
Anni Novanta. Giovanna è una ragazzina fragile, insicura, figlia di due insegnanti della Napoli bene, e voce narrante di questa storia che Elena Ferrante fa uscire a cinque anni di distanza dall’ultimo capitolo della quadrilogia de L’amica geniale. Cinque anni, il tempo nel quale si è consacrata tra le più popolari scrittrici del pianeta con oltre undici milioni di copie vendute, film, documentari, fiction, e il solito rebus sull’identità sul quale fingiamo di interrogarci senza venirne a capo. Domenico Starnone? Anita Raja? Entrambi? Nessuno dei due? Poco importa.
Resta il fatto che misurarsi col successo di un’opera così complessa e perfettamente calata nel contesto spazio-temporale come la lunga vicenda dell’amicizia di Lila e Lenù, non poteva non risultare per l’autrice una sfida impegnativa, quasi improba, un fardello che assorbe energie, idee, creatività. Una scommessa complicata sotto ogni punto di vista, insomma. L’ha vinta, la Ferrante, questa sfida? Secondo me, no. La vita bugiarda degli adulti nella sua prima parte si sviluppa intorno alle paure della giovane protagonista, quella per esempio di diventare brutta come la sorella di suo padre “sta facendo la faccia di Vittoria”. Vittoria è il personaggio meglio riuscito del libro. Ignorante, rancorosa, scorbutica, sboccata: mi ha ricordato Federì, l’artista incompreso di Via Gemito, il romanzo con cui Starnone si aggiudicò il premio Strega nel 2001. Già, Starnone. La strana amicizia nata tra la piccola Giannì e la ribelle zia Vittoria, allontanata da tutti per aver intrattenuto diciassette anni prima una relazione con un uomo sposato con figli, poi deceduto, è la traccia più interessante del racconto, che, come dicevo, nella sua prima parte si sviluppa con dei toni frizzanti ed originali. E’ mancato però tutto il resto. La storia di Giovanna, con lo scorrere delle pagine, sembra avvitarsi su stessa senza seguire una direzione convincente. A deludere è prima di tutto la visione del tempo. Il romanzo è ambientato negli anni Novanta, ma la Ferrante questi anni non ce li mostra né con le immagini né con le parole: il lessico, i dialoghi “La feci entrare, aveva sul braccio una camicia da notte con un merletto bianco”, le situazioni in cui vengono a trovarsi i personaggi, sembrano appartenere a un altro tempo, sospeso tra il dopoguerra e gli anni Sessanta. E’ qui che la storia finisce per ricalcare le geometrie e la grammatica de L’amica geniale, con la Ferrante che non si avvede di riscrivere lo stesso romanzo. Cosa resta? Certamente l’impronta di una narrativa che riflette bene il mondo femminile, che sa raccontarlo – è la cifra di Elena Ferrante, da L’amore molesto in avanti, ma che in questo caso si ferma sulla soglia di un nuovo che non riesce a prendere corpo. Che fatica a spogliarsi dei sentimenti e delle voci che brulicano in quello stradone di periferia da dove iniziò l’imprevedibile e vertiginosa scalata verso il successo.
Angelo Cennamo