
Nell’anno in cui non viene assegnato il premio Nobel per la letteratura ci lascia lo scrittore che più di ogni altro quel premio lo avrebbe meritato. Poche ore fa si è spento Philip Roth, romanziere americano, ebreo, di Newark. Aveva 85 anni. Chi era Philip Roth. Roth era il più grande scrittore vivente, e non solo della sua generazione. Lo era per quello che ha scritto, soprattutto per come lo ha scritto. Per come ha saputo raccontare con i suoi libri, circa una trentina tra romanzi e raccolte di racconti, la società americana, le sue trasformazioni, l’ipocrisia e la retorica del benessere, il vuoto dietro il volto patinato dalla classe media; la verità e la dissimulazione attraverso l’invenzione del suo alter ego Nathan Zuckerman; i conflitti familiari. Con Bernard Malamaud e Saul Bellow, la voce più beffarda e autorevole della letteratura ebrea americana del Novecento, oggi rappresentata da autori come Jonathan Safran Foer, Nathan Englander e Michael Chabon .
La carriera di Roth possiamo dividerla idealmente in due grandi stagioni, quella del figlio in cui Roth ha incarnato ed interpretato la ribellione alla famiglia, ai valori puritani della borghesia, lo scontro con l’omologazione e il conformismo della tradizione religiosa. Sono gli anni in cui escono romanzi come Lamento di Portnoy, Zuckerman scatenato e Patrimonio. La seconda è quella del padre, lui che padre non lo è mai stato. E’ questo il periodo più prolifico in cui Roth pubblica i romanzi di maggiore successo: Il teatro di Sabbath, La macchia umana, Pastorale americana.
Un gigante della letteratura, Philip Roth. Nel giorno della morte, il modo migliore per onorare la sua memoria è leggere uno dei capolavori che ci ha lasciato. Ci sono libri che cambiano la nostra vita, Roth ne ha scritti tanti.
Angelo Cennamo