
“Tutti vogliono possedere la fine del mondo” scrive Don DeLillo nell’incipit di Zero K. È la frase che dà inizio al racconto ma che nel contempo chiude il cerchio di una narrazione più vasta, cominciata molti anni prima, nel 1985, con un libro gemello di questo, intitolato Rumore bianco. Jack Gladney è un professore di studi hitleriani in un campus universitario dove gli scarti della cultura pop americana hanno oscurato qualunque altra forma di apprendimento. La quarta moglie di Jack, Babette, soffre di vuoti di memoria e, di nascosto, si sottopone ad una terapia sperimentale per superare le proprie ossessioni. Le stesse di suo marito “Il rimpianto più profondo è la morte. L’unica cosa da affrontare è la morte. Non penso ad altro. Il punto è uno solo : non voglio morire” dice Jack al suo collega Murray nelle ultime pagine. È la frase che racchiude il senso del libro agganciandolo all’altro, il cui protagonista, Jeffrey Lockart, affida il sogno della resurrezione alla tecnica avveniristica della criogenesi. Con Rumore bianco DeLillo ci conduce nella quotidianità di una famiglia progressista con figli di matrimoni precedenti, larga come la trama del romanzo che non scorre mai in divenire ma procede in orizzontale attraverso il racconto delle sensazioni, delle manie dei protagonisti. “E se la morte non fosse altro che un rumore?”. Il vero problema, dice Heinrich, il figlio sofista e catastrofista della coppia, sono le radiazioni che ci circondano ogni giorno: radio, forno, tv, forno a microonde, fili elettrici. I campi elettrici e magnetici sono la nostra rovina. Leggendo il libro, la prima immagine che balza alla mente è quella di un luogo chiuso, senza finestre, illuminato giorno e notte dai neon. Un luogo sommerso dalla plastica e dalla carta, da involucri, buste, etichette, dal ronzio, sottile, quasi impercettibile dell’aria condizionata e dei banconi refrigeranti. Il supermercato è il luogo dove questa non-storia prende corpo, si inspessisce di richiami filosofici e sociologici, fino a tradursi in una nevrosi collettiva che porterà i protagonisti ad un vero delirio, prima a seguito del deragliamento di un carro cisterna che genererà una nube tossica, poi con la ricerca ossessiva di un farmaco che promette l’annientamento della paura. Non saprei come definire quest’opera così bizzarra, originale, la cosa forse più simile che ci sia alla narrativa di David Foster Wallace. Penso che certi libri servano spingere i lettori in luoghi inesplorati. Forse tra cinquant’anni di Rumore bianco non se ne parlerà più così tanto, o forse se ne parlerà più di oggi.
Angelo Cennamo