IL SINDACATO DEI POLIZIOTTI YIDDISH – Michael Chabon

 

Il sindacato dei poliziotti yiddish

 

La chiamano letteratura ucronica, perché l’autore riscrive la storia immaginando scenari ed epiloghi diversi rispetto ad avvenimenti già accaduti. Il complotto contro l’America di Philip Roth ne è un fulgido esempio. Per certi versi, anche la trilogia americana di James Ellroy. In questo romanzo pubblicato nel 2007, e preceduto da capolavori come Wonder boys (1995) e Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (2001), Michael Chabon – scrittore ebreo-americano ed erede di una gloriosa tradizione letteraria della quale hanno fatto parte autori come Bellow, Malamud e lo stesso Roth  – immagina che gli ebrei dopo la seconda guerra mondiale non siano approdati in Palestina, ma abbiano trovato rifugio in Alaska, luogo meno pericoloso di Israele ma di sicuro più noioso. Più che una Terra Promessa, la terra delle promesse, in primo luogo quella della imminente Restituzione della terra ai nativi. Ci troviamo nel distretto federale di Sitka, città inospitale in ogni senso – nelle quattrocento pagine del libro non si intravede un raggio di sole, un filo d’erba, un odore che non sia quello del tabacco o di un’ascella sudata. Qui, in una camera d’albergo, viene ritrovato il cadavere di un campione di scacchi eroinomane. Si faceva chiamare Emanuel Lasker, come un celebre scacchista dell’Ottocento, ma il suo vero nome era Mendel Shpilman. Figlio di un rabbino ultraortodosso, Mendel, fin da bambino, per la sua spiccata intelligenza e per una serie di prodigi compiuti, era considerato da tutti il Messia. In tanti accorrono al suo funerale, e piangono, ma non lui, la speranza persa, “la perdita del colpo di fortuna che non è mai arrivato”. A indagare sull’omicidio è un curioso detective, un uomo alcolizzato, divorziato da una donna che è anche il suo capo in polizia, con una sorella morta in un misterioso incidente aereo ed un padre – anche lui scacchista – morto suicida. Meyer Lansdman è un uomo sull’orlo di una crisi di nervi. Un ebreo laico, del tutto indifferente alle questioni religiose. La sua vicenda personale, goffa e travagliata dall’inizio alla fine, si intreccia con la trama pubblica del libro, ovvero con la questione storico-religiosa legata all’Olocausto, per quanto riveduta e corretta da Chabon. “Sono tempi strani per essere un ebreo” e di stranezze questo romanzo ne è davvero pieno. La narrazione di Chabon è innanzitutto una storia di perdite: della terra per gli ebrei, dell’amore e della lucidità mentale per Meyer, della vita di Mendel, di un improbabile Messia per la sbandata comunità di Sitka. Un romanzo che sfugge a qualunque classificazione: un noir postmoderno? Un libro di fantascienza? Un romanzo storico? Tutte queste cose messe insieme, forse. Di sicuro un’opera folle, geniale, meravigliosamente ostica, attraverso la quale l’autore è riuscito ancora una volta ad alzare l’asticella delle sue performance e a proporsi come uno degli ultimi sperimentalisti della letteratura americana.

Angelo Cennamo

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