IL CONFORMISTA – Alberto Moravia

Il conformista - Moravia

Quando il diciassettenne Alberto Pincherle – poi Moravia – nel letto di un ospedale, per ingannare il tempo e quella brutta malattia che lo affliggeva già da qualche anno al punto da costringerlo ad abbandonare gli studi, cominciò ad abbozzare delle frasi su un quadernino, nessuno poteva immaginare che quegli appunti disordinati, scritti a penna, sarebbero diventati poco più tardi un’importante opera letteraria, una pietra miliare della nuova letteratura. Con Gli indifferenti romanzo pubblicato nel 1929Moravia liberò la narrativa italiana dalla lingua ingessata, ampollosa, dei dotti, dalla grammatica degli intellettuali e dei poeti, e la trasportò nella modernità, dando inizio, lui e non Sartre o Camus, alla corrente dell’esistenzialismo. Non sono d’accordo con chi accusa Moravia di non aver scritto nulla di eclatante e di nuovo dopo quel romanzo d’esordio, di essersi ripetuto, riciclato nei libri successivi con i soliti cliché sulla noia e la solitudine. Ho riletto a distanza di molto tempo dalla mia prima volta Il conformista – pubblicato vent’anni dopo Gli indifferenti – e sono rimasto colpito dalla immutata freschezza, dall’attualità dei temi affrontati, da come Moravia descrive la società italiana che dal fascismo ad oggi non sembra per nulla cambiata. Il romanzo è il ritratto di un uomo, soprattutto di un atteggiamento morale tipico dei nostri tempi: l’omologazione. Negli anni Settanta ne parlò a fondo anche Pier Paolo Pasolini – di Moravia grande amico e confidente – in due celebri raccolte: Scritti corsari e Lettere luterane.

Il protagonista del racconto, Marcello, nel prologo è un bambino introverso e violento, attratto dalle armi. Marcello non solo è consapevole, ma turbato da quella innata crudeltà che lo fa sentire diverso dagli altri suoi coetanei e che lo spinge a fare del male prima a gatti e lucertole, poi ad uccidere un uomo. Lino, la vittima, è un prete spretato, un pedofilo che con un espediente conduce il ragazzino in una casa di campagna per sfogare la sua mania. Per quell’istinto omicida che cova dentro di sé, Marcello vorrebbe tanto essere rimproverato, punito dai genitori, ma sia il padre che la madre sembrano assenti, distratti – gli indifferenti – presi da altre faccende. Nella prima parte del romanzo, Marcello lo ritroviamo adulto. Chi è adesso? Che uomo è diventato? Uno uguale a mille altri “Egli faceva tutta una cosa sola con la società e il popolo in cui si trovava a vivere, non era un solitario, un anormale, un pazzo, era uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata.” Aveva  temuto che l’omicidio di Lino potesse separarlo dal resto dell’umanità, ma l’adesione alla causa fascista e il matrimonio, sia pure con una donna che non ama, lo salvano da quel sentimento di estraneità, di esclusione dal mondo, e lo fanno sentire per la prima volta come tutti gli altri. Un’illusione, forse, che il protagonista coltiverà fino a quando gli verrà affidata una misteriosa missione in Francia.

Il conformista è in buona sostanza quello che oggi chiameremmo un noir psicologico. Dunque anche Moravia scriveva noir, come Umberto Eco, Leonardo Sciascia, e Pasolini ( Petrolio è un meraviglioso romanzo noir ), se ne facciano una ragione i tromboni delle gerarchie letterarie, i critici dello scaffale. Tornando alla trama del romanzo, Marcello ha un amore isterico per l’ordine, per la compostezza. L’omicidio di Lino è la negazione di quell’ordine prefigurato, è il  disordine, il male, un male che può essere cancellato in un solo modo: conformandosi alla massa. Cosa c’è di più omologante del fascismo e del matrimonio? “Sono stato un uomo simile a tutti gli altri uomini….ho amato, mi sono congiunto ad una donna e ho generato un altro uomo”. È il grande tema del rapporto tra uomo e società, sempre attuale e perfettamente delineato da Moravia, con coraggio e incisività. Quando seppi della morte di Philip Roth, mi chiesi se in Italia avessimo avuto uno scrittore paragonabile al grande romanziere ebreo di Newark. Moravia, mi sono detto. Alberto Moravia è stato il nostro Philip Roth.

Angelo Cennamo

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