita. La sera del 12 settembre del 2008, nella sua casa di Claremont (California), pare che avesse pianificato tutto: scritto due righe di commiato alla moglie Karen, salutato i cani Jeeves e Drones, ordinato negli  scatoloni giù in garage i manoscritti del romanzo al quale stava lavorando già da parecchi anni. “La Cosa Lunga”, un librone di cinquemila pagine che si sarebbero ridotte a poco più di mille, aveva confidato all’amico Jonathan Franzen. Per completare questo librone Wallace aveva rinunciato a convegni, conferenze stampa, al party per il decennale di Infinite Jest, a uscite con gli amici. E a chi come lo stesso Franzen si preoccupava negli ultimi tempi del suo stato di salute e gli chiedeva al telefono come stai, lui alla sua maniera rispondeva:  “mi sento un po’ peculiare”. I pezzi del  romanzo che Wallace stava scrivendo vennero faticosamente assemblati tre anni dopo la sua morte, nel 2011, dall’editor Michael Pietsch in un libro di circa ottocento pagine pubblicato col titolo Il Re Pallido. Parliamo evidentemente di un romanzo incompiuto, ma quale opera di Wallace non lo è? Soprattutto, siamo proprio sicuri che si tratti di un romanzo? La risposta è nell’introduzione o parte metanarrativa, che troviamo, pensate, a pagina ottantacinque “Questo libro non è opera di fantasia, bensì sostanzialmente vero e accurato: Il Re Pallido è di fatto più un libro di memorie che una storia inventata”. Chiaro, no? Un libro di memorie ispirato all’esperienza che il giovane studente universitario David  Wallace avrebbe vissuto per tredici mesi presso l’Agenzia delle Entrate della sperduta Peoria, nell’Illinois “Il libro è basato in buona parte sui vari taccuini e diari che ho tenuto durante i miei tredici mesi come liquidatore standard al Ccr del Midwest. Il Re Pallido è, in altre parole, una specie di libro di memorie professionali”. Mm, bello scherzo, in tanti hanno abboccato. E sì perché tra il 1985 e il 1986 Wallace era impegnato negli studi universitari e a scrivere il suo primo romanzo, in quell’ufficio di Peoria non mise mai piede. Dunque? La noia. È questo il vero argomento, del romanzo? Assolutamente sì. Ma attenzione, non parliamo solo di quel non luogo a procedere della felicità, quel baratro astratto di malinconia nel quale è facile perdersi per sempre. La noia si può sconfiggere, è questo il messaggio contenuto nel libro. Lasciarsi attraversare senza opporre resistenza, sviluppare la capacità, a volte innata a volte acquista, di trovare l’altra faccia della ripetizione meccanica dell’inezia, dell’insignificante, del ripetitivo, dell’inutilmente complesso “eccola la chiave alla base di tutto, la chiave della vita moderna e della vera felicità: essere, in una parola, inannoiabile”. Il Re Pallido è un monumento di introspezione, un’opera di narrativa ma nel contempo un trattato di filosofia, un saggio di psicologia, il migliore testamento che un incursore dell’entropia come Wallace potesse lasciare ai suoi lettori. I libri di Wallace ci spalancano gli occhi, ci mostrano l’invisibile, nuove forme, altri colori, e ci fanno provare un’esperienza unica: la sensazione per un certo numero di pagine di essere lui, David Foster Wallace.

Angelo Cennamo

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CITTÀ IN ROVINE – Don Winslow

