LE MEMORIE DI SVEN STOCCOLMA – Nathaniel Ian Miller

“Eccoci arrivati in un mondo dentro il mondo. In queste lande straniere, queste foibe e sodaglie interstiziali che i giusti vedono dalle auto e dai treni, un’altra vita sogna”.

Ricordate Cornelius Suttree, il fuggiasco di Cormac McCarthy, l’uomo che lascia i suoi affetti più cari e si trasferisce in una baracca su un fiume per pescare pesci gatto? Questa storia, lontana nel tempo e un po’ vera, non è poi così diversa dalla sua. 

Siamo nella Svezia dei primi del Novecento. Sven Ormson è un ragazzo scontroso, alla continua ricerca di sé stesso “mi sentivo prigioniero, e la Svezia era la mia cella”. Un giorno Sven abbandona la sua famiglia e un noioso lavoro in fabbrica per approdare a Spitsbergen, un’isola a nord della Norvegia. Un grave incidente in una miniera di carbone gli costa la perdita di un occhio. Ora lo chiamano “lo sfregiato” o “Sven Stoccolma”. Il secondo tempo della sua vita, tutta da scrivere, da improvvisare, fatta di viaggi e di avventure ai margini del Circolo Polare Artico, che non vi racconto, inizia da qui. 

“Le memorie di Sven Stoccolma”, opera prima dell’americano Nathaniel Ian Miller – edito da Atlantide, l’editore di Tiffany McDaniel, con la traduzione di Luca Briasco – ha il sapore dei grandi classici della letteratura di frontiera. Prima ho citato “Suttree”, potrei aggiungere parte della bibliografia di Jack London e un altro romanzo degli anni Novanta, premio Pulitzer, che ho amato molto proprio perché, come questo, è fuori dai soliti canoni della letteratura d’oltreoceano: “Avviso ai naviganti” di Annie Proulx. 

Angelo Cennamo

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EUROPE CENTRAL – William Vollmann

“Non leggi un libro di mille pagine perché hai sentito dire che il suo autore è un tipo simpatico. Lo leggi perché ti hanno fatto capire che l’autore è un genio”, disse David Foster Wallace a David Lipsky, il giornalista che “Rolling Stone” gli mise alle calcagna per documentare il tour di “Infinite Jest”. “Europe Central”, il romanzo, o per meglio dire la raccolta di racconti interconnessi che nel 2005 valse a William Vollmann il National Book Award, e che nella versione italiana degli Oscar Mondadori di pagine ne ha 962, puoi leggerlo per questa sola ragione. La citazione del Wallace di “Come diventare se stessi” non è casuale; Wallace e Vollmann, più o meno coetanei, hanno – o hanno avuto – diversi tratti in comune, dal massimalismo argomentativo dei rispettivi testi, che nel caso del californiano sfida la resilienza perfino del lettore più navigato e ossessionato da certe narrazioni (“ossessione” è una delle parole chiavi per comprendere, decriptare l’universo di Vollmann), al virtuosismo retorico di una scrittura sempre autorevole e impareggiabile per ampiezza di toni e di registri, perfettamente piegata ai contenuti, sia che si tratti di fiction che di non-fiction, ultimo esempio felice (forse) del postmodernismo americano (nel caso di Vollmann contaminato anche dal New Journalism di autori come Tom Wolfe, Truman Capote, Joan Didion). Quando Vollmann pubblica il suo librone più celebrato dalla critica (il successo di Vollmann tra i critici è inversamente proporzionale alle copie vendute delle sue opere, molto poche, almeno in Italia), l’altro, il gemello diverso, sta lavorando a qualcosa di altrettanto magmatico e indecifrabile che sarà pubblicato postumo col titolo de “Il re pallido”. Gettarsi tra le mille pagine di “Europe Central” (per chi non ha mai fatto esperienza di Vollmann ma ne ha solo sentito parlare), attraversarle con convinzione senza lasciarsi tentare dalla resa o dal gesto clamoroso del lancio del mattone dal balcone o finestra, presuppone dunque un sentimento di stima profonda del lettore nei confronti dell’autore, un patto di fiducia, quello che nel diritto si chiama intuitus personae. Ma anche un pizzico di follia. Si può arrivare a un autore come Vollmann senza seguire prima un determinato percorso libresco? Non lo so. Non è il mio caso. Penso che con Vollmann puoi confrontarti solo se sei spinto, come dicevo prima, da un’ossessione e da una dipendenza da alcune forme letterarie, anche da una forte attrazione per tutto quello che ruota intorno all’America: non è il caso di questo romanzo-non-romanzo, ma la bibliografia di Vollmann è una specie di sintesi, un riassunto degli Stati Uniti (storia, costume, ecc.). 

