GLI SFIORATI – Sandro Veronesi

Gli sfiorati - Veronesi

La condizione umana di chi mostra di avere un carattere debole, governato da un‘unica stella, quella della cessione. Persone facilmente influenzabili, volubili, incapaci di imporsi una minima disciplina e con una forte tendenza alla sensualità e alla concupiscenza. “Schiumevolezza” è la parola inventata da Sandro Veronesi per raccontare una gioventù sbandata e superficiale che ha avuto ogni cosa senza possederla veramente. Schiumare vuol dire cambiare forma in continuazione, essere inafferrabili, indecifrabili. Gli sfiorati sono gli eroi di una generazione liquida, votata allo sballo, senza valori né ideali. Troppo facile l’accostamento agli indifferenti di Moravia, umanità per certi versi sovrapponibile a questa di Veronesi. No, qui si parla d’altro, per quanto il richiamo ad una borghesia vuota, oziosa, sonnolenta, sembri legare, per certi versi, le due narrazioni. Nel romanzo di Veronesi siamo alla fine degli anni Ottanta, anni di leggerezza, le ideologie sono crollate con il muro di Berlino, così come ogni punto di riferimento o medello pedagogico: la famiglia, la scuola, la politica, prossima al diluvio di tangentopoli. E’ in questo contesto che si sviluppa la storia di Mète, giovane grafologo, educato ai sani principi del cattolicesimo, e della sua sorellastra Belinda, diciassettenne, avuta dal padre in seconde nozze dall’aristocratica Virna Cironi Dalmasso. Belinda è di una bellezza devastante, una bomba dalle sembianze umane, una carica di sensualità che Mète prova a disinnescare in ogni modo per non farsi trascinare dal più torbido istinto carnale. Sentite come ce la descrive l’autore “Innanzitutto: biondezza. Non soltanto di capelli, sparsi ora al vento in un acqueo gioco di riflessi, ma una biondezza totale, corporea, una Febbre dell’oro imprigionata nelle carni”. Suo padre è preoccupato perché non studia, si droga, e la notte fa tardi con chissà quali compagnie. Prima di partire per la luna di miele, decide allora di affidarla al coscienzioso Mète perché la custodisca. Nella prima parte del romanzo Belinda compare una sola volta, al matrimonio dei suoi genitori. Nonostante le raccomandazioni del padre, Mète fa di tutto per non incontrarla. Ma la sua assenza è ingombrante. La cogliamo nei pochi dettagli che Veronesi semina nelle stanze della villa di famiglia, ora disabitata: i trucchi sulla mensola del bagno, un paio di calze, i passi leggeri sul pavimento, una conversazione silenziosa al telefono, un bigliettino lasciato sul tavolo. Da grafologo esperto, Mète sa scavare nell’intimità delle persone senza neppure vederle. Gli bastano poche righe scritte su un foglio: una consonante allungata oltremodo, una vocale più o meno aperta, un segno di interpunzione molto marcato. La schiumevolezza è il tratto di Belinda. Affascinante, portatrice di una sensualità innocente e inconsapevole, mutevole come un raggio di sole che filtra in mezzo agli alberi. Ha paura, Mète, paura di “quel suo splendore parassita, quelle sua quiete insana, quella passività che domina l’immaginazione……Belinda era incapace di negarsi a qualunque impulso, una volta che qualcuno glielo avesse saputo attivare”.

Gli sfiorati è una storia di saune e di noia. Di uscite notturne e di corteggiamenti vacui. Di amici traditi e poi ritrovati. Roma fa da sfondo. Maestosa, borghese e papalina come la metropoli viziata e disincantata di Paolo Sorrentino. Mète e Belinda: due corpi distesi sul letto. Ora sono vicini. Finalmente vicini.

Angelo Cennamo

Standard

Lascia un commento