Dieci anni prima era fuggito dal Rhode Island su un’auto scassata, con un figlio di diciotto mesi, un padre rimbambito e un paio di borsoni stipati nel bagagliaio, inseguito dalla mafia e dai federali. Oggi Danny Ryan è socio di due hotel sulla Strip di Las Vegas, ha una grossa villa e centinaia di milioni di dollari in banca. Danny non è solo un uomo ricco, è molto di più. Ma tutto ha un prezzo e il passato non si può cancellare, Danny lo sa: non ha dimenticato quando lavorava come uno sguattero sui moli di Providence, pecora nera di una gang irlandese che faceva la guerra ai mangiaspaghetti italiani; il sangue versato, i sacrifici e le rinunce per arrivare dov’è adesso, in cima al mondo. Città in rovine, con HarperCollins e la traduzione di Alfredo Colitto, è il terzo capitolo di una trilogia già tutta scritta prima del 2022 con la quale Don Winslow avrebbe deciso di congedarsi per sempre dai suoi lettori (uso il condizionale perché non credo nel ritiro definitivo di Winslow… “Il clamoroso ritorno del re del crime!” già vedo la fascetta del New York Times sul prossimo libro di seicento e passa pagine, e le file chilometriche per un selfie o una copia autografata), l’ultimo episodio di un solo grande romanzo – le avventure di Danny Ryan – ispirato all’Iliade e all’Eneide. Un progetto ambizioso, epico è il caso di dire, che ha impegnato Winslow per almeno un trentennio, costringendolo a studiare addirittura il latino in un liceo e a frequentare corsi universitari online su Omero e Virgilio. Dicevo della fuga di Danny da Providence al Nevada. A Las Vegas il nostro amico è diventato uno stimato uomo d’affari, un magnate dei casinò. Ora Danny potrebbe tirare i remi in barca e godersela, ma tutto quell’oro non gli basta. Insegue nuovi primati, fare altri investimenti per avere denaro pulito e resettare il marcio della sua vita precedente. Il chiodo fisso si chiama Lavinia, l’hotel più chic di Las Vegas. Danny vuole comprarlo, anzi soffiarlo a qualcun altro, e trasformarlo in un “Sogno”. Una scommessa pericolosa che può costargli il suo impero e farlo ripiombare nel buio. Un’implosione. Tutto crolla dall’interno, non è così, Danny? Il cancro che ha divorato tua moglie, la depressione che ha portato al suicidio la tua star hollywoodiana. L’ultimo tratto della storia di Danny Ryan parte da qui. Tra scalate societarie, tangenti, amori impossibili, offese irreparabili e nuovi sospetti, si ricomincia a sparare. Altro sangue, un altro Inferno: la guerra di Providence non è finita.

“Cinque pagine al giorno a qualunque costo. Indipendentemente da dove mi trovassi. Indipendentemente dall’ora del giorno o della notte. Indipendentemente da quanto fossi o non fossi stato stanco. Cinque pagine. Dopo circa tre anni di quella routine, avevo un libro”. Per tutto questo tempo è stata la sola regola di scrittura osservata da Winslow. Le ultime cinque pagine di Città in rovine sono dedicate ai ringraziamenti per una carriera lunga e irripetibile che lo pone nel ghota del romanzo crime di ogni tempo. Winslow ne ha per tutti, dalla moglie ai colleghi – Stephen King su tutti – dai figli agli editori che hanno creduto e investito nelle sue storie. Per finire, i lettori, milioni nel mondo, follower compresi (me compreso) con i quali lo scrittore newyorchese continua a comunicare sui social. Ma siamo davvero ai titoli di coda? 

