DICE ANGELICA – Vittorio Macioce

Mentre scrivo queste poche righe si è appena concluso Il Festival delle Storie che si tiene ogni anno, negli ultimi giorni di agosto, nella valle di Comino, luogo magico sul confine tra Lazio, Abruzzo e Campania, dove gente di mezza Europa si ritrova per parlare di libri, musica, cinema, attualità e molto altro. L’organizzatore di questa kermesse è Vittorio Macioce, fine intellettuale, una delle penne migliori e tra le più originali del giornalismo culturale.

In questi stessi giorni Macioce ha pubblicato “Dice Angelica” – Salani editore; è il suo esordio nella narrativa, un romanzo che sfugge a qualunque classificazione nel quale l’autore dà voce nientemeno che alla principessa del Catai di ariostana memoria. “Dice Angelica” è la versione di Angelica, l’altra campana, quella che non abbiamo mai ascoltato o studiato al liceo. La bella principessa tutti la cercano, tutti la bramano, per poi additarla, bestemmiarla, metterla al bando come una rovinafamiglie “vizio e veleno”, ma siamo sicuri che a lei piaccia essere nelle mire di guerrieri e paladini? Vittorio Macioce ricostruisce la vicenda scardinando convinzioni e indagando a fondo nei pensieri e nei sentimenti della giovane protagonista, desiderata e amata eppure vittima di ogni maldicenza. 

Ed eccola allora Angelica “pellegrina tra i pellegrini…sospesa tra le linee del tempo”, condannata a “scontare l’eternità”, coinvolta in una guerra che neppure le appartiene, lei venuta da un Oriente indefinito e pagano. “La verità mi renderà libera, ma solo quando avrà finito con me”, le fa dire l’autore, rubando la frase ad uno scrittore americano del XXI secolo: David Foster Wallace.
Il romanzo di Macioce è denso di storie e di leggende, di viaggi e incantesimi, di duelli, di amori veri e non corrisposti. 
Macioce non rivisita, riscrive, dando vita a una nuova forma a metà tra poesia e saggistica. “Dice Angelica” è una fiaba antica e moderna, una girandola di voci e stili che lascia il lettore senza fiato e che arricchisce il panorama letterario di un’opera unica, forse irripetibile. 

Angelo Cennamo

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SORELLE – Daisy Johnson

Due parole su questo romanzo breve – 198 pagine – di Daisy Johnson, giovane autrice inglese, la più giovane scrittrice mai entrata nella rosa dei finalisti del Man Booker Prize – è accaduto nel 2019 con la sua opera prima intitolata “Nel profondo”.

A due anni di distanza, Daisy Johnson ci riprova con una storia dalle sfumature gotiche che al Guardian ha ricordato certe trame di Shirley Jackson e di Stephen King.

Senza per forza scomodare la Jackson e il suo figlioccio King, inarrivabili per chiunque, “Sorelle” – edito in Italia da Fazi con la traduzione di Stefano Tummolini – è indubbiamente un libro in cui non mancano sussulti e gesti tecnici apprezzabili, attraversato da una tensione costante che evoca o, se preferite, riproduce stili e atmosfere della narrativa appena citata. 

Le “Sorelle” di Daisy Johnson sono Luglio e Settembre, due adolescenti di Oxford, senza amici “bastiamo a noi stesse”, che vivono una strana simbiosi, un legame viscerale che verrà chiarito solo a trenta pagine dalla fine con un colpo di teatro che fa impennare l’asticella del romanzo, fino a quel momento poco sopra la sufficienza. Da Oxford, le due sorelle si trasferiscono con la madre – scrittrice depressa con un ex marito morto annegato nella piscina di un hotel – in una nuova casa, “spiaggiata lungo le North York Moors, appena fuori dal mare”. Le ragioni del trasferimento sono legate ad un antefatto che emergerà più o meno a metà libro. La casa sul mare, quella sì, possiede la magia dei luoghi kinghiani (“Duma Key” e altro), non solo ma è il corollario perfetto delle dinamiche familiari raccontate dalla Johnson: corpo nei corpi, incastro necessario tra passato e presente, rappresentazione materiale del dolore. Qui l’incontro tra le due sorelle e un ragazzo del posto farà improvvisamente deviare il corso della storia, ribaltando ogni convinzione e costringendo Luglio ad una imprevedibile catarsi. 

