C’è ancora spazio per la poesia negli anni Duemila, nell’era del digitale, nel tempo di internet? Me lo chiedevo in una nota libreria del centro di Napoli mentre facevo scorrere il mio dito indice sul dorso dei volumi classificati alla voce “classici”. Montale, Neruda, Pasolini, Saramago. Mi ha confortato allora sapere da uno dei commessi che una recente raccolta di versi di Franco Arminio – straordinario autore dell’Irpinia “d’Oriente” – a pochi giorni dalla sua pubblicazione, ha già superato le quindicimila copie vendute. Addirittura?, ho pensato, trattandosi di una cifra che potremmo giudicare ragguardevole anche per un romanzo o per un saggio. Ebbene sì, nonostante la crisi della scuola, l’imbarbarimento dei costumi, il degrado etico di qualunque Istituzione pubblica, lo strapotere delle nuove tecnologie, pare che la poesia conservi ancora intatto il suo appeal. O quasi. Del resto, ho riflettuto, i post contenuti nella messaggistica dei social non sono forse delle scritture brevi? “Mi illumino di immenso” di Ungaretti non ci starebbe tutta nei 140 caratteri di Twitter? E l’hip hop, o rap che dir si voglia, cos’altro è se non una narrazione semplificata e tormentata del nuovo disagio giovanile?
Come Franco Arminio, un altro poeta campano, Marco Guarino, fende gli spazi della nostra indifferenza con il pudore di una nuova intimità, che il più delle volte prende forma nel disagio e nel dolore.
In EXTRA, i versi di Guarino ci restituiscono l’angoscia di chi ha perso tutto, anche i propri sogni, in mezzo al mare o sui marciapiedi delle strade di un continente ostile. Guarino sviscera l’impotenza e la rassegnazione dei migranti, dà volto e voce ai loro silenzi.
Dimmi sono proprio io
su questa zattera,
sono io che lascio questa ferita
che disinfetto la vita con acqua e sale,
dimmi sono proprio io
in questa tempesta
sono io che con lo sguardo cerco l’altra costa,
che nella notte immagino la vita che non vivo,
dimmi sono io
in questo angolo di strada,
che cerco negli occhi degli altri
quel che non trovo nelle parole,
che credo ancora sia possibile una vita,
dimmi sono io
sotto questo cielo nero
sopra questo cartone,
che resto in silenzio ed ascolto la voce di quelli come me,
che rincorro nel vento la vita,
nel sogno l’ho vista volare.
Il buio di un’assenza incolmabile ed incurabile diventa, in MARS, un luogo improcedibile dove il vuoto si tramuta in strazio e il tempo di capire sembra non arrivare mai. Guarino sospende l’etica inaccessibile del mistero in poche righe, amare e struggenti come una domanda a cui non c’è risposta.
Questo giorno non ha più senso,
dall’alba al tramonto
è solo un vagabondo
tra il nulla ed il mai più.
Questo giorno non ha più senso
nel calendario dell’anima
è buio profondo e silenzio,
è una assenza troppo grande da capire
troppo grande da curare.
Questo giorno non ha più senso.
Io volevo solo dirti
resta ancora un po’…..
è rimasto ancora tanto da capire,
resta ancora un po’…..
è rimasto ancora tanto da scoprire.
L’orrore della guerra esplode nei versi cupi e feroci di HOTEL BANJSKA. Tra le macerie, i pianti e il tormento dei sopravvissuti. E il buio della notte che nasconde ogni cosa, persino il futuro.
La bomba che non brillò
assedia un fiore,
come la disperazione assedia il cuore
…non c’è più tempo per pensare al domani.
La vecchia vestita di nero
non trova più il suo orto,
non trova più il suo gallo,
non ha più uno straccio di vita,
la neve imbianca la terra
come una madre
la protegge dalla follia,
siamo in tanti nelle stanze buie dell’Hotel Banjska,
di notte non c’è più il rumore dell’artiglieria
ma in compenso il pianto,
di notte non c’è più odio
ma in compenso il tormento,
…non c’è più tempo di pensare al domani.