Angelo Cennamo

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I DIARI DI JOHN CHEEVER

Nella mezza età c’è mistero, c’è mistificazione. Il massimo che riesca a cogliere di questo periodo è una specie di solitudine“. I diari che John Cheever scrisse dalla fine degli anni quaranta fino alla sua morte, sono stati pubblicati in Italia da Feltrinelli, nel 2012, con il titolo  Una specie di solitudine e con la traduzione di Adelaide Cioni. “Dopo aver tradotto questo libro ho deciso che non tradurrò più opere di narrativa per almeno due anni, perché mai avevo letto un libro in cui l’autore si denuda progressivamente fino a toccare quel punto”, aveva detto la Cioni al termine del suo lavoro. Chi era John Cheever? Dietro l’immagine patinata di uno dei più celebrati scrittori americani del Novecento scopriamo un uomo pieno di contraddizioni: Cheever amava la moglie e i suoi figli ma si sentiva fragile, profondamente solo, incompreso, era attratto dalle donne ma anche spaventato dall’idea di riconoscersi  omosessuale “So di avere una natura tormentata… mi spaventa l’indefinitezza, il pensiero di essere omosessuale mi atterrisce“. Il lungo racconto che Cheever fa della propria vita è forse il suo libro migliore, il più poetico, un flusso di coscienza dettagliato, preciso, che ci porta ad altre opere letterarie; mi vengono in mente per esempio la saga di Bascombe di Richard Ford, certe esperienze di Raymond Carver e Chuck Kinder, o le lettere struggenti di John Fante, autore dalla personalità abbastanza vicina a quella di Cheever per la dipendenza dall’alcol, la malattia che lo ha colpito negli ultimi anni, soprattutto per le alterne fortune economiche. “Sembra proprio che, giunto a metà della mia vita, io non abbia fatto nessun progresso, a meno che non sia da considerarsi un progresso la rassegnazione… Siamo più poveri che mai. Siamo in ritardo con l’affitto, abbiamo poco da mangiare, relativamente poco: lingua e scatola e uova. Una montagna di bollette. Io posso scrivere un racconto alla settimana, forse più. Ci ho già provato in passato e non ci sono mai riuscito, ma riproverò” non vi ricorda l’Arturo Bandini di Chiedi alla polvere?

Dicevo dell’amore per la moglie Mary. Cheever ce la descrive come una donna talvolta cinica, scorbutica, poco attenta alle sue premure. La detestava per questo, ma ne era geloso e soffriva quando lei, sempre più di frequente, respingeva i suoi slanci affettivi e sessuali. L’idea del divorzio li accompagnò per tutta la vita “Mi infilo in quel bidone dell’immondizia che è l’idea del divorzio“.

Il tormento per la scrittura è ricco di spunti interessanti “Mi piacerebbe avere un vocabolario più muscolare. E devo stare attento con il mio accento raffinato” altre volte “mi ribello alla parlata comune“. Numerosi i passaggi in cui Cheever parla dei suoi colleghi, dell’antipatia per Saul Bellow “Le sue recensioni mi fanno vomitare… Ho usato la prima persona informale ben prima che uscisse Le avventure di Augie March, magari non dirà niente di sensato, ma non gli troverete una ciocca di capelli fuori posto”, alla stima per Nabokov “Apro Nabokov e rimango incantato da questa gamma di ambiguità, questa meravigliosa atmosfera di falsità… Lo stile della mia scrittura sarà sempre in certa misura prosaico“. Di John Updike scrive “Penso che non avesse pari tra gli scrittori della sua generazione“. Divertente il racconto di un incontro a colazione con Philip Roth “Bevo un drink, vado incontro a Philip Roth alla stazione con i due cani al guinzaglio… la conversazione prende un filone sessuale, ma lui parla, trovo, con grazia, acutezza, spirito”. Nelle parole che seguono, la passione per Hemingway e il dispiacere alla notizia della sua morte “Si è sparato Hemingway, ieri mattina. Era un grande uomo. Non c’è mai stato, nella mia epoca, nessuno alla sua altezza”.

Ma più di ogni altro, il filo conduttore di questi diari è la lotta contro l’alcol: spietata, umiliante, devastante “Uso il whisky come antidolorifico per buona parte della giornata“. Il quadro che gli prospetta lo psicologo è quello di un nevrotico, narcisista, egocentrico, senza amici. Dopo vent’anni di dipendenza Cheever decide di farsi aiutare dagli Alcolisti Anonimi, entra in una clinica per disintossicarsi. Il tempo che fugge via, il successo, i premi, l’omosessualità che non è più vissuta come un tabù, gli acciacchi fisici e una diagnosi che non dà scampo: quanta vita. Una specie di solitudine è una storia che intenerisce, commuove, trascina. Il ritratto di un uomo irrisolto e pauroso che ci confessa i propri limiti ma che non smette di combatterli.