Ma stiamo sul pezzo. Tra verità e finzione Vollmann ricostruisce gli anni più cruenti della storia europea del XX secolo: le tragedie del nazismo e del comunismo, la seconda guerra mondiale, gli strascici del tempo a venire. Un prisma di voci, punti di osservazione, trame, sottotrame, divagazioni che se impongono al lettore uno sforzo di concentrazione fuori dall’ordinario (sforzo ben ripagato), non possono non aver richiesto all’autore un lavoro di studio e di scrittura notevolissimo. Che la rappresentazione dei fatti narrati da Vollmann non sia solo il prodotto della sua immaginazione – da qui la dubbia classificazione del libro come opera esclusivamente di fiction – è lo stesso Vollmann a negarlo “I critici letterari, perlopiù, concordano nell’affermare che la prosa narrativa non si possa ridurre a mera falsità”, ma senza la calibrata interazione-interlocuzione alla quale Vollmann sottopone i mille personaggi della sua opera – primi attori e comparse – non staremmo qui a parlare di “Europe Central” come di un capolavoro assoluto della letteratura di tutti i tempi, alla stregua de “L’Iliade”, “L’Odissea”, “Guerra e pace”, perché “Europe Central” questo è, un’opera che sfida il tempo e che racchiude in sé tutta la parabola dei sentimenti umani, dall’odio alla volontà di potenza, dalla misericordia alla passione più sfrenata. La vicenda di Elena Konstantinovskaja, eroina e “ago e filo” per tutti o quasi tutti i capitoli del libro, femme fatale bisessuale e disinibita, amante di Vera Ivanovna poi moglie del regista Roman Karmen e soprattutto oggetto del desiderio (in parte realizzato) e musa ispiratrice del compositore Šostakovič, è il più bel romanzo nel non-romanzo. L’Elena di Vollmann è come la Elena di Omero, ma della guerra la Konstantinovskaja non è artefice, ne è vittima e spettatrice. Šostakovič è soggiogato dalla mutevolezza della sua ars amandi fatta di pluralità e slanci imbarazzanti “Lei amava le donne; e lui la amava per questo”. Non può sposarla perché è già sposato ma il vorrei ma non posso e l’infinito rincorrersi dei due occupa buona parte del libro, così come le note delle sinfonie scritte negli anni del conflitto, che vengono fuori come i battiti dei loro cuori sofferenti, amplessi furtivi di un amore irregolare, asimmetrico. Lo sturm und drang di Vollmann è un gioco sovrumano, un vortice di passioni laceranti nel quale ogni cosa viene risucchiata a tempo debito, senza pudore né ragionevolezza, come schegge impazzite di un delirio collettivo che nella delicata questione russo-ucraina di questi mesi sembra ripetersi: la vita e la morte, l’obbedienza e l’anarchia, l’infedeltà e il sopruso, l’annientamento, l’estasi. 

Angelo Cennamo

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IL CRINALE – Michael Punke

Prima di diventare avvocato e ambasciatore alla WTO, Michael Punke è nato e cresciuto in Wyoming. Non è un dettaglio. Il suo primo romanzo, “The Revenant” (“Redivivo”), pubblicato negli Usa nel 2002 – in Italia nel 2014, sempre con Einaudi – è stato un bestseller internazionale che ha ispirato anche un film con Leonardo Di Caprio. 

