
Risalendo la corrente del postmodernismo americano, prima o poi si finisce per incrociare un autore leggendario, capace di scomporre e ricomporre le narrazioni secondo schemi inediti. Le sperimentazioni linguistiche di John Barth, negli anni cinquanta del secolo scorso, sono tra i migliori esempi di avanguardismo. La scrittura è consapevolmente intellettualistica, piena di giochi di parole e di quelle peripezie lessicali che spesso ritroviamo nel massimalismo isterico di scrittori contemporanei: Dave Eggers, David Foster Wallace: “Mi trovavo agli inizi d’un periodo di eremitaggio misantropico…Fuori, nel croccante prato marzolino…assapora una breve epistassi“.
L’Opera galleggiante è il romanzo più popolare di Barth; uscito per la prima volta nel 1956, viene ripubblicato undici anni dopo in una versione riveduta e corretta, meno indigesta per il grande pubblico. Ciononostante, insieme a Le perizie di Gaddis (uscito pochi mesi prima), il libro segna l’inizio di una nuova stagione letteraria proprio per lo stile bislacco, pirotecnico, del suo giovane autore. Come buona parte del postmodernismo, la letteratura di Barth parla di se stessa, è autoreferenziale e/o metanarrativa “La mia prosa è uno strumento dall’andatura goffa, privo di grazia, e non ho alcuna padronanza degli stratagemmi stilistici“. La voglia di stupire spinge addirittura Barth a scrivere un paragrafo su due colonne, con due versioni diverse. Al centro del romanzo, dunque, non c’è la storia ma la rappresentazione della storia: “non riesco a terminare, lettori, non riesco a tenere la penna sino alla fine della riga“.
”Mi chiamo Todd Andrews…ho 54 anni…sono scapolo, vivo in una camera d’albergo a Cambridge, nel Maryland…sono il miglior avvocato forse sulla Costa Orientale…indosso vestiti costosi e fumo sigari Robert Burns” Ne L’Opera galleggiante – il titolo è ispirato da un fantasmagorico showboat che un tempo viaggiava per le paludi della Virginia e del Maryland – i romanzi sono due, concentrici : da un lato la storia di uno stravagante triangolo amoroso nel quale viene accidentalmente coinvolto il protagonista – stravagante perché consapevole, per meglio dire, istigato da una giovane coppia di suoi amici “ciascuno di noi tre amava gli altri due con tutto l’affetto di cui ciascuno era capace“. Dall’altro, il racconto di una vicenda intima, carico di introspezione e di spunti filosofici, che vede l’io narrante alle prese con una misteriosa “indagine” legata al suicidio del padre, anche lui avvocato, consumatosi l’indomani del crollo di Wall Street. Un tragico destino verso il quale sembra indirizzarsi lo stesso Todd il 21 giugno del 1937, data che farà da spartiacque nell’evoluzione della trama e intorno alla quale ruoterà l’intero romanzo. Il nostro avvocato non gode di buona salute: ha una prostata capricciosa, responsabile di imbarazzanti defaillances sessuali, ed è anche affetto da una rara forma di endocardite che lo costringe a vivere una vita senza mete e obiettivi, come se ogni attimo del suo tempo fosse l’ultimo. “Nulla ha un valore intrinseco” è questa la conclusione della sua lunga peregrinazione filosofica. “Ma se la morte è la fine totale, non sarà meglio rimanere vivi in qualsiasi circostanza?” gli domanda un vecchio amico alle prese con le sue stesse turbe esistenziali. Sono trascorsi vent’anni da quel 21 giugno del 1937 e Todd Andrews non sa ancora spiegare perché il padre si è ucciso, e neppure perché non si è ucciso lui. L’indagine deve continuare.
Angelo Cennamo