Angelo Cennamo

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VIRGIL WANDER – Leif Enger

Il nome di Leif Enger, scrittore del Minnesota sulla sessantina, è essenzialmente legato alla sua opera prima. Nel 2001 La pace come un fiume, recentemente inserito tra i libri della collana Americana curata da Sandro Veronesi per il Corriere della sera, fu salutato come uno dei primi capolavori del nuovo secolo – il 2001 è anche l’anno de Le correzioni di Jonathan Franzen e di Empire Falls di Richard Russo (che proprio a Franzen soffiò il Pulitzer). Più o meno negli stessi mesi uscirono L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, altra opera prima, e Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon. Potrei continuare ma sarà meglio parlare d’altro. 

Virgil Wander è datato 2018, dieci anni prima Enger aveva quasi bissato il successo dell’esordio con Così giovane, bello e coraggioso. In Italia il romanzo arriva in questi giorni (23 aprile) con l’editore Fazi, la traduzione di Stefano Tummolini e la cover di Jessica Brilli – la cover è pazzesca. Ancora una volta Enger ci porta nel suo Minnesota, che per quella speciale regola identitaria di cui ho già parlato in un recente articolo, viene più ampiamente denominato Midwest. Ah, questo Midwest! Greenstone è una cittadina di poche migliaia di anime, costeggia il Lago Superiore, un lago enorme, grande come un mare, che tocca più stati americani e a nord il Canada. Non saprei dire se esista per davvero, Greenstone intendo, non il Lago Superiore, ma non credo sia importante saperlo. Leggendo il romanzo l’ho immaginata come la Crosby di Olive Kitteridge, nel Maine di Liz Strout, e la Holt di Kent Haruf, nel Colorado: un posto silenzioso, lontano dalla civiltà metropolitana e dallo showbusiness. Insomma, quell’America di provincia chiusa in sé stessa, ancorata alle vecchie tradizioni e dominata, talvolta sopraffatta, da una natura tanto spettacolare quanto inospitale. In più Greenstone è un posto sfigato, lo dicono tutti e lo pensa anche Bob Dylan per aver bucato due volte le ruote della sua auto mentre attraversava il centro. Virgil Wander un uomo del Midwest “che non ha mai volato troppo in alto, che aspirava giusto alla decenza…”. Quando alla fine degli anni ’80 arriva a Greenstone, orfano di entrambi i genitori ed ex studente di teologia, Virgil trova una città al tramonto: miniere dismesse, gli impianti della Slake chiusi. Con pochi dollari a Greenstone ci potevi comprare casa e vivere senza stenti. Virgil ne ha comprata una proprio sopra il cinema Empress, l’unico della città. La sera proietta film, di giorno lavora al municipio. Tutto scorre liscio. Poi un giorno la sua Pontiac scassata vola nel lago e Virgil muore. Questo almeno è quello che pensa la gente. E invece no, la verità è che Virgil si salva ma da quel tragico incidente viene fuori un altro uomo, con poca memoria, forse più stupido, con le parole che vanno e vengono, e una vita da ricostruire. La storia di Enger parte da qui, dal secondo tempo di Virgil. Una storia che somiglia a un motore diesel, che chiede al lettore di non avere fretta perché qui il tempo è importante. Lo è per Virgil, lo è per tutti gli altri personaggi che popolano Greenstone e che affiancano il protagonista, uomini e donne alla ricerca di una seconda opportunità. Ecco il tema di questo meraviglioso romanzo sempre giocato sul filo dei ricordi: tutti abbiamo il diritto di sperare. 

