Non è semplice incontrare Antonio Manzini se non gli sei amico o se con lui non hai rapporti di collaborazione o di lavoro. Manzini è un eremita, vive rintanato in una specie di ranch nella campagna romana, tra cani e cavalli. Legge, scrive, poco altro. La promozione del nuovo libro passa attraverso sei, sette al massimo, appuntamenti programmati con l’editore, sempre lo stesso: Sellerio. Manco a dirlo, il SalerNoir Festival era uno di quelli concordati per il 2021. Un’occasione più unica che rara. Manzini. Proprio lui, il papà di Rocco Schiavone. Nella dedica che mi ha fatto al ristorante, nel corso della cena, ha scritto testuale: “Per Angelo. D’altronde…”. Chi conosce il manziniano sa che questa parola, “d’altronde” o “daltrondismo”, fa parte del suo repertorio di intrattenitore, di One-man-show. Sì perché Manzini, quando presenta i suoi romanzi, nelle sei o sette date che gli vengono imposte in un anno, non una di più, non ha bisogno di interlocutori o relatori: fa tutto da sé. Parla del più e del meno – mai del libro. Ricorda il maestro Camilleri, cita il suo editore, racconta le gag con l’attore Marco Giallini, ride e fa ridere chi gli sta intorno, svela, torna serio, fa lunghe pause alla Celentano, guarda nel vuoto, simula timidezza, si incupisce, poi esplode in un sorriso. D’altronde. E che vor dì? D’altronde è una supercazzola di sole tre sillabe che serve a disorientare l’assillante di turno, il polemico, il contestatore che cerca sponde, il rompicoglioni. D’altronde è la parola magica per farla finita, per non dare adito, per sviare, per assecondare senza dire di sì e senza dire di no. “Vecchie conoscenze” di una lingua che si adegua, ammicca, scardina. Mm. E se ci fossero parole migliori? Sticazzi.
Angelo Cennamo
