CONVERSAZIONE CON CLAUDIA DURASTANTI

Claudia Durastanti è nata a Brooklyn trentanove anni fa, ma alle sue spalle ha già una laurea in Antropologia culturale, quattro romanzi, il quinto è appena uscito, una lunga serie di traduzioni di libri americani, saggi, articoli, recensioni anche musicali per la rivista Mucchio Selvaggio. Dal 2021 cura La Tartaruga, marchio de La Nave di Teseo, suo attuale editore. Cresciuta tra gli Stati Uniti e la Basilicata, vive stabilmente a Londra dove ha contribuito a fondare il “Festival of Italian Literature”. Collabora infine (infine?) con il Salone del libro di Torino. La prima cosa che mi viene da chiederti è a che ora iniziano le tue giornate e se ti resta del tempo libero. 

Ora iniziano alle 7.30 e procedono in grande confusione tra treni, traduzioni, pagine di lettura rubate (ormai leggo i libri che desidero leggere come se mi stessi ubriacando di nascosto, è diventata un’attività quasi viziosa), manutenzione del lavoro e mestizia perché nelle fasi di promozione dei romanzi senti i pensieri originali che si allontanano, scrivi peggio e pensi peggio. Poi finisce. E torno a svegliarmi alle 10 per andare a dormire alle 2. 

Ti ho conosciuta come autrice nel 2019 (poi ho recuperato il pregresso). La straniera, il tuo quarto libro, un po’ romanzo un po’ memoir (“La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”) ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica e ha sfiorato il premio Strega. Quando lo lessi rimasi folgorato prima ancora che dalla storia, dalla bellezza e dalla modernità della scrittura. La straniera è stato anche libro dell’anno per Telegraph Avenue. Mi risulta che è stato tradotto in una ventina di paesi, dico bene?   

Sono diventati venticinque, ha avuto una storia particolare come libro e per certi versi irripetibile. Da traduttrice, ho una percezione approfondita e anche particolare della traducibilità, non credo che sia tutto necessariamente trasferibile in ogni lingua e contesto. Quello era un libro intrinsecamente comparato. Una cosa che volevo fare dal giorno dell’uscita e per cui non ho avuto mai tempo era passare un po’ di tempo con mia madre a NY. L’ho portata lo scorso Natale, e passeggiando verso South Street Seaport mi ha raccontato delle storie assurde sulla sua vita americana che non finiranno mai nella Straniera. Stavo chiudendo le bozze del libro nuovo e ho voluto prepararlo che quella fase della mia vita durata cinque anni stava un po’ per chiudersi – La straniera avuto davvero la fortuna di vivere una vita lunghissima – e dunque magari in un certo senso sarebbe finita questa fase anche per lei che era al centro di quel romanzo. Mia madre mi ha guardato in maniera perentoria intimandomi: “La straniera non finirà mai” (ho una foto buffissima in cui sembra il patriarca di Succession mentre lo dice)  e proprio in quel momento mi è arrivata una mail di Elisabetta Sgarbi per dirmi che i diritti del libro erano stati venduti in Giappone. Ho riso moltissimo. Ha ragione lei, per alcuni aspetti. Ma poi è uscito Missitalia, che per tanti aspetti è un romanzo più personale, intimo, nella misura in cui riguarda le mie visioni e ossessioni e lo stato dei miei pensieri sulla storia e la contemporaneità. E avrà le sue traduzioni, che saranno altrettanto preziose, anche se rispetto alla Straniera si tratta di ere geologiche contigue ma separate. 

(La straniera) è una storia di confini e sul superamento dei confini: normalità / disabilità, povertà / benessere, il silenzio  e il suono delle parole dette, il dialetto lucano e l’italiano, lo studio e la cultura come strumento di emancipazione. Un altro tema del romanzo è l’identità. Tu sei nata a New York e ci sei rimasta fino ai sei anni. Cosa vuol dire nascere in un posto come New York? Pensi che abbia segnato in qualche modo il tuo destino di autrice, che lo abbia caricato di ulteriori significati? 

