MISTERO NAPOLETANO – Ermanno Rea

 

 

Mistero napoletano - Ermanno Rea

 

Se tu avessi un miliardo di miliardi ti compreresti Napoli? E come la cambieresti?

Era questa la domanda più ricorrente nelle conversazioni che il giovane cronista de L’Unità Ermanno Rea intratteneva con i suoi compagni della redazione napoletana nell’Angiporto della Galleria Umberto. Siamo negli anni Cinquanta, Napoli è una città provata dalla guerra e dalla miseria, il suo porto è occupato dalla sesta flotta dei Marines, e nel pci locale sta per deflagrare uno scontro violentissimo tra l’ala stalinista incarnata dal segretario cittadino Salvatore Cacciapuoti, il despota, uomo arcigno, legato alla rigida ortodossia comunista, e i militanti del gruppo Gramsci, come dire: la parte più moderata, democratica e riformista del partito, e che ha avuto in Guido Piegari forse il suo esponente di spicco. A distanza di oltre trent’anni da quella esperienza politica e professionale, Rea decide di  tornare nella sua città per indagare su una vicenda misteriosa che lo ha tormentato per tutto questo tempo: il suicidio dell’amica e collega di redazione Francesca Nobili, avvenuto la sera del venerdì Santo del 1961.

Francesca sembra un personaggio uscito da un romanzo dell’Ottocento, l’eroina di una romantica e intricata storia di tumulti e di passioni che finisce in tragedia, invece è una donna reale, esistita per davvero nella Napoli del dopoguerra, e che per un decennio o forse meno ha incrociato il proprio destino con quello dell’autore di questo libro inchiesta, un po’ saggio un po’ romanzo, che ricostruisce fatti e circostanze seguendo la cadenza di un diario. Attraverso le testimonianze di vecchi amici, documenti archiviati e i diari della protagonista consegnatigli dalla figlia Viola, Rea ripercorre la lunga vicenda personale e familiare della cara amica scomparsa. La storia di Francesca si intreccia con quella del partito nel quale lei stessa militava, e ha come sfondo una Napoli in piena guerra fredda che sta vivendo una stagione cruciale per la rinascita dell’intero meridione.

La ricostruzione letteraria di Rea è molto particolareggiata, Rea nasce cronista e solo dopo una singolare esperienza da fotoreporter, all’età di 63 anni, si reinventa romanziere, e che romanziere.

Francesca Nobili – che si firmava Francesca Spada, col cognome di sua madre – era arrivata a Napoli all’età di quattro anni, dopo essere nata a Tripoli nel 1916 da un ufficiale di cavalleria scomparso forse in un’imboscata. Rea ce la descrive come un’apolide, estranea cioè a qualunque modello sociologico o culturale legato alla tradizione locale. La sua patria era il mondo intero, diceva. Era una donna affascinante, colta, dall’animo inquieto, con due lauree e un diploma al conservatorio. Non si curava del proprio aspetto, si mostrava sciatta, trasandata, agli abiti e ai rossetti preferiva la musica, la politica e la poesia peccato che amasse seppellire le sue grazie in un eterno maglione nero dal collo alto.

In verità, insieme alle sue grazie, Francesca avrebbe desiderato seppellire molto altro, un passato scandaloso che l’aveva resa difronte al pci napoletano una poco di buono, una donna sopra le righe, inaffidabile, una spregiudicata, anzi: una puttana. Prima di legarsi a Renzo, altro membro del pci e protagonista del romanzo, Francesca aveva avuto infatti un precedente matrimonio e un successivo compagno conosciuto in una setta di teosofici che praticava l’amore universale, Ugo Giannino, dalla cui unione erano nati i primi due dei suoi quattro figli. Ugo era riuscito a portarglieli via perché figli di “madre ignota” – la legge del tempo glielo consentiva. Ma non basta. Francesca era imputata del reato di saccheggio davanti al tribunale di Latina per una vecchia storia che risaliva al tempo della guerra e che, più avanti nel racconto, la spingerà a costituirsi in carcere. Insomma, il nome di Francesca era sulla bocca di tutti e non sempre per il suo fervore politico o per la passione con cui si dedicava al giornalismo. Lei e il suo nuovo compagno erano diventate persone scomode, moralmente indifendibili per quello stile di vita così disordinato, scandaloso, e quindi ricattabili.

Dicevamo di Renzo, Renzo Lapiccirella, l’attuale marito di Francesca. Rea ne parla come di un uomo di bell’aspetto, intelligente, generoso, disposto a sacrificare la propria laurea in medicina per perorare la “causa comunista” e inseguire un’improbabile vocazione al giornalismo. Renzo, si direbbe, è un vero progressista: non curante della malevolenza, delle calunnie, dei pregiudizi ( siamo nella Napoli degli anni Cinquanta), sfida tutto e tutti pur di stare con Francesca. I due abitano con i loro figli in una palazzina sui Camaldoli, in una casa misera, senz’acqua né riscaldamento, arredata di soli libri ( quelli non mancano mai) e da un pianoforte sgangherato al quale Francesca sfoga spesso i suoi tormenti.

L’ambiente al giornale e nel centro della città è certamente più stimolante, luccicante, un’atmosfera, reale o romanzata che sia, ricca di fermento e inebriante che il lettore percepisce, annusa anche con una certa invidia. Renzo e Francesca frequentano politici, artisti e intellettuali, un’umanità variegata e appassionata nella quale brilla su ogni altra la stella del più umanista degli scienziati: Renato Caccioppoli, il matematico matto che ispirò il primo film di Claudio Martone, e che si tolse la vita con un colpo di pistola nel 1959, due anni prima di Francesca.

Attraverso la sua persona Rea e tanti suoi compagni intravedevano come una possibilità quasi un sogno che non avevamo neppure osato sognare: quello di un comunismo trasandato, spettinato, stretto in un impermeabile un po’ liso, un comunismo insieme tenero e beffardo, divorato dalla passione per tutte le cose belle e giuste che esistevano sulla terra, un comunismo privo di pregiudizi, tollerante, nutrito di tutte le lingue presenti nel grande albero della vecchia cultura europea. Soprattutto, un comunismo non separato dalla libertà.

Lui, Renzo e Francesca erano accomunati da una napoletanità atipica, poco incline al folklore, molto anticonformista, e le loro scorribande in trattoria o in galleria, al giornale, ce lo confermano.

A questo punto una domanda è  d’obbligo: ma Rea era innamorato o no di Francesca?

E qui forse è arrivato il momento che io chiarisca in maniera perentoria di non essere mai stato innamorato di Francesca. Ma che chiarisca, nello stesso tempo, che la nostra è stata sicuramente un’amicizia amorosa” pag. 63.

Per quanto ci tenga a chiarire, Rea non ci convince affatto.  La sensazione è che l’autore della pasionaria Francesca sia stato innamorato eccome, e che nel suo libro inchiesta abbia taciuto non poche cose. Per rispetto, pudore o semplicemente per galanteria. Ma non importa: chi di noi non si sarebbe innamorato di Francesca, di una donna così fuori dagli schemi da sembrare un personaggio letterario più intrigante di una Emma Bovary o di Anna Karenina?

È il realismo, bellezza. Rea intinge la sua penna nell’inchiostro della vita e dei ricordi e confeziona un capolavoro di altri tempi. Un romanzo d’amore e d’amicizia intriso di storia e di politica. Malinconico, audace, carico di poesia e di sentimenti sconfitti.

Angelo Cennamo

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