Angelo Cennamo

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IL COMPLOTTO – A.M. Homes

Una quindicina di libri tra fiction e non fiction all’attivo, una serie di articoli pubblicati su riviste prestigiose come Granta, The New Yorker, McSweeneey’s e Vanity Fair, un paio di suoi racconti letti e studiati dagli allievi del corso di scrittura creativa che David Foster Wallace teneva all’università di Pomona (per lei Wallace stravedeva), premi, attestati e riconoscimenti vari: il palmares di Amy Michael Homes, scrittrice newyorchese originaria di Washington, tra le voci più innovative della letteratura americana degli ultimi due decenni almeno, devo riconoscere che fa un certo effetto. Con The Unfolding – Il Complotto, Feltrinelli, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini – la Homes torna al romanzo dopo più di dieci anni – Che Dio ci perdoni uscì nel 2012. Il tempo delle sue 459 pagine è compreso tra il 4 novembre del 2008 e il 20 gennaio del 2020: i giorni dell’elezione alla Casa Bianca di Barack Obama, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Lo sconfitto è John McCain, l’eroe del Vietnam che proprio Wallace celebrò in un reportage intitolato Up, Simba (Forza, Simba), inserito nella raccolta Considera l’aragosta. La sconfitta di McCain è un duro colpo per Big Guy – Il Grand’uomo – uno dei principali finanziatori della campagna repubblicana “È un’apocalisse ufficiale, il mondo sta andando all’inferno e non sono contento.” Big Guy, ultraconservatore bianco sulla sessantina (personaggio che sembra ritagliato su quello dei fratelli miliardari e ultrareazionari Charles e David Koch) è il protagonista assoluto di questa storia, a metà tra realismo e satira politica. Nella prima scena del libro lo vediamo seduto al bar di un hotel di Phoenix che, in preda al panico, prova a escogitare un piano per salvare il suo paese dalla deriva socialista nella quale sta per sprofondare “Qualcosa di grosso”, dice a un tizio che incontra al bar, “Una correzione forzata”. Sudato e fuori di sé, butta giù degli appunti confusi su un tovagliolo di carta: “Il piano di un patriota per salvare la nazione… Non lo facciamo per noi, lo facciamo per la nostra storia, per proteggere e preservare”. Nonostante si tratti di uno “stronzo”, di un uomo rozzo, di un razzista, Big Guy ci risulta simpatico, comico, in alcuni passaggi perfino tenero e fragile. 

Il romanzo viaggia su due binari paralleli, quello politico e quello familiare, decisamente più intrigante del primo, specie per chi non è addentro alle questioni storiche degli States, e più armonioso anche dal punto di vista descrittivo. Il Grand’uomo ha una moglie alcolizzata (Charlotte), per un terzo del racconto ricoverata in clinica, e una figlia diciottenne (Meghan), che nel 2008 ha votato per la prima volta, una ragazza instabile, provata da un brutto pomeriggio trascorso in un bosco col suo cavallo Ranger dove un’altra studentessa tempo addietro era stata trovata morta. Meghan, che al padre corregge i congiuntivi, fa domande strane, nel finale del romanzo farà una scoperta devastante che rimetterà in discussione molte cose della sua vita. Nei capitoli più politici, il Grand’uomo lo vediamo alle prese con una banda di idioti come lui (Bo, Kissick, il giudice, Metzger, Frode, il Generale, Tony, il funzionario gay che ora lavorerà con Obama ma che all’occorrenza tornerà utile ai repubblicani) arruolata per realizzare il golpe che dovrà salvare la nazione. Il gruppo di tanto in tanto si ritrova per mettere a punto il piano. In una delle scene più esilaranti, tutti gli uomini del deficiente li vediamo esercitarsi al tiro al bersaglio contro un manichino di Charlotte. In un’altra Il Grand’uomo si ritrova coinvolto in una misteriosa rete di sovversivi alla stregua di Oedipa Maas de L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon “Una fottutissima Apocalypse Now”. The Unfolding è un romanzo molto dialogato e i dialoghi sono perfetti, la parte migliore. Un altro aspetto interessante della scrittura è la solita abilità che la Homes rivela nel tratteggiare i personaggi maschili. Dicevo del doppio binario della storia. Il primo è la vivacissima satira politica che investe un’America conservatrice incapace di accettare il dato elettorale: la vicenda è ambientata nel 2008 ma non sfugge il riferimento ai fatti più recenti della presa di Capitol Hill per i quali è finito sotto processo Donald Trump. L’altro è il dramma familiare nel quale si ritrova invischiato il protagonista. Nel giorno del Ringraziamento lo vediamo da solo seduto in una tavola calda giù a Palm Springs, in California, mentre sua moglie è in clinica a disintossicarsi e sua figlia “che non conosce tutta la storia” trascorre la ricorrenza con il suo padrino Tony “queer non dichiarato”. Big Guy è giù di corda. Prova a telefonare a Charlotte in clinica ma non gliela passano e la telefonata si trasforma in fantastica gag. Si ride. Si ride molto. Ho immaginato Big Guy come l’ultimo Coniglio Angstrom di Updike, l’uomo sbagliato, lo “stronzo” che prova a resistere alle sue strane manie, a recuperare il tempo perduto, a godersi i pochi brandelli di una famiglia ormai a pezzi. Che brava, la Homes. 