Oltre all’infanzia ho avuto le estati americane, tutte fino ai diciassette anni, poi ho iniziato a fare altri viaggi. Penso che questo punto di origine mi abbia trasmesso immediatamente un senso di elettricità e di importanza, di ricerca del pericolo e dell’angolo sbagliato; invece di capire me stessa e la mia casa e la mia famiglia volevo capire le case degli altri e le strade in cui stavano male e le ragazzine che scappavano e rubavano nei negozi e si sceglievano presto un’appartenenza e una divisa fuori dalla famiglia. E questo forse ha lasciato un’impronta importante. New York mi ha messo subito a contatto con i fantasmi dell’arte e della storia, probabilmente mi ha dato sin da subito la sensazione di possibilità e affrancamento dalla solitudine. E io sono diventata una lettrice e scrittrice così, cercando i miei sentimenti selvaggi nella folla, negli altri. Ci ho messo tantissimo tempo a tornare a me. Non so come sarebbe andata se fossi stata una creatura silvana o nata e cresciuta in provincia, negli anni della formazione ho avuto sia il deserto lucano che la domenica a messa che appunto questa dimensione totalizzante della città assoluta, cruda, verticale. Per certi aspetti è stato un privilegio assoluto: vivere NY senza sparirci dentro, senza addomesticarla del tutto, senza annoiarmene, anche se ora che sono adulta e ci passo più o meno un mese l’anno sento che si è sedimentato tutto e forse ho perso anche una lingua con cui raccontarla.  

Il tuo romanzo di esordio Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (premio Mondello giovani) è praticamente un romanzo americano. La storia risente chiaramente delle tue letture giovanili, mi viene in mente su tutti Meno di zero di Ellis, ma anche Le ragazze di Emma Cline, che però è uscito qualche anno più tardi. Passami la battuta: sei stata Emma Cline prima di Emma Cline. 

Che esordio impressionista quello! Anche se credo che con L’ospite abbia scritto il suo libro davvero importante. Quello che mi piace di Cline è il suo modo di flirtare con i generi, che sia il true crime o l’horror psicologico mettendo tutto indissolubilmente al servizio della frase, dell’estetica, dello stile, che per alcuni è il suo vero peccato. Come se diventasse troppo filmica. Ma capisco quel vizio originale: per me all’inizio il modo era tutto, forse lo è ancora anche se credo che dalla Straniera in poi e in parte con la sequenza che ha portato a Cleopatra va in prigione sono diventata più una scrittrice di forma, e credo che il rischio sia di un approccio così il manierismo, l’eccesso di stile ovviamente. Ma io ho avuto un approccio molto fisico alla letteratura americana, prima ancora di Ellis e Didion e DeLillo ed Egan sono stata una grande consumatrice di Fitzgerald e Kerouac e ho capito che non volevo fare niente se non c’era ritmo e possessione, se la lingua non diventava anche un esorcismo, un’immagine indelebile, uno squarcio nella percezione che solo un certo scrittore o una scrittrice poteva generareInsistere e accelerare fino a creare un proprio mondo, un proprio codice. È come diceva quel personaggio nella Trama del matrimonio di Eugenides modellato su David Foster Wallace, che era ossessionato dal voler diventare un aggettivo. Ho amato gli autori divorati da questa ambizione. Rispetto a una letteratura seriale impostata sulla somiglianza e la riconoscibilità, continuo a difendere la differenza.

Io e te apparteniamo a generazioni diverse eppure siamo cresciuti leggendo gli stessi autori; prima ho citato Ellis, ce ne sono altri: DeLillo, Carver, McInerney, David Foster Wallace… A proposto di Wallace, una volta chiesi a Luca Briasco se il postmodernismo può dirsi un’esperienza archiviata dopo opere come La scopa del sistema e Infinite Jest. Briasco rispose che è morto e sepolto con Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan. Uno degli autori che traduci è il premio Pulitzer Joshua Cohen (ad oggi in Italia sono usciti quattro libri di Cohen con Codice editore, tutti e quattro li ha tradotti Claudia Durastanti. Durastanti è per Choen quello che Silvia Pareschi è per Franzen: la sua unica voce italiana). Senza nulla togliere all’autorevolissima opinione di Briasco, non pensi che autori come Cohen e Ben Lerner, per esempio, il postmodernismo riescano in qualche modo a tenerlo in vita e a declinarlo secondo altre forme?