Angelo Cennamo

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ZONA DISAGIO

Il disagio è un sentimento generazionale. Jonathan Franzen e David Foster Wallace, scrittori più o meno coetanei, lo hanno messo spesso al centro delle loro storie. Franzen addirittura nel titolo di un libro – “Zona disagio” – ma non solo lì. Wallace ne ha fatto quasi un vessillo, anche nel rapporto con le donne. Jon e Dave arrivano sulla scena dopo autori nerboluti come Philip Roth e John Updike, che avevano invece costruito le rispettive trame sulla strafottenza, in certi casi, sull’esuberanza e il vigore (sessuale) in altri. “Un pene fornito di dizionario”, così una volta Wallace definì Updike. La gioventù franzowallaciana è goffa, sudata, impedita. I maschi di Philip Roth, allupati e ribelli. Quelli di Updike liberi e disinibiti. 

Angelo Cennamo

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CAVALLI ELETTRICI – Shannon Pufahl

Shannon Pufahl è cresciuta nelle campagne del Kansas. Come tanti scrittori americani ha un curriculum abbastanza variegato: barista, autrice musicale freelance, poi docente alla Stanford University. “Cavalli elettrici” è il suo primo romanzo. Edizioni Clichy, editore attentissimo ai nuovi fermenti d’oltreoceano – “Nomadland” di Jessica Bruder è stato uno dei migliori colpi del 2020 – lo ha portato in Italia con la traduzione di Giada Diano. 


È una storia diversamente western, ambientata nel secondo dopoguerra tra il Kansas e la costa californiana. I protagonisti sono due giovani coniugi e il fratello di lui. Quello tra Lee, Muriel e Julius non è esattamente un triangolo ma tra Muriel e suo cognato c’è una strana alchimia fatta di pensieri sconci, di sguardi furtivi, di parole non dette. 
Muriel è il personaggio più interessante del libro: lavora in una tavola calda fuori San Diego, frequentata da ex fantini e allenatori. Muriel sente le loro conversazioni, prende appunti, e nei giorni liberi, all’insaputa di Lee, corre a scommettere all’ippodromo di Del Mar. La vita segreta di Muriel, le sue puntate vincenti, le inquietudini che ha ereditato dalla madre, donna travagliata che ha avuto diversi amanti, occupano la prima parte del romanzo, la più promettente. Personaggio speculare a quello di Muriel è il cognato Julius, uno sbandato, un uomo infido, attratto da Muriel ma innamorato di Henry, un baro che ha conosciuto in un casinò di Las Vegas. 

“Cavalli elettrici” è una storia di bugie e di scommesse. Le esistenze di Muriel e di Julius – Lee rimane più sullo sfondo – sono governate dall’azzardo e dalla menzogna. Per almeno cento pagine il romanzo è perfetto: la Pufahl sa scrivere, i luoghi della storia, dal Kansas all’Ovest passando per Tijuana, sono uno scenario meraviglioso, vibrante, evocativo; le vicende ambigue di Muriel e di Julius, un propellente ben calibrato. Poi però la storia diventa inspiegabilmente lenta, prende direzioni incompatibili col nucleo centrale del plot, le tracce aumentano, si aprono nuove scene nelle quali entrano ed escono decine di altri personaggi ininfluenti, che distraggono il lettore dal senso del racconto. E allora si ha la sensazione che il romanzo imploda come un castello di carte – troppe – messe senza criterio una sull’altra, fino a che l’azzardo (quello della Pufahl ) non si risolve in un bluff smascherato.

 
Peccato, “Cavalli elettrici” poteva essere un capolavoro, le premesse c’erano tutte: l’inseguimento del sogno, il viaggio dal Midwest alla California, il sobborgo della “Revolutionary road” di Richard Yates, i tradimenti, il gioco, la perdizione. Ma la Pufahl ha voluto strafare, aggiungendo pezzi e divagazioni che hanno allargato la storia senza misura, rovinandola. 