Angelo Cennamo

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CONVERSAZIONE SU JOHN FANTE CON ROMANO DE MARCO

L’8 maggio del 1983, quasi quarantuno anni fa, ci lasciava John Fante, autore di romanzi indimenticabili come Chiedi alla polvere, Aspetta primavera, Bandini, La strada per Los Angeles. Fante era nato a Denver, nel Colorado, l’8 aprile del 1909, da uno scalpellino abruzzese (Nicola Fante) e da una casalinga dell’Illinois (Mary Capolungo) anche lei di chiare origini italiane: i suoi genitori si erano trasferiti a Chicago partendo da un paesino della Basilicata. Se avete voglia di conoscere la vita di questo autore potete leggere i suoi libri, tutti o quasi tutti hanno una forte connotazione autobiografica, oppure il ricco epistolario raccolto nel volume Lettere 1932 – 1981, edito da Einaudi, sulla cui cover campeggia per errore la foto di un altro scrittore: l’inglese Stephen Spender. Vabbè. A due passi da piazza Navona, mi ritrovo a parlare di Bret Easton Ellis e del suo ultimo romanzo con il mio amico Romano De Marco. È una conversazione lunga, al termine della quale ne iniziamo un’altra, non ricordo come e perché, su John Fante. Per una curiosa asimmetria, De Marco lo si può considerare un Fante al contrario: è nato in Abruzzo come “Svevo Bandini”, ma ha il cuore e la testa in America, basta dare un’occhiata alle sue storie crime (una è un vero e proprio romanzo americano). Romano ride, poi arrivano i caffè e nel frattempo mi mostra un vecchio articolo che scrisse proprio sul suo collega di Denver qualche anno fa. Ci sei andato giù duro, gli dico. Secondo me è uno scrittore sopravvalutato, se ci pensi lo hanno santificato per delle circostanze abbastanza fortunose. Voglio dire, se non lo avesse riscoperto Bukowski (pare che il giovane Bukowski un giorno avesse trovato in una biblioteca pubblica – le uniche che poteva frequentare non avendo allora il becco di un quattrino – Ask The Dust, e si fosse riconosciuto nello spiantato Arturo Bandini; da scrittore affermato, alla fine degli anni ’70, Bukowski riuscì a conoscere e diventare amico di Fante al punto da pretendere dal proprio editore la ripubblicazione di alcune opere ormai dimenticate dell’anziano collega) oggi quanti lo conoscerebbero? Secondo me nessuno. Hai ragione. Del resto, quando Fante morì, negli Stati Uniti in pochi ne avevano sentito parlare, Fante si era guadagnato da vivere col cinema non con i libri. In Francia invece (Nemo propheta…) era diventato un divo. Da noi fu rilanciato, se non ricordo male, da una collana del quotidiano La Repubblica. D’accordo, Roma (Roma è Romano), ma a quanti scrittori come Fante è toccata la stessa sorte? Se Anna Gavalda non avesse trovato per caso su una bancarella parigina una copia di Stoner, che cinquant’anni prima in America aveva venduto sì e no tremila copie, chi lo avrebbe conosciuto John Williams? Ci saremmo persi anche quel capolavoro Western di Butcher’s Crossing. Per non parlare di Richard Yates: nessuno dei suoi romanzi vendette negli Usa più di dodicimila copie “Non voglio soldi, voglio lettori!”