
Non so quale direzione prenderà il romanzo nei prossimi decenni. Ogni tanto viene fuori qualcuno che ne decreta la morte. Penso che ovunque dovesse andare, lì, in quello spazio, ci sarà sicuramente Ben Lerner. Scrissi qualcosa di simile a proposito di Ali Smith e del suo “Inverno”. Topeka School è un libro ambizioso che contiene quattro storie e nessuna (vera) trama. Il senso del romanzo – a tratti saggio mascherato – sconfina oltre il perimetro del racconto, che sembra non esserci. Lerner lavora per addizione, confezionando una sorta di trattato sociologico sul linguaggio, sul suo potere mistificatorio, sulla sua degenerazione nei social. È un libro difficile, piatto, senza sussulti, in cui sono il vigore e la magnificenza della scrittura a colmare i vuoti di empatia ai quali il giovane autore del Kansas ci ha abituato.
Siamo negli anni Novanta. Adam Gordon è un eccellente studente della Topeka High School e un asso dell’oratoria pubblica. Come un novello Protagora, Adam se ne va in giro per il Paese ad asfaltare altri suoi coetanei in agguerrite competizioni di dialettica. Il romanzo di formazione di Adam si alterna a quello dei suoi genitori – Jonathan e Jane, esemplari della borghesia radical chic di sinistra – e del giovane bullizzato Darren, scritto in corsivo. Il contrasto tra l’ambiente progressista in cui è cresciuto Adam e il mondo esterno, rozzo e violento, è uno dei topoi del libro oltre che il paradigma di un linguaggio-comunicazione asimmetrico per stile e incisività. L’esperimento di Lerner è riuscito? A tratti no: non mancano momenti di noia e passaggi inutilmente astrusi che rischiano di allontanare il lettore dalle diverse trame e sottotrame. Topeka School però ha tutti gli ingredienti e le dinamiche del Grande Romanzo Postmoderno, un libro denso di parole che parla di parole e dell’uso spesso distorto che ne si fa.
Angelo Cennamo