Con “Il crinale”, da qualche giorno in libreria, Punke non si allontana più di tanto dalle atmosfere del libro precedente. Nel nuovo romanzo si racconta la battaglia di Fetterman (massacro di Fetterman) del 1866, combattuta dall’esercito americano contro la tribù degli Oglala (Lakota), meglio conosciuti come Sioux. Chi intendesse approfondire la vicenda – praticamente il momento culminante della resistenza dei nativi americani contro gli invasori bianchi nell’Ovest – può farlo attraverso un paio di saggi consigliati dallo stesso Punke nelle note finali del libro: “The Fetterman Massacre” di Dee Brown o “Give Me Eighty Men. Women and the muth of the Fetterman fight” di Shannon D. Smith.

Il romanzo è evidentemente un western storico che tra finzione e verità ricostruisce un momento cruciale della lunga questione dei pellerossa. La disfatta di Fettermann, che arrivò dieci anni prima di quella del generale Custer, segnò un punto a favore dei nativi americani, ma l’annosa questione dell’invasione dei bianchi, com’è noto, ebbe ben altro esito. Punke ci porta in un angolo del Montana, la valle di Powder, dove un battaglione dell’esercito guidato dal colonnello Henry Carrington (personaggio realmente esistito) intende costruire un Forte (Fort Phil Kearny) per difendere la strada per i giacimenti d’oro di quello Stato. Carrington non ha propositi bellicosi, nonostante parte della sua truppa, a cominciare dal tenente George Washington Grummond, non veda l’ora di sterminare le tribù indigene che di tanto in tanto si affacciano sulla valle. Per due terzi, la storia raccontata da Punke è un alternarsi di punti di osservazione: quello guardingo dell’esercito, al cui interno si staglia la figura già citata di Grummond, testa calda e marito bugiardo di Frances; quello dei nativi americani: del capo guerriero Nuvola Rossa, del suo subalterno Cavallo Pazzo, di Piccolo Falco. Le due fazioni si studiano a distanza, il crinale della collina segna il confine tra la pace e la guerra. Gli Oglala tessono alleanze con altre tribù in vista di un possibile scontro: soprattutto con gli Arapaho e i Cheyenne (che nella traduzione di Gaspare Bona diventano “gli” Cheyenne). In attesa di migliori equipaggiamenti, gli uomini di Carrington si danno da fare per costruire il Forte, ma le tensioni interne tra falchi e colombe finiscono per logorare i nervi e la tenuta del gruppo. Nel romanzo non mancano voci femminili; al seguito dell’esercito ci sono le mogli dei soldati. Frances Grummond ne è l’attrice protagonista. Frances, che è anche una delle due voci narranti del romanzo, annota quello che vede su due diari segreti. Le sue paure, la sua delusione, i pentimenti, occupano uno spazio importante nell’economia del racconto. Le altre donne sono le lavandaie, spesso molestate a fine giornata da soldati alticci o semplicemente da mariti infedeli. Tra gli altri personaggi del libro figura il leggendario Nelson Story, fonte di ispirazione anche di “Lonesome Dove”, il non plus ultra del genere western col quale Larry McMurtry si aggiudicò il premio Pulitzer nel 1986. 

Tutto procede con ordine (impegno, studio, confronto) fino allo scontro decisivo tra i bianchi e i pellerossa, lo spietato redde rationem forse evitabile, sicuramente già scritto. Che ne sarà del pugnace tenente Grummond e del prudente colonnello Carrington? Siamo alle battute finali di questo bel romanzo (revisionista?) ricco di spunti, storie, descrizioni, ma che non ci scalda il cuore. 

Angelo Cennamo  

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LEGITTIMA VENDETTA – S.A. Cosby

S.A. Cosby, scrittore originario della Virginia, lo abbiamo conosciuto un paio d’anni fa con “Deserto d’asfalto” (vincitore del Los Angeles Times Book Prize 2020 nella categoria Mystery/thriller) grazie all’editore Nutrimenti e al suo traduttore Nicola Manuppelli. Con “Legittima vendetta” (“Razorblade Tears”), nelle librerie italiane dal 28 marzo, questa volta con Rizzoli, Cosby – che prima di arrivare al successo con la scrittura ha fatto mille mestieri, dal buttafuori al giardiniere, dall’operaio al montatore di palchi – non ha deluso le aspettative (piuttosto alte visto il gradimento dell’altro romanzo), confermandosi tra i nuovi protagonisti del genere crime.