Premetto che io ho un rapporto distorto con l’idea di classico. Tanto che in A Chloe per le ragioni sbagliate c’è un personaggio che vuole laurearsi con una tesi che mette al confronto Nikolaj Stavroghin dei Demoni di Dostoevskij e Nick Shay di Underworld di DeLillo, perché per me Underworld è un classico contemporaneo, e cioè un romanzo che non può essere scritto e sovrascritto, che genera ed esaurisce la sua unicità. Io credo che se vogliamo usare delle categorie, dobbiamo esporle all’andamento temporale, non per segnalarne la nascita e la fine (il romanzo non muore, l’autofiction non muore) ma per riconoscerne le varie fasi interne. Cioè un genere letterario diventa abbastanza maturo o vecchio da maturare varie stagioni dentro di sé. E il postmoderno a cui si riferisce Briasco chiudendolo con Il tempo è un bastardo è finito sottotraccia, ma abbiamo il postmoderno di Joshua Cohen o di Valeria Luiselli ma soprattutto dell’ultimo romanzo di Catherine Lacey, Biografia di X, anche se credo che resterà un episodio circostanziato nella sua produzione letteraria. Così a spanne mi verrebbe da dire che si tratta di un postmoderno in cui il romanzo ha coscienza della sua fragilità e debolezza, allora saccheggia dalla literary non fiction, si rigenera e torna a sé stesso in forma aumentata. L’altro elemento di crisi rispetto al postmoderno di Egan, che è e resta una grande progettatrice di interni quando si tratta di storie, è l’idea (appunto originaria e costitutiva della narrativa postmoderna) di qualcosa che non può tornare e non deve tornare. Non a caso lei ha tratto tantissima influenza dalla serialità televisiva, e il fatto che anche questo formato ora non riesca più a portare avanti dei progetti labirintici ma perfettamente giustificabili in termini di senso e costruzione del mondo, fa sì che si viva una fase di scritture di quel tipo in cui c’è una maggiore precarietà e crisi di senso, che nei casi migliori diventa materia viva del romanzo. E quindi forse siamo addirittura a un postmoderno che vampirizza le sue fasi germinali, un po’ un uroboro. 

Un altro scrittore che traduci è Nickolas Butler (uscito dal prestigioso Iowa Writers’ Workshop). Una volta ebbi con lui un piccolo screzio, niente di che; gli dissi che a volte dava la sensazione di essere uno scrittore costruito, impostato secondo gli stereotipi del Midwest: barba, camicia a quadri di flanella, storie di pick up, fienili, buoni sentimenti, roba del genere. Ma io sono autenticamente del Midwest! rispose piccato. Vabbè, pace fatta. Il mondo di Butler come quello di Tiffany McDaniel, Kent Haruf, Ron Rash, Willie Vlautin…  così rustico, bianco, conservatore, trumpizzato, è l’ultima frontiera di un’America di provincia ancora scolpita nell’immaginario di noi europei ma che nelle nuove tendenze è un po’ scemata. Come sta cambiando la narrativa americana anche alla luce di fenomeni relativamente recenti come il Sensitive reading, la Cancel culture eccetera? 

Butler è uno scrittore antico, ha un approccio alla pagina e alle storie che forse aveva più a che fare con Sherwood Anderson che con Kent Haruf, almeno agli inizi. C’era il bagliore di quel tipo di candore, soprattutto nei racconti. E credo che per la fortuna della sua ricezione, ma anche per la sfortuna della sua autonomia come autore, Butler sia emerso in un momento in cui la traduzione della letteratura americana in Italia ha optato per un paesaggio rurale minimo, a volte consolatorio, selezionando volutamente determinate opere che ricostruissero una mappa di quel tipo. Ma è stata un’America per certi aspetti immaginaria, in differita, un Midwest diluito che ha fatto scuola e piccolo palinsesto in Italia, basandosi sulla somma di certi libri simili e affini, mentre lì accadeva anche altro e soprattutto altro. Quindi quando parliamo di letteratura americana contemporanea, è importante tenere presente che la somma delle traduzioni in Italia e delle scelte di catalogo crea degli scenari artificiali, che possono essere belli e riusciti, ma che trovano senso in questo contesto e in questo paese. Io credo che la narrativa più interessante almeno fino a qualche anno fa sia discesa da non americani madrelingua: Yuri Herrera, Ocean Vuong anche se non so davvero come si evolverà la sua scrittura e se resterà un episodio, Aleksander Hemon, Valeria Luiselli, oppure da pensatori formali come Ben Lerner o Catherine Lacey o Hernan Diaz. Lacey è forse l’ultima autrice americana che mi ha generato un entusiasmo pari a quello di Jennifer Egan. O da autori come Denis Johnson, che per me sta alla letteratura americana come Paul Thomas Anderson sta al cinema: con un senso di essere l’ultimo, ed è stato l’ultimo, poco letto, compreso, volutamente subdolo nel cambiare forma alle aspettative di lettura. Sul sensitive reading credo che aumenteranno i romanzi nella vena di Percival Everett: e cioè smascherando l’idea che questa idea di letteratura auto-rappresentativa e sanificata sia portata avanti dalle minoranze o che sia nel nome di presunti eserciti immaginari. Sul fronte britannico, basta pensare alla meraviglia di Ragazza, Donna, Altro di Bernardine Evaristo. Le schegge di Ellis ha avuto una buona vita editoriale e quando dice che ha dovuto ambientarlo per forza per aggirare il conformismo dei discorsi politicamente corretti sul presente io non gli credo: è andato nel passato perché lì sta la sua forza, lì la terra mitica della sua scrittura, lì funziona l’ingranaggio. Come analista del presente Ellis ha le armi spuntate. Come romanziere è ancora potente. 