Angelo Cennamo

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SOGNI DI BUNKER HILL – John Fante

La Los Angeles di Arturo Bandini è una città in fermento, brulicante di uomini d’affari e aspiranti artisti. Hollywood, una miniera d’oro per sceneggiatori e soggettisti. John Fante si è guadagnato da vivere scrivendo soprattutto per il cinema, attività che lui giudicava un ripiego, utile, a volte necessario, ma un surrogato della più nobile arte della letteratura ”John dovrebbe  limitarsi a scrivere libri. Scrivere dei film, per quello che ne so, è uno spreco di talento e di tempo. Anche se ora il salario del cinema ci fa comodo” dirà la moglie Joyce ad un editore amico di suo marito.

“Sogni di Bunker Hill”, l’ultimo romanzo, dettato a Joyce da un Fante ormai cieco e con entrambe le gambe amputate per via del diabete, racconta proprio le prime esperienze nel mondo della celluloide del giovane Bandini, arrivato a Los Angeles dal Colorado in cerca di fortuna. Bandini è una simpatica canaglia, un provincialotto goffo e sfacciato, animato da grandi speranze. Trova alloggio in un alberghetto di Bunker Hill gestito dalla signora Brownell, una vedova più anziana di sua madre, con i capelli bianchi e la dentiera. L’attempata signora Brownell non ha esattamente i tratti della giovane e sensuale Camilla Lopez di “Chiedi alla polvere”, ma Arturo se ne innamora e ci finisce a letto. È riuscito a strappare un contratto alla Columbia, che lo paga profumatamente per non scrivere nulla, nel frattempo si gode la vita curiosando tra colleghi e aspettando la grande occasione per debuttare finalmente come romanziere. Che ci vuole, basta trovare una frase giusta, poi una seconda, una terza e il resto viene da sé. Ma la strada è irta di ostacoli e piena di sorprese, non tutte piacevoli. Troppo facile illudersi, caro Bandini. Il ritorno in Colorado, dalla sua famiglia, con gli stessi pochi dollari che aveva in tasca quando era partito per Los Angeles, ha le tinte del neorealismo di certi film di De Sica: il padre italiano che sotto la neve accoglie il figliol prodigo rioffrendogli quello che un tempo fu il suo paltò; la madre piangente che porta in tavola le lasagne, i fratelli intorno a fargli mille domande sui divi del cinema, e Arturo che finge di conoscerli tutti manco si trattasse dei suoi migliori amici. 

“Sogni di Bunker Hill”, uscito nel 1982, come gli altri romanzi della saga di Bandini ha una forte impronta autobiografica. È un bel romanzo ma una spanna sotto i due capolavori di Fante: “Chiedi alla polvere” e “La confraternita dell’uva”, che hanno venduto decisamente più copie di questo. Né ha riscosso la popolarità di “Full of life”, l’opera di maggiore successo del Fante ancora in vita, al quale però l’autore non sembrava particolarmente legato “Full of life è stato scritto per soldi. Non è un romanzo molto bello”. 

Quando John Fante morì, l’8 maggio del 1983, all’età di 74 anni, pochi mesi dopo la pubblicazione di “Sogni di Bunker Hill”, negli Stati Uniti quasi nessuno si ricordava più di lui.

Angelo Cennamo

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C’ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD – Quentin Tarantino

Uma Thurman e John Travolta che nei panni di Mia Wallace e Vincent Vega ballano un twist sulle note di “You can never can tell” di Chuck Berry. È la scena più nota di “Pulp fiction”, il film che nel 1994 – nel 1992 l’esordio con “Le Iene” – consacra Quentin Tarantino tra i registi più famosi e strapagati del pianeta.