La trama del libro è piuttosto semplice: una coppia omosessuale – due giornalisti sposati con una figlia di pochi anni – viene assassinata a sangue freddo. Per dare una svolta alle indagini della polizia, giunte a un punto morto, il padre di una delle vittime (Buddy Lee Jenkins): un ex galeotto, bianco, divorziato, col vizio dell’alcol, propone al consuocero (Ike Randolph), di colore e anche lui con dei trascorsi in galera, di occuparsi del caso non ancora risolto. Come il Beauregard Montage di “Deserto d’asfalto”, Ike ha chiuso i ponti col suo passato balordo. Oggi Ike ha una moglie, un’azienda da mandare avanti e da pochi giorni anche una nipotina da crescere: non può e non vuole mandare tutto all’aria (lavoro, famiglia, reputazione) per vestire i panni del giustiziere della notte. Ma le pressioni di Buddy muovono le corde giuste ed è qui che il romanzo decolla. Come due Hap e Leonard attempati, Ike e Buddy iniziano un’indagine parallela a quella ufficiale della polizia che scatenerà una lunga spirale di violenza e di feroci ripicche. 

“Legittima vendetta” è chiaramente un romanzo sull’omofobia e sul razzismo. Ike e Buddy, che non avevano accettato l’omosessualità dei loro figli, men che meno l’idea che i due si sposassero, ora devono fare i conti col peso dei rimorsi e con una crescente sete di vendetta che cancella ogni timore, precauzione, riabilitazione civile dopo l’esperienza del carcere. Leggendo questa storia molti di voi si sorprenderanno del clima di arretratezza che si respira ancora oggi nelle province del sud degli Stati Uniti. La faccia brutale dell’America di Trump, troviamo scritto nella sinossi. Non credo che Trump abbia il copyright su questo andazzo, già perfettamente rappresentato da autori come Joe Lansdale, Chris Offutt, Ron Rash. Resta il fatto che Cosby, sulla falsariga dei suoi più illustri colleghi, è riuscito ad imbastire un plot forse non molto originale ma di grande impatto emotivo. 

Angelo Cennamo

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DIVORZI – Susan Taubes

“Una donna che si è suicidata giovedì notte camminando nell’Oceano Atlantico è stata identificata oggi come la signora Susan Taubes, insegnante e scrittrice di origine ungherese il cui romanzo è stato pubblicato la scorsa settimana”. Così il New York Times dell’8 novembre del 1969 diede la notizia del suicidio di Susan Taubes, intellettuale ebrea di Budapest, emigrata negli Stati Uniti dove insegnò (alla Columbia University di New York) e divenne amica di Susan Sontag. Il romanzo al quale si fa riferimento nell’articolo è “Divorcing” – il titolo sarebbe dovuto essere “To America and Back in a Coffin” – che il critico Hugh Kenner aveva stroncato senz’appello pochi giorni prima dalle colonne dello stesso quotodiano, contribuendo, a detta di qualcuno (Sontag in primis), a destabilizzare oltremodo la già fragile psiche della scrittrice. Ma questa è un’altra storia, forse. 

“Divorzi”, pubblicato in Italia da Fazi con la traduzione di Giuseppina Oneto, è una storia semiautobiografica che ci porta ad altre due vicende letterarie simili, quella di Ingeborg Bachmann (anche lei autrice di un solo romanzo, nel quale, tra l’altro, si fa riferimento a un personaggio di nome Ivan come nel libro della Taubes), e a “La campana di vetro” di Sylvia Plath, altro unicum, sempre autobiografico, che riflette la tormentata relazione tra la Plath – suicidatasi l’11 febbraio del 1963 – e Ted Huges. 

