VIA GEMITO – Domenico Starnone

 

Via Gemito - Starnone

 

Tutte le volte che si parla di Domenico Starnone – scrittore e giornalista napoletano, premio Strega nel 2001 proprio con Via Gemito –  si va a parare sempre lì: sarà lui o non sarà lui Elena Ferrante? Fossi Starnone, a certi curiosi così insisitenti e scoccianti, che nella maggioranza dei casi non hanno letto né i suoi libri tantomeno quelli della Ferrante, risponderei alla maniera di Federì, il protagonista del suo romanzo. Direi loro: “Evvabbè, lo confesso: Elena Ferrante sono io, basta che la finite di romperocàzz“.

Che personaggio, Federì, ferroviere per necessità, pittore per vocazione, inchiodato all’insuccesso prima da un padre padrone poi da Rusinè, la moglie gretta e ignorante che gli fa fare solo brutte figure, e che al telefono risponde: “pront” senza la “o” finale. Hai voglia di spiegarle che deve dire “pronto”, perché da un momento all’altro potrebbe chiamare un gallerista importante o chissà chi. Federì la tormenta, le fa del male, Rusinè è il capro espiatorio dei suoi fallimenti, e lui è un uomo arrogante, manesco, geloso, possessivo, lo è con tutti, con lei e con i suoi figli. Nessuno deve contraddirlo, e chi osa farlo è nu strunzemmèrd, tutti strunzemmèrd compresi chilli sfaccìmm dei parenti di Rusinè, una banda di impiccioni scansafatiche buoni solo a portargli via i soldi.

La tragicomica famiglia di Starnone abita sul Vomero, in Via Vincenzo Gemito – lo scultore napoletano vissuto nell’Ottocento, al quale un’altra grande scrittrice partenopea, Wanda Marasco, ha dedicato il suo Il genio dell’abbandono – titolo dal sapore ferrantiano: che non sia proprio la Marasco Elena Ferrante. Siamo nella Napoli del dopoguerra, Federì e Rusinè faticano per sbarcare il lunario: mandare avanti quattro figli e una suocera col solo stipendio di ferroviere nun è ‘na pazziella. La casa è umida, manca tutto anche il mobilio. Federì si divide tra il suo vero lavoro e quello di artista, artista che non dipinge: “pitta”. Nature morte, paesaggi, ritratti di chiunque, anche dei suoi familiari, chilli strunz che non sono capaci di stare fermi un minuto quando si devono mettere in posa. Federì è un raccontaballe che ama vantarsi davanti ai figli e la moglie di amicizie mai coltivate e di mostre alle quali non ha mai partecipato. Eppure di occasioni per svoltare ne ha avute. Durante la guerra, per esempio, le truppe angloamericane lo avevano ingaggiato come interprete e scenografo al teatro Bellini. Quanti soldi che aveva guadagnato! Si era pure conquistato la stima di artisti internazionali: attori, registi, impresari. Federico, il tuo talento qui a Napoli è sprecato, gli dicevano tutti. Ma sarà poi vero? Stanco di vivere la sua passione nell’anonimato, Federì decide di camuffarsi da comunista per intrufolarsi negli ambienti giusti, quelli che ha sempre destestato. Lui, fascistone della prima ora, ora si atteggia ad artista radical chic di sinistra, prende la tessera del pci, disegna vignette per L’Unità e La Voce del Mezzogiorno. Qui il racconto di Starnone incrocia le storie di un altro romanzo famoso Mistero napoletano: gli anni, i luoghi, perfino alcuni personaggi sono gli stessi del capolavoro di Ermanno Rea. Federì arriva a conoscere pittori illustri del calibro di Renato Guttuso, così almeno dice lui, ma per quanto si dia da fare, resta fermo ai blocchi di partenza, lui il pittore ferroviere, senza una lira in tasca, con i soliti affanni e le frustrazioni di sempre. A raccontare la storia di Federì, le sue menzogne, la sua cialtroneria goffa e fantasiosa, è il figlio maggiore, Mimì. Il suo è un viaggio nei luoghi della Napoli di oggi, tra luci e ombre di un’infanzia piena di ricordi, delusioni e quadri ormai smarriti. Il finale malinconico di un romanzo travolgente che fa ridere, pensare e commuovere.

Angelo Cennamo

 

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