Da qualche anno hai accettato una sfida impegnativa: curare e rilanciare il glorioso marchio de La Tartaruga. Che esperienza si sta rivelando?

Sono felice se questa esperienza serve a far circolare dei testi poco conosciuti o talmente noti da diventare quasi sacri come Sputiamo su Hegel, per dare a questi libri una vita pubblica, non basata per forza sui numeri, ma sullo scambio, il consiglio, la creazione di una piccola biblioteca. Sono pochi libri che hanno voglia di restare o di tornare.  È una dimensione nuova per me, mi permette di far esistere cose che mancavano come Mia madre ride di Chantal Akerman o Coniglio maledetto di Bora Chung che rischiano di smarrirsi in cataloghi sensibili al femminismo ma anche molto vari e discontinui. Per natura, non credo di saper fare le cose a tempo indebito. In ogni rivista, realtà editoriale, posto di lavoro o festival culturale sono arrivata per imparare, sono arrivata al punto di assumermi delle responsabilità e poi ho provato la gioia di vedere che un’intuizione personale poteva diventare un’ispirazione per qualcun altro. Senza questa trasmissione di senso inizio a sentirmi male. È faticosissimo oltre che noioso lasciare sempre e solo il proprio marchio su tutto, ed è bellissimo invece quando la letteratura, i libri degli altri, sono talmente potenti che ti sovrastano e ti fanno quasi sparire. È uno strano momento di pace. 

Proprio in questi giorni hai concluso l’editing del tuo nuovo romanzo. La straniera risale a quattro anni fa, c’è molta curiosità tra i tuoi lettori. Puoi darci qualche anticipazione? 

Sono arrivata talmente in ritardo che il libro è uscito quasi da due mesi. Si intitola Missitalia, è un trittico che tratta la storia come sogno e il sogno come storia in duecento anni tra Val d’Agri, Roma, e la Luna, con abbondanti interferenze americane. Scriverlo è stata un’esperienza di esplorazione incontenibile, parla di scoperta di una risorsa, di sfruttamento intensivo di una risorsa e di rapporto con la fine di quella risorsa. Che può essere il petrolio, l’amore, forse anche il romanzo. Una scrittrice che ammiro molto e a cui voglio molto bene mi ha detto che dopo averlo letto le era sembrato un oggetto venuto da una dimensione altra, che le aveva lasciato un po’ una sensazione di curiosità e di meraviglia e voglia di giocarci. È una definizione generosa, ma mi ha reso contenta. E mi sto abituando piano piano alle sue affinità e divergenze con La straniera. 

I dati sulla lettura in Italia non sono incoraggianti: oltre il 60% dei nostri connazionali non legge neppure un libro all’anno, con punte dell’80% al sud. Alla letteratura in troppi preferiscono altre forme di racconto: fiction tv, cinema, social… Pensi che il romanzo abbia i giorni contati? 

Credo che l’editoria per come è strutturata ha dei giorni se non contati sicuramente turbolenti. Sono le solite storie sui circoli viziosi della sovraproduzione, del ciclo isterico della pubblicazione, che per contrasto sta creando delle realtà quasi vittoriane, di editoria mecenate a ritorno zero, con progetti avulsi da qualsiasi razionalità economica. Mi sembra una fase ripetitiva, isterica. Ma il romanzo vitale, quello che porta avanti il senso del romanzo o la sua permanenza nella storia, va avanti a prescindere da queste logiche. È condannato ad emanciparsene, ma non sempre si trova il coraggio di assecondare quello che chiede. E allora si scrivono libri, si scrivono esemplari di narrativa, si scrivono buone opere con un senso di mercato preciso, ad alta funzionalità. Si è sempre fatto così. E credo che ogni autrice e ogni autore possa essere estremamente visionario o estremamente cinico in base alle circostanze della vita, dal suo rapporto di fiducia con la letteratura. Uno spera di non essere mai troppo scoraggiato da rischiare, e da assecondare una profonda visione intima e interiore. 