. In Italia si accorsero di lui grazie a quel film con Di Caprio e Kate Winslet (Revolutionary Road). Sai bene che la lista degli scrittori ignorati in vita è lunga e ne fanno parte mostri sacri come Franz Kafka, Nathanael West, Edgar Allan Poe, Emily Dickinson… Beh, anche questo è vero. Vedi, Angelo, quello che non mi convince però è questa smodata enfatizzazione dell’opera di Fante. Una parte della critica italiana si è spinta addirittura a definirlo uno degli scrittori più importanti della sua generazione, alla stregua di Hemingway, Faulkner, Steinbeck. Mi riferisco, in particolare, al movimento culturale che c’è dietro il John Fante festival inaugurato una ventina di anni fa a Torricella Peligna. Non solo. Trovo fuorviante anche una certa narrazione etnica che ci è pervenuta su Fante, pagine e pagine sulle sue origini italiane bla bla bla. Diciamola tutta: Fante non parlava l’italiano, non conosceva l’Italia (se non per i racconti del padre) né sentì mai la necessità di approfondire tale conoscenza, nemmeno con il paese di origine dei suoi antenati che ha dedicato un premio letterario alla sua memoria. Pare che una volta, alla fine degli anni ’50, trovandosi in Italia per scrivere delle sceneggiature, il nostro amico volle farsi un giro a Torricella Peligna. Ebbene, giunto nella piazza del paese, indovina cosa fece? Invece di scendere dall’auto e guardarsi intorno, chiese all’autista di fare inversione e di tornare  a Roma. “Per paura di scoprire un luogo diverso da quello idealizzato attraverso i racconti di suo padre e per non correre il rischio di infrangere la sua natura mitologica” disse il suo biografo. Ma dai! Sì, sapevo di questo aneddoto. Onestamente non saprei dire se sia una storia vera o solo una leggenda, fatto sta che tutta l’opera di Fante, nel bene e nel male, è pregna di cultura italiana, dai riferimenti enogastronomici alla religione, dall’educazione ricevuta dal piccolo “Arturo” ai difficili rapporti con il padre padrone Nicola (nelle storie a volte indicato come Nick Molise altre volte Svevo Bandini). Aspetta primavera, Bandini è uno dei più bei romanzi italiani del ‘900. Ci metterei anche La confraternita dell’uva, il suo vero capolavoro, altro che Chiedi alla polvere. Quanto ai paragoni con Faulkner e Hemingway, forse saranno esagerati. Fante era sicuramente un minimalista e un realista come gli scrittori che hai citato, la differenza sostanziale rispetto agli altri due io la vedo nei contenuti delle storie, negli argomenti affrontati, più che nella qualità delle narrazioni. Hemingway ha scritto di viaggi, corride, guerre, safari; Faulkner di vicende dolorose e crude. Come dici tu, Fante ha trascurato gli eventi internazionali che in quegli anni stavano tormentando mezzo mondo: nazismo, fascismo, comunismo… alla maniera di Philip Roth per esempio, ha preferito concentrarsi su se stesso, sull’ambizione di scrivere e sugli stenti di una giovinezza difficile, misera ma piena di speranza: ha ripercorso le tappe della sua vita professionale e familiare, ha raccontato dei figli, dei genitori italiani, perfino del suo cane (stupido)… possiamo fargliene una colpa? Ha scritto di tutto questo giocando con la verità e la finzione, senza filtri, con schiettezza e cinismo, ricorrendo ai registri della commedia:  Fante ci fatto ridere, Hemingway e Faulkner non ci sono mai riusciti. Ok ok, Mr. Telegraph. Ma che mi stavi dicendo di Ellis? Non me lo ricordo più.

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