
È possibile che uno scrittore di successo come Stephen King, autore di decine di bestseller con milioni di copie vendute in ogni angolo del mondo, acclamato e osannato da tutti, viva dentro di sé una sorta di complesso o di risentimento per essere considerato da molti uno “scrittore popolare “, un autore commerciale o di facile consumo, e non invece un romanziere “serio”, come certi suoi colleghi che hanno vinto il Pulitzer e il National Book Award? Inutile negarlo, soprattutto in alcuni paesi – penso in particolare all’Europa – un pregiudizio verso la letteratura di genere conserva ancora un forte radicamento. Molto meno negli Usa, nazione più refrattaria a certe sofisticherie accademiche, e che i libri – al netto dei critici alla Harold Bloom – li classifica semplicemente in belli e brutti. Di libri brutti King ne ha scritti pochissimi.
Non lo è sicuramente Misery, romanzo pubblicato nel 1988, che affronta proprio il tema del rapporto che lega lo scrittore al suo pubblico, e di come i lettori condizionino il percorso artistico di molti autori. È facile immaginare che dietro la figura di Paul Sheldon, romanziere di successo e protagonista della storia, si nasconda lo stesso autore del romanzo. E che la smania di emanciparsi da una certa serialità narrativa che vive lo scrittore protagonista del racconto sia il medesimo sentimento di frustrazione che forse Stephen King intende confessare nel libro.
L’impianto narrativo di Misery è davvero originale: due soli personaggi che si muovono e dialogano in un perimetro di pochi metri quadrati. Nient’altro che questo per 400 pagine di romanzo. Sheldon ha appena finito di scrivere il libro che dovrebbe consacrarlo come uno scrittore “Serio” dopo una lunga sfilza di romanzetti leggeri legati alla saga di Misery Chastain “Eroina delle periferie e star dei supermercati“. Ma proprio quando sta per lasciare il suo buon ritiro in Colorado, a seguito di un’improvvisa bufera di neve, l’auto di Paul esce di strada e si ribalta in una cunetta. A soccorrere lo scrittore privo di sensi è una sua accanita lettrice psicopatica. Annie Wilkes è un’ex infermiera dal vissuto turbolento, una spietata serial killer, che non tollera l’uscita di scena di Misery, il personaggio di cui Sheldon ha voluto finalmente liberarsi per superare il cliché e il ruolo dell’autore commerciale e ripetitivo dentro il quale è stato imprigionato dai lettori più affezionati. Il sequestro di Paul Sheldon nella casa di campagna di Annie diventa allora la metafora di una sudditanza artistica alla quale il noto romanziere non riesce più a sottrarsi. Paul è costretto a subire delle torture atroci da parte di Annie, che pretende da lui la riscrittura del suo ultimo libro, quello cioè che ha visto morire Misery. Tra lo scrittore e la sua aguzzina si innesca un rapporto perverso fatto di paura e odio, ma anche di rispetto e di complicità. Le lunghe giornate di Paul sono scandite dal rumore dei tasti di una vecchia macchina da scrivere procuratagli da Annie, e da infiniti momenti di solitudine durante i quali il prigioniero prova inutilmente ad organizzare e programmare la propria fuga. Annie somministra a Paul dosi massicce di antidolorifici che sviluppano nell’organismo debilitato dello scrittore una forte dipendenza. Paul è schiavo delle medicine di Annie esattamente come lo scrittore lo è del suo pubblico.
Misery è un romanzo claustrofobico, dal ritmo sostenuto e scritto con precisione millimetrica. È soprattutto una straordinaria prova d’autore di Stephen King, scrittore “serio” che non ha bisogno di Pulitzer né di Nobel per affermare il proprio genio letterario e perpetuare la fama che noi tutti gli riconosciamo di costruttore di trame prodigiose e di instancabile fabbricatore di emozioni. Che sia o meno uno scrittore di genere, King resta uno dei maestri della letteratura, un autore dal quale non si può prescindere per conoscere a fondo la cultura americana. E Misery è tra i suoi migliori romanzi.
Angelo Cennamo