La storia racconta dalla Taubes, che nella finzione è Sophie Blind, inizia dalla fine: in una strada di Parigi la donna viene investita e uccisa da un’auto. Una liberazione per la protagonista, una tragica preveggenza per l’autrice (ricordate “Caro vecchio di neon” di David Foster Wallace?). Sophie è sempre in viaggio, dall’Europa agli Stati Uniti. Parigi. New York. Il suo matrimonio in crisi è la traccia che accompagna il lettore per tutte le trecentoventuno pagine. Lui (Ezra), gli altri, i luoghi, le stanze: vuote, silenziose; le valigie. Solitudine, tormento, infelicità nella narrazione diventano indifferenza. Il tono sorprendentemente distaccato, cinico, esistenzialista, presta il fianco a una forma nuova, originale per quei tempi. “Divorzi” è un romanzo sulle donne e sulla cultura patriarcale. Ambizioso, sperimentale, filosofico. Leggendolo ho pensato a “Il disprezzo” di Moravia: stessa densità, eleganza, turbamento. 

Angelo Cennamo

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L’ANNO CHE BRUCIAMMO I FANTASMI (THE SENTENCE) – Louise Erdrich

Non si può separare Louise Erdrich, la donna, la scrittrice, la poetessa – premio Pulitzer nel 2021 con “Il guardiano notturno” – dalle radici, fortissime, che la legano alla Turtle Mountain Band of Chippewa Indians, la tribù degli Ojibwa dalla quale proviene la sua famiglia e che fa da sfondo a tutte le storie dei suoi libri, da “Il giorno dei colombi” a “La casa tonda”. È, come si dice, una mission, che la Erdrich si porta dietro da sempre, con alterne fortune ma che le conferisce un’identità precisa, inconfondibile, nel variegato panorama della letteratura americana. Louise Erdrich è un’icona della cultura pellerossa. È quella cosa lì. 

“L’anno che bruciammo i fantasmi”, che io chiamerò “The Sentence” come nella versione originale (ricordate la questione di “Beloved” di Toni Morrison che qui da noi è diventato “Amatissima”?), è uscito nello stesso anno dell’affermazione al Pulitzer. Da qualche giorno Feltrinelli lo ha portato in Italia con la traduzione di Andrea Buzzi. Nonostante la solita patina culturale (solita nel senso di tipica), il romanzo si discosta dai precedenti per una curiosa matrice noir presente nella parte iniziale, e per la decisa impronta di attualità riferita a due eventi drammatici avvenuti negli ultimi anni: l’assassinio di George Floyd, che nella testimonianza della Erdrich riproduce la stessa violenza subita dagli indiani, e la pandemia da covid. Tutto accade in una cittadina del Minnesota. All’inizio della storia Tookie è una ragazza innamorata e abbastanza ingenua: un favore ben retribuito le costa inizialmente una condanna a sessant’anni di carcere. Dopo i primi capitoli, il romanzo switcha dal poliziesco e prende un’altra direzione. Tookie oggi è una donna di mezza età, sposata con il poliziotto che l’aveva arrestata per quella brutta faccenda, e lavora in una libreria indipendente. Non è un caso: la rinascita di Tookie è passata attraverso la lettura e sono proprio i libri di Tookie (nelle ultime pagine elencati in una specie di lista di consigli per gli acquisti) a dare forma e sostanza al romanzo “I libri contengono tutto ciò che vale la pena di sapere tranne ciò che conta davvero”. “The Sentence” è fondamentalmente un libro che parla di altri libri. Mille le citazioni, i titoli, suggerimenti, interlocuzioni con i clienti del negozio, tra i quali il fantasma di Flora, amica della protagonista e assidua frequentatrice (anche dopo la morte) della libreria dove lei lavora. Il negozio di Tookie mi ha ricordato il Brokeland Records del romanzo di Michel Chabon (“Telegraph Avenue”), quel piccolo mondo antico di vinili che resiste alla grande distribuzione dei nuovi tempi e dove gli abitanti del quartiere si ritrovano per scambiarsi ricordi e conversare del più e del meno. “In ‘The Sentence’ i libri sono una questione di vita e di morte e i lettori esplorano regni insondabili per conservare un legame con la parola scritta”, spiega l’autrice nei ringraziamenti finali di questo bel compendio di umanità e di nostalgia. Sì, “The Sentence” è un romanzo d’amore. 

Angelo Cennamo

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