“C’era una volta a…Hollywood” arriva nelle sale cinematografiche venticinque anni dopo “Pulp fiction” e a distanza di qualche mese Tarantino ne fa uscire una versione romanzata, sovvertendo una vecchia prassi che vuole i film tratti dai libri e non il contrario.  Quando scrivo queste poche righe non ho (ancora) visto il film con Brad Pitt e Leonardo Di Caprio; la cosa non mi dispiace, potendo parlare del romanzo più liberamente, senza condizionamenti, soprattutto senza sapere quanto il racconto scritto sia fedele o meno al film. La storia è ambientata alla fine degli anni Sessanta e del cast – parola quanto mai appropriata – fanno parte due protagonisti e altrettante seconde linee. Vediamoli.

Rick Dalton è una vecchia gloria del cinema costretta ad accettare un ruolo di prim’attore in uno spaghetti western diretto da Sergio Corbucci – “il secondo miglior regista di spaghetti western del mondo”, gli dice il nuovo impresario Marvin. Rick è un tipo alla buona, un po’ retrò, vissuto all’ombra di Steve McQueen.

Cliff Booth è la sua spalla, la sua controfigura. A dirla tutta, Cliff “è stato” la sua controfigura; sì perché, da quando sul set de “Il calabrone verde” diede una bella lezioncina di karate nientemeno che a Bruce Lee, la collaborazione tra Cliff e Rick si è ridotta al ruolo di autista e poco altro. Gli altri due personaggi del libro sono Sharon Tate, un’avvenente autostoppista che se n’è andata dal Texas sognando di diventare un’attrice, e Charles Manson, un ex detenuto con ambizioni da rockstar. Ma accanto a questi quattro protagonisti ce n’è un quinto, un po’ defilato sullo sfondo, è il vicino di casa di Rick: Roman Polanski. Rick lo vede entrare e uscire dalla sua villa a bordo di una fuoriserie; “La vita è troppo breve per non guidare una spider” è la migliore battuta pronunciata da Polanski, la leggiamo a poche pagine dalla fine. 

Più che un romanzo “C’era una volta a Hollywood” è un saggio sul cinema mascherato da fiction. Tarantino si diverte a raccontare aneddoti, alcuni realmente accaduti, altri meno – il libro è pieno di nomi di attori e attrici, titoli di film, di canzoni – mescolandoli alle vicende dei suoi personaggi. Il risultato è decisamente apprezzabile, per quanto l’autore abbia, come dire, giocato in casa; la prova del nove l’avremo col secondo romanzo, semmai Tarantino dovesse pubblicarlo. Non stupisce che il ritmo del racconto sia cinematografico, a mo’ di sceneggiatura, con sequenze molto evocative. La scrittura di Quentin Tarantino ricorda quella di Joe Lansdale: veloce, tagliente, battute fulminanti. Rick e Cliff non saranno Hap e Leonard ma la simpatia è la stessa. Provaci ancora, Quentin.    