Trump. L’ho citato prima a proposito dell’America rurale di Butler. In tempi non sospetti (American Psycho di Ellis), negli anni della Casa Bianca (Il decoro di David Leavitt) e sotto mentite spoglie (Il presidente dell’ONAN di Infinite Jest di Wallace non è Donald Trump ma quel Johnny Gentle gli somiglia molto) ha segnato anche la fiction degli Stati Uniti, il racconto della nazione. Secondo te, Trump è il prodotto di una certa America o è una certa America che è stata forgiata e plagiata da personaggi come Trump? 

Direi la prima. Un tempo era un americano singolare e marginale, oggi per certi aspetti è un arci-americano che gode di risonanza e popolarità, perché la storia tende a elevare certi tratti culturali e spirituali in base alle circostanze di un’epoca, di un determinato momento. È come assistere alla distorsione difrequenza e di volume di certe forme dell’inconscio collettivo; è stato il suo momento mentre ora Trump vive di una bizzarra forma di riciclo, di adesione spossata al pensiero negativo e controcorrente. Non è più una febbre, è una ricaduta. Una guerra civile bagnomaria. Non lo dico per ignorare la violenza delle deportazioni al confino, le morti per razzismo sistemico, il delirio misogino sulla vita sessuale delle donne,l’aggressività e sofferenza che si produce a ogni livello del quotidiano negli Stati Uniti, ma perché la temperatura alla vigilia delle nuove elezioni è più questa, di un infezione estesa e a bassa intensità che compromette il ragionamento e fa andare in giro in maniera sbandata. È una cosa che mi preoccupa quasi di più del trionfo della morte della sua prima vittoria elettorale. 

Quanto influisce, se influisce, l’attività di traduttrice nella ideazione delle tue storie, e qual è un autore o un’autrice che ti piacerebbe tradurre?  

Credo che tradurre Notti insonni di Elizabeth Hardwick per esempio abbia profondamente cambiato il mio modo di rapportarmi all’aggettivazione, al simbolismo della prosa, ero in uno stato di trance e di anomalia della forma – quel libro è misterioso e inclassificabile – che mi ha fatto venire voglia di diventare una scrittrice nuova, più indecifrabile a me stessa. È stata un’influenza profonda su certe scelte di Missitalia. Ma tradurre voci così è un’esperienza che centellino con cura. Ora sono felice di lavorare al mio primo fantasy letterario, The book of love di Kelly Link. Mi fa bene anche questo ordine, questo rapporto con la macchina narrativa. Come diceva Pavese che non voleva tradurre Fitzgerald per non rovinarsi e non rovinarselo, io non toccherei mai una pagina di Don DeLillo. Ne morirei. 

Il tuo rapporto con i social. Alcuni autori e autrici ne sono fuori, pensano che gli scrittori debbano parlare solo attraverso i propri libri. Altri, come si dice, sono sul pezzo, cavalcano l’onda, partecipano anche a discussioni animate sulla politica, sul clima eccetera. 

Sono meno reattiva di un tempo, ma Facebook ha avuto un’influenza positiva nell’esperienza del feedback rispetto a degli esperimenti di pensiero e di stile per me, è stato a suo modo un laboratorio che ho sfruttato intensamente, finché non ho deciso di chiudere quell’esperienza perché si era cronicizzata nel sempre uguale. Non mi interessa tanto cosa si dice e cosa si dibatte – mi sono tolta dopo dei dibattiti molto accesi in seguito a un pezzo che ho scritto su Amanda Gorman per Internazionale – ma il modo in cui la falsa conoscenza che si produce là sopra è diventata una parte integrale del nostro modo di apprendere e trasmettere le storie. Quando Amalia Spada all’inizio di Missitalia dice che la cosmologia di una persona si crea per false conoscenze, frammenti di aneddoti, che restano le cose meno importanti perché bruciano prima e fanno una bella cenere, sta dicendo in fondo quello. E non è solo una critica negativa alle fake news: io credo che abbiamo veramente desiderato e amato questo modo di raccontare più iridescente e spesso irrazionale, dobbiamo farci i conti, e capire quanto ci ha cambiato, e ha mutato i romanzi nel profondo, non nella superficie. 

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