1987, uno studente universitario di Ithaca (NY), cresciuto nel Midwest, riscrive la propria tesi di laurea in filosofia e ne fa un romanzo bislacco ma per tante ragioni destinato a lasciare un segno nella letteratura americana, in quegli anni alle prese col minimalismo di Carver, Ellis, Leavitt, McInerney. Si chiama David Foster Wallace, di lì a poco diventerà uno degli scrittori più innovativi della sua generazione, e a seguito della morte, avvenuta per suicidio a soli quarantasei anni, una vera e propria figura di culto. Definire lo stile di Foster Wallace è complicato anche per un linguista arguto come Stefano Bartezzaghi che del suo romanzo di esordio ha curato la prefazione italiana per conto di Einaudi. Postmoderno, si è detto. Ma c’è dell’altro. La scrittura è vertiginosa, ellittica, in alcuni passaggi ostica, incomprensibile, in altri più snella perché Wallace sa tradurre, scomporre pensieri complessi e rivestirli di nuove forme pop, avvicinare l’alto al basso, ispezionare la mente dei suoi personaggi, destrutturare sinapsi, offrire al lettore secondi e terzi punti di osservazione.
La Scopa del Sistema racconta le avventure di Lenore Beadsman, una ragazza fragile e insicura che si mette alla ricerca della bisnonna novantenne (ultima allieva del filosofo Wittgenstein), fuggita misteriosamente dalla casa di riposo insieme a un folto gruppo di altri pazienti e infermieri. Tutto quello che accade nelle cinquecentosettantacinque pagine del romanzo: la difficile relazione – diciamo pure l’impossibile relazione – tra Lenore e Rick Vigorous, l’ultraquarantenne conosciuto nello studio di uno psicanalista; la popolarità di Vlad l’Impalatore, l’uccellino che recita sermoni religiosi su una tv via cavo (in Telegraph Avenue di Michael Chabon c’è un pennuto che gli somiglia molto – Telegraph Avenue è uscito nel 2012); i problemi di tossicodipendenza del fratello minore di Lenore, LaVache, ragazzo nato con una sola gamba; insomma tutta questa proliferazione di storie, ognuna delle quali costituisce un romanzo dentro il romanzo, fa da corollario alla traccia centrale del libro che è proprio l’assenza della bisnonna filosofa. I pezzi cuciti da Wallace intorno alla vicenda della scomparsa non seguono una linea retta, la struttura è volutamente disarmonica, con una punteggiatura avventurosa, ma l’incastro tra le diverse sottotrame è efficace così come l’alternarsi degli spunti comici alle parti più filosofiche, i continui richiami agli studi dell’anziana fuggiasca: aporie, antinomie, messaggi cifrati; dettagli oscuri, in alcuni casi indigesti, che tuttavia stimolano la curiosità del lettore attirandolo in un vortice ipnotico. Ho riletto per l’ennesima volta La Scopa del Sistema anche per testarne la resistenza al tempo: Wallace è un autore generazionale? Quante volte ce lo saremmo chiesto. Direi di no; a distanza di anni, se possibile, ho trovato il romanzo migliorato, come se a ogni rilettura si sprigionasse una nuova brillantezza, si consolidasse il mito. Quando La Scopa fu pubblicato non mancarono voci dissonanti di chi contestava a Wallace un eccesso di narcisismo e liquidava la sua opera prima come un vibrante esercizio di stile, nulla di più. In verità il romanzo funziona in ogni sua parte, perfino nei cazzeggi, ma per comprenderne appieno il senso: 1) non va persa di vista la sua fase embrionale, e cioè la tesi di laurea dell’autore, che viene fuori in diversi passaggi del testo, per esempio nelle trascrizioni delle sedute terapeutiche tra Lenore e il suo psichiatra o nei dialoghi tra Lenore e il fratello LaVache all’Amherst College; 2) va inclusa tra i protagonisti la figura invisibile di Wittgenstein. La presenza di Wittgenstein è consustanziale rispetto all’assenza di Lenore. Di più, i due sono praticamente la stessa cosa. Wittgenstein giudicava il linguaggio come un insieme di “giochilinguistici” dove il significato di una parola è l’uso di quella parola in un particolare contesto. Ecco allora la chiave di volta: siamo fatti di parole, non esiste realtà oltre il linguaggio, “La vita è il suo racconto” dice Lenore al suo psicanalista. Ma questo assioma vale anche per gli osceni sproloqui di Vlad l’Impalatore o gli animali parlanti ne sono esclusi? Dicevo di Wittgenstein, è la password per accedere e decriptare tutta l’opera di Wallace, non solo questo libro, basti pensare allo strapotere della pubblicità negli anni sponsorizzati di Infinite Jest. Quanto all’esuberanza o alla spregiudicata esibizione del talento (a ventiquattro anni certi virtuosismi non richiesti si possono anche perdonare, specie a chi possiede simili armamentari linguistici) questa non inficia la superba tessitura del romanzo, non mina la tenuta del plot, al contrario aggiunge qualità e brio al racconto, che dall’inizio alla fine non conosce cali di tensione né si perde in futili digressioni. Se non avete ancora fatto esperienza di David Foster Wallace, non perdete altro tempo. Cominciate da qui.
Angelo Cennamo