Angelo Cennamo

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QUEER – William Burroughs

Leggere “Queer” di William Burroughs, scrittore leggendario del Missouri, è come leggere due storie: quella contenuta nel libro e quella fuori dal libro, per meglio dire: la storia “del” libro, la sua gestazione, lunghissima, la scrittura risalente al 1952, i dubbi, le esitazioni, i tagli, la pubblicazione avvenuta oltre trent’anni dopo, nel 1985. “Queer” fu scritto sotto l’effetto di droghe – quasi una costante per un autore della Beat Generation – a Città del Messico, dove Burroughs si era trasferito dal Texas per un increscioso incidente giudiziario. È un romanzo autobiografico e incompleto, strano come tutti i libri di Burroughs. Il titolo gli fu suggerito da Jack Kerouac, suo amico e convivente per diversi mesi – un certo Allen Ginsberg invece gli fece da agente letterario. Quanto “la poetica” di Kerouac abbia influito nella stesura del testo è difficile dirlo, resta il fatto che di “Queer” esistono un paio di versioni. Sulla prima, almeno su quella, aleggia lo spettro della moglie di Burroughs, uccisa da un colpo di pistola sparato dallo stesso autore forse per errore. Senza quella morte, confesserà Burroughs qualche anno dopo, “non sarei mai diventato uno scrittore”, soprattutto non sarebbe diventato uno scrittore comune o uguale a tanti altri: in “Queer”, che è il secondo romanzo di Burroughs, ritroviamo le prime tracce di una scrittura originale e sorprendente, sviluppatasi meglio in altri libri successivi – “Pasto nudo” il più noto – definita “cut-up”. Partendo dall’idea che anche le parole sono immagini, il metodo consisteva nel tagliare delle pagine di un testo per poi ricomporle in un nuovo montaggio. In altri termini, Burroughs “rubava” dai libri di altri autori per poi collegare «pezzetti vividi di dettagli che svaniscono». Di cosa parla “Queer”. La trama, che non c’è – potete entrare nel racconto anche a pagina 40 cambierebbe poco – è incentrata sulla relazione omosessuale tra Lee, alter ego di Burroughs, e Eugene Allerton. Nella prima parte del libro Lee è un tossico in astinenza. È molto attratto da Allerton però in lui non cerca un vero e proprio contatto, Allerton è piuttosto il pubblico delle sue esibizioni. Lee ha già scelto la scrittura come sua nuova forma di vita e Allerton è lo spettatore privilegiato dei suoi “numeri”. Intorno a questi due protagonisti ritroviamo un’umanità sordida che popola un’Interzona che va da Città del Messico a Panama. Lo scenario ricorda quello infimo, degradato della Brooklyn di Hubert Selby jr, altro outsider come Burroughs della letteratura americana, vissuto come lui nella morsa degli stupefacenti. “Queer” è un libro crudo e lucente. Nessuno è come William Burroughs. 

Angelo Cennamo

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LA LUNA E I FALÒ – Cesare Pavese

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”.


“La luna e i falò” Pavese finì di scriverlo nel novembre del 1949. Pochi mesi dopo, il 27 agosto del 1950, si sarebbe tolto la vita in una camera d’albergo di Torino. Tracce della sua lunga gestazione, oltre un decennio, le ritroviamo per esempio ne “Il mestiere di vivere”, il diario, l’opera intima e senza filtri del più americano degli scrittori italiani – l’America (la California e il Nuovo Messico) si insinua anche in questo racconto attraverso i numerosi ricordi del protagonista, flashback che si alternano alla vicenda del ritorno in patria in un infinito rincorrersi tra passato e presente. “La luna e i falò” è probabilmente il punto più alto della narrativa pavesiana, la summa di una produzione legata soprattutto alla descrizione dei luoghi – le Langhe piemontesi con le sue mille contrade – e agli echi della guerra, mondiale e civile, appena terminata. Più che una trama, il romanzo si presenta come un viaggio dantesco – il riferimento alla “Divina Commedia” fu voluto dall’autore – che “Anguilla”, questo il nome della voce narrante, compie nelle campagne dove aveva vissuto da ragazzo con l’amico Nuto (Virgilio). Anguilla è un trovatello, Pavese usa la parola “bastardo”, la sua identità è vaga, la geografia incerta: il ritorno alle origini non può appianare quello sradicamento che lo ha accompagnato dall’infanzia alla trasferta negli Stati Uniti. Tutto il libro è percorso dalla contraddizione tra lo straniamento e il desiderio di rivedere casa (quale casa?). Ed è proprio questa contraddizione a rendere Anguilla un personaggio interessante, alla stregua del Merasault de “Lo straniero” di Albert Camus. Attraverso gli occhi e la voce di Anguilla il lettore accede ad un microcosmo di storie contadine (amori, amicizie, tragedie e superstizioni) che valicano qualunque confine: le Langhe di Pavese non sono così diverse dal Kentucky di Chris Offutt o dagli Appalachi di Ron Rash. “Racconta il tuo villaggio e racconterai il mondo”. Avevo letto per la prima volta “La luna e i falò” ai tempi del liceo; a distanza di molti anni l’ho ritrovato in splendida forma. “Invidio Pavese, la sua capacità di sondare l’italiano fino in fondo” Jhumpa Lahiri.

