DIVORZI – Susan Taubes

“Una donna che si è suicidata giovedì notte camminando nell’Oceano Atlantico è stata identificata oggi come la signora Susan Taubes, insegnante e scrittrice di origine ungherese il cui romanzo è stato pubblicato la scorsa settimana”. Così il New York Times dell’8 novembre del 1969 diede la notizia del suicidio di Susan Taubes, intellettuale ebrea di Budapest, emigrata negli Stati Uniti dove insegnò (alla Columbia University di New York) e divenne amica di Susan Sontag. Il romanzo al quale si fa riferimento nell’articolo è “Divorcing” – il titolo sarebbe dovuto essere “To America and Back in a Coffin” – che il critico Hugh Kenner aveva stroncato senz’appello pochi giorni prima dalle colonne dello stesso quotodiano, contribuendo, a detta di qualcuno (Sontag in primis), a destabilizzare oltremodo la già fragile psiche della scrittrice. Ma questa è un’altra storia, forse. 

“Divorzi”, pubblicato in Italia da Fazi con la traduzione di Giuseppina Oneto, è una storia semiautobiografica che ci porta ad altre due vicende letterarie simili, quella di Ingeborg Bachmann (anche lei autrice di un solo romanzo, nel quale, tra l’altro, si fa riferimento a un personaggio di nome Ivan come nel libro della Taubes), e a “La campana di vetro” di Sylvia Plath, altro unicum, sempre autobiografico, che riflette la tormentata relazione tra la Plath – suicidatasi l’11 febbraio del 1963 – e Ted Huges. 

La storia racconta dalla Taubes, che nella finzione è Sophie Blind, inizia dalla fine: in una strada di Parigi la donna viene investita e uccisa da un’auto. Una liberazione per la protagonista, una tragica preveggenza per l’autrice (ricordate “Caro vecchio di neon” di David Foster Wallace?). Sophie è sempre in viaggio, dall’Europa agli Stati Uniti. Parigi. New York. Il suo matrimonio in crisi è la traccia che accompagna il lettore per tutte le trecentoventuno pagine. Lui (Ezra), gli altri, i luoghi, le stanze: vuote, silenziose; le valigie. Solitudine, tormento, infelicità nella narrazione diventano indifferenza. Il tono sorprendentemente distaccato, cinico, esistenzialista, presta il fianco a una forma nuova, originale per quei tempi. “Divorzi” è un romanzo sulle donne e sulla cultura patriarcale. Ambizioso, sperimentale, filosofico. Leggendolo ho pensato a “Il disprezzo” di Moravia: stessa densità, eleganza, turbamento. 

Angelo Cennamo

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