
John Hunt è un cowboy di mezza età, vedovo, laureato a Berkeley in storia dell’arte. Ma alle aule universitarie e ai musei, John ha preferito altro: in un ranch sperduto di uno Stato sperduto e inospitale come il Wyoming, addestra cavalli e si lascia accudire dal vecchio Gus, una specie di Kit Karson di colore. Le giornate di John iniziano all’alba, e sono faticose, irrigidite da un clima che non risparmia nessuno, né gli uomini né le bestie. Un giorno, un suo aiutante viene arrestato con l’accusa di aver assassinato un giovane gay in un ranch vicino. Suo malgrado, John si lascia coinvolgere nella caccia ai colpevoli e in una esplorazione introspettiva che cambierà il suo modo di vedere le cose. Di Percival Everett, prima di Ferito, avevo letto Percival Everett di Virgil Russell, romanzo postmoderno dalle atmosfere wallaciane. Ferito è un libro diverso, una storia western a metà tra la trilogia di Kent Haruf e la narrativa di Jim Harrison. Everett è un autore camaleontico, e non si ripete. Qui, alla prosa massimalistica del labirintico viaggio virgiliano dell’altro racconto, Everett preferisce una scrittura asciutta, con frasi brevi, millimetriche. Ferito è un romanzo sul pregiudizio e sull’integralismo della provincia americana, fondamentalmente bianca, restia al cambiamento, e che negli ultimi anni si è riconosciuta nel nazionalismo fallico di Trump. Nella seconda parte la storia ruota intorno alla figura di un altro giovane omosessuale, David, figlio di un vecchio compagno di college di Hunt. David non si sente accettato dal padre, dal quale è fuggito, e trova nel cowboy John un nuovo riferimento, una spalla. Tra i due nasce un sentimento ambiguo, ed è proprio l’ambiguità una delle chiavi di questo romanzo denso di storie, di tenerezza, di umanità.
Angelo Cennamo