Angelo Cennamo

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ESTATE – Ali Smith

Grace Greenlaw ha due figli: Robert e Sacha, e un ex marito che vive nell’appartamento accanto al suo con una nuova fidanzata ventenne (Ashley). I Greenlaw sono una moderna e allargata famiglia inglese al tempo della pandemia e della Brexit. Grace ha votato per uscire dall’Europa. Suo marito per rimanerci, ma poi è stato lui a chiedere il divorzio e ad andare via. Si fa per dire. Parte da qui il quarto ed ultimo capitolo della quadrilogia che Ali Smith ha dedicato alle quattro stagioni dell’anno, esperimento letterario quasi unico al mondo: in Italia Luca Ricci ha in corso un’operazione simile. “Estate” non è un vero romanzo, piuttosto un collage di storie sconnesse tra loro che però ritrovano un filo comune nel senso della diversità e nell’andirivieni di un tempo che cancella ogni cosa lasciandoci poche orme, suggerendoci un percorso. È questo il sentiero che la Smith ha scelto di percorrere, mescolando l’attualità alla storia – la vicenda familiare dei Greenlaw si alterna a quella dei campi di prigionia inglesi negli della seconda guerra mondiale. La vita dei Greenlaw è sconvolta dalla comparsa di altri due personaggi, i non-compagni Art e Charlotte. È la cifra di tutti i libri di Ali Smith: gli incontri salvifici. Robert, il figlio mezzo matto di Grace, e fan accanito delle politiche nazionaliste di Boris Johnson, rimane folgorato dalla bellezza della trentenne Charlotte, ma ha solo tredici anni. Ecco il tempo, che separa, illude, comprime, e aggiunge altri protagonisti del passato: i più noti Einstein e Shakespeare, la meno conosciuta Lorenza Mazzetti, autrice del romanzo “Il Cielo che Cade”, ma anche direttrice del Teatro delle Marionette di Roma e fondatrice insieme a Lindsay Anderson, Tony Richardson e Karel Reisz del movimento cinematografico Free Cinema nell’Inghilterra degli anni Cinquanta. La destrutturazione applicata da Ali Smith non è sragionata ma guidata da una simmetria del divenire che spilla ogni storia ad un’altra. Graffette immaginarie per un libro da leggere nelle righe e tra le righe. “Estate” potrà risultare un testo difficile, a tratti dispersivo, ma è un’iniezione di fiducia per chi sospetta che la narrativa abbia già dato il meglio di sé.

Angelo Cennamo

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BOBI – Roberto Calasso

“Faremo solo i libri che ci piacciono molto”.
La vita di ognuno è fatta di incontri, incontri avvenuti, più spesso mancati. Quello avvenuto nella Roma del boom economico tra Roberto Calasso e Roberto Bazlen ha cambiato la vita di entrambi e il volto dell’editoria italiana. Roberto Bazlen, per tutti “Bobi”, nacque a Trieste nel 1902 e morì a Milano nel 1965. Fu amico di Debenedetti, Solmi, Moravia. Amò la narrativa di Kafka e quella di Svevo, “il più moderno degli scrittori italiani”. In vita non pubblicò nulla; nel suo necrologio, Eugenio Montale lo definì “semplicemente un uomo a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura e della storia”. Il nome di Bazlen è legato soprattutto alla nascita della casa editrice Adelphi. Questo libricino di appena 86 pagine, che ho divorato in una notte di fine luglio, vuole essere una testimonianza e un tributo all’amico, all’intellettuale, al co-fondatore. Calasso muore lo stesso giorno in cui l’Adelphi, la sua Adelphi, lo manda in libreria. Appunti, ricordi, segreti, suggerimenti – “Se vuoi leggere il più inquietante demoniaco libro di tutta la letteratura universale, fatti venire Die Blendung [Autodafè] di Elias Canetti”- di un uomo che in punta di piedi, tra stenti e illusioni, ha attraversato la parte migliore del Novecento, e costruito con un manipolo di sognatori come lui un pezzo pregiato della nostra editoria.

Angelo Cennamo

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