NAPOLI FERROVIA – Ermanno Rea

 

Napoli ferrovia - Ermanno Rea

 

Pochi scrittori hanno saputo raccontare Napoli come Ermanno Rea: Curzio Malaparte, Raffaele La Capria, Anna Maria Ortese, Matilde Serao. Non me ne vengono in mente altri. Ho letto Napoli Ferrovia – romanzo uscito nel 2007- sulla scia di Mistero napoletano il capolavoro di Rea, che con La dismissione completa una trilogia unica nel suo genere per realismo, poesia e denuncia sociale. La Napoli di Rea non è la città panoramica e solare della canzone melodica, e neppure quella efferata della gomorroide di Roberto Saviano. E’ prima di ogni altra cosa un luogo dell’anima dove l’autore ritorna, forse malvolentieri, per ritrovare i ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza, i vecchi amici scomparsi, e i segni di un riscatto che non è mai arrivato. Napoli non è cambiata affatto questa è una città che inghiotte, metabolizza fingendo di farsi essa stessa straniera via via che integra lo straniero, lo divora.

Ma perché Rea, come tanti altri intellettuali ed artisti della sua generazione, ad un certo punto della vita decide di andare via da Napoli? Volli sperimentare anch’io il distacco dalla matrice, da vivere insieme come perdita lacerante, certo, ma anche come maturazione e conquista di libertà.

Con Napoli ferrovia il ritorno si materializza con la strana amicizia tra un giornalista ottantenne e Caracas, un naziskin di origini venezuelane che detesta l’America e il capitalismo occidentale, e che ha da poco abbracciato la fede islamica. Un uomo non cresciuto del tutto, un sognatore. Il suo regno è il pianeta Ferrovia anche se una casa vera e propria non ce l’ha. Caracas è una miniera di storie, un appassionato di dolore altrui, amico di prostitute e immigrati di qualunque razza e provenienza, per questo lo chiamano il Cristo della Ferrovia.

Piazza Garibaldi, a Napoli, è un crocevia di mille etnie diverse, il suo doloroso e degradato melting pot richiama quello di altre metropoli del mondo, dal Maghreb al Brasile. Con Caracas il vecchio giornalista se ne va in giro a sbucciare la città come una mela per le strade più inquinate e malfamate. Con lui scende all’inferno per ritrovare le sue origini e visitare quei luoghi dove non avrebbe mai avuto il coraggio di inoltrarsi da solo.

Caracas a Napoli c’era arrivato all’età di sedici anni, con sua madre. Era un ragazzo pieno di ambizioni, di progetti, che aveva studiato l’arte e la grafica pubblicitaria. Ma dov’era la Napoli, la città-sogno, il luogo accogliente ed ingenuo che gli avevano raccontato? Dov’erano le brezze profumate, il mare portato dal vento sin nelle case e nei bar? Napoli era un trionfo di miasmi.

I due amici si ritrovano puntualmente a piazza Dante per perlustrare vicoli, piazze e quartieri del centro storico, ma anche per guardarsi dentro e conoscersi meglio: il giornalista nostalgico, la vecchia cariatide comunista col mito della Ragione, e il naziskin fascistoide che non ama la parola “comunismo” e neppure la parola “democrazia”, che crede nel potere della forza e che arriva a negare l’olocausto degli ebrei, a dire che le camere a gas non sono mai esistite. Giri infiniti tra palazzi anneriti dal traffico, raccontandosi aneddoti e storie familiari, come quella di Rosa La Rosa, il grande amore perduto di Caracas, la ragazza sopraffatta dalla droga e senza scampo. Facile riconoscere nel corpo martoriato e sofferente di Rosa il corpo di Napoli, la città che Rea ama in modo viscerale ma che detesta anche per la troppa tolleranza e la sua infinita rassegnazione.

Il viaggio dei due amici si conclude a piazza Mercato, un tempo punto nevralgico della Napoli mercantile, luogo tra i più deturpati dalla guerra, poi dalla speculazione edilizia, infine dalla camorra. Tutto era cominciato in quella piazza con l’avviatissimo negozio di vernici del padre dello scrittore, l’amara suggestione di un tempo che non ritorna, e ultima narrazione di un libro totale, intenso, che non può lasciare indifferenti.

Angelo Cennamo

                       

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