
Ad oggi, in Italia, di Herbert Lieberman sono stati tradotti solo due libri, entrambi editi da minimum fax: Città di morti e Il fiore della notte. Sono romanzi datati, il primo è uscito negli Stati Uniti nel 1974, se la mente non mi inganna; l’altro è stato pubblicato dieci anni dopo. Non chiedetemi per quale strana ragione l’aereo con i thriller di Lieberman sia atterrato nel nostro paese con un simile ritardo: non la conosco. Ma di casi come quello del maestro di New Rochelle se ne possono citare a decine, ahimè. Il fiore della notte, come il libro che lo ha preceduto, è una storia newyorkese, cupa, ma dal respiro ampio, densa di sottotrame, pieghe, nutrite divagazioni che però sono perfettamente funzionali alla vicenda centrale. I protagonisti del romanzo sono due personaggi dei quali è impossibile non innamorarsi. Vediamoli. Il detective Francis Mooney è un uomo corpulento, vicino alla sessantina, un asociale, single, non può fare a meno di ingozzarsi di cibo spazzatura, la sua più grande passione sono i cavalli. La carriera di Mooney nella polizia di New York è stata condizionata da una serie di stop and go: promozioni sì, ma anche dolorose retrocessioni e tante umiliazioni. L’altro è Charles Watford. Un raccontaballe mezzo matto, inseguito dai fantasmi dell’infanzia, una specie di Caulfield Holden da adulto che scrocca ricoveri in ospedale per assecondare una farmacodipendenza compulsiva, la sua rovina. I due protagonisti seguono percorsi paralleli senza mai incontrarsi nelle prime duecento pagine. Lieberman colloca la sua storia sui tetti di una New York notturna e primaverile. E’ lì, da quei tetti, che un misterioso serial killer uccide senza mira e senza una ragione apparente, lasciando cadere nel vuoto dei blocchi di calcestruzzo. Per la polizia si tratta di morti accidentali, ma Mooney è deciso ad andare fino in fondo e contro tutti per dimostrare che dietro quegli episodi si nasconde la mano di uno spietato assassino. L’incontro tra il detective e l’incorreggibile Watford è il preludio di una svolta; pur essendo molto diversi, i due sono accomunati da un profondo senso di infelicità. La cialtroneria di Watford intenerisce. Nel disincanto di Mooney ci riconosciamo tutti. Lieberman costruisce per gradi, non lascia nulla al caso e non si ferma al tratto poliziesco, va oltre: scandaglia i lati più remoti della personalità delle sue pedine, ne racconta il vissuto, le contraddizioni, la solitudine. Se Philip Roth avesse scritto dei thriller, li avrebbe scritti come Herbert Lieberman. Capolavoro.
Angelo Cennamo