
“Borgo San Giuda non era nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate, un bar, uno spaccio di alimentari e la chiesa con la sua canonica – spropositate, in confronto al resto. Fine”.
Provo sempre un certo imbarazzo a parlar male di un libro, sopratutto quando a scriverlo è uno dei miei autori preferiti. Anche perché sono convinto che in un qualunque romanzo, anche il peggiore – non è questo il caso, sia chiaro – ci sia, oltre ogni limite o imperfezione, qualcosa di buono, qualcosa da salvare: un personaggio, un ricordo, una riflessione, un dialogo. Di Sandro Veronesi ho amato la parabola tragicomica di Pietro Paladini, protagonista di Caos calmo – premio Strega nel 2006 – e del suo sequel Terre rare. Così come mi ha intrigato il fascino biondo e incestuoso di Belinda, la giovane sorellastra di Méte, nel moraviano Gli sfiorati, romanzo scritto da Veronesi agli albori della sua carriera. XY ho iniziato a leggerlo sulla scia di IT, il capolavoro di Stephen King che racconta la storia di una dannazione mostruosa, dalle sembianze indefinite, multiforme, che colpisce la cittadina immaginaria di Derry nello sperduto Stato americano del Maine. L’ambientazione del romanzo di Veronesi, per certi versi anche la sua trama, ricorda un pò l’orrida vicenda vissuta dal clan dei perdenti nel voluminoso tomo di King. Al centro del racconto c’è la comunità di uno sparuto borgo di montagna, nel Trentino, il Maine italiano per l’appunto. Poche famiglie, raccolte in un fazzoletto di terra lontano da tutto e da tutti, perfino dai segnali radio-televisivi e da internet.
Una mattina d’inverno, su quel luogo così innevato, tempestoso, e già spettrale di suo, all’imbocco di un bosco, si abbatte una sciagura che non si può spiegare né raccontare: dieci persone trovano la morte per altrettante cause diverse. “La strage di San Giuda” – così la chiamano i media per semplificare la notizia, immaginando che Giuda sia il discepolo di Gesù, l’Iscariota, e non Taddeo – non solo non ha colpevoli ma soprattutto non ha delle cause plausibili, credibili, al punto che il Procuratore di Trento sceglie di offrire all’opinione pubblica e alla stampa una sua versione dei fatti, clamorosamente falsa e mostruosamente artefatta. Il caso verrà archiviato come un attentato di matrice islamica e coperto dal segreto di Stato. Punto.
I protagonisti del romanzo, nonché le due voci narranti, sono Giovanna Gassion, una psichiatra a sua volta in cura da uno psicanalista, alla quale, nella stessa mattina della strage, si riapre misteriosamente una ferita procuratasi quindici anni prima, e don Ermete, un parroco dai trascorsi beat ed ex missionario.
Giovanna è una donna fragile, insicura, in fuga da una relazione sentimentale finita con un magistrato assillante e parte in causa nelle indagini sulla strage. Don Ermete è invece una figura enigmatica, apparentemente saggio e molto preoccupato per le sorti dei suoi fedeli.
Nella prima parte del romanzo Veronesi è molto abile a caricare di suspense la sua storia e a mantenere alta la tensione. Lo scenario alpino, l’isolamento, le morti inspiegabili, il tormento del Procuratore costretto a depistare le indagini per occultare una verità incomprensibile ed incontenibile nel dettato della legge, sono tutti elementi che suggestionano e che giovano a un impianto narrativo pressoché perfetto. Ma è nella seconda parte che la trama, mai la scrittura, comincia ad evidenziare le prime crepe, incertezze che nel finale conducono il lettore in una specie di vicolo cieco, lasciandolo frastornato, immerso in una serie di interrogativi senza risposta. Giovanna, forse, più per allontanarsi dal suo ex fidanzato che per delle reali motivazioni professionali, decide di raggiungere don Ermete a San Giuda per assistere, dare un supporto psichiatrico, a quel “gruppo di vecchi che erano già pazzi ognuno per conto proprio prima impazzire tutti insieme”. Gli abitanti del borgo, infatti, quelli che hanno deciso di non andare via, sembrano in preda ad una improvvisa forma di impazzimento, si sentono traditi da San Giuda e anche dal loro parroco. La missione di Giovanna, quella di sottoporre il borgo ad una sorta di psicanalisi collettiva, fin da subito si rivela un fallimento. Giovanna non ha gli strumenti né professionali né umani per affrontare quel compito così inusuale e senza precedenti. Come può Giovanna guarire gli abitanti di San Giuda se neppure lei stessa, stressata al telefono dalla madre e ossessionata dal pericolo di ritornare col suo ex compagno, riesce ad orientarsi in quella vicenda cosi assurda? Anche don Ermete, dal canto suo, ha molti dubbi. La strage nel bosco va attribuita a Satana, pensa fin da subito il sacerdote. Non ci possono essere altre spiegazioni, “l’edera non può superare il muro“. Poi però un tarlo inizia ad insinuarsi nella mente, a logorare poco alla volta le sue convinzioni, e a sbiadire dentro di lui il confine tra scienza e fede: e se i morti di San Giuda fossero le vittime di un castigo divino?
Nella terza parte del racconto, quella conclusiva, Giovanna e don Ermete provano a tracciare un quadro verosimile e definitivo di quella tragica esperienza, esponendo ciascuno il proprio punto di vista. Ma il dialogo tra i due, anziché far emergere una clamorosa verità, il colpo di scena che il lettore attende col fiato sospeso da almeno trecento pagine, si risolve in una sequela di banalità sull’irrazionale mistero della vita lasciando appesa una storia che aveva alimentato ben altre aspettative.
Difficile giudicare un romanzo che sembra un noir ma che non è neppure un horror. Difficile soprattutto giudicare l’autore del libro, che in questo strano tentativo di depistare i propri lettori ha finito per smarrire se stesso. Dov’è finito Veronesi? Mah!
Angelo Cennamo