Uma Thurman e John Travolta che nei panni di Mia Wallace e Vincent Vega ballano un twist sulle note di “You can never can tell” di Chuck Berry. È la scena più nota di “Pulp fiction”, il film che nel 1994 – nel 1992 l’esordio con “Le Iene” – consacra Quentin Tarantino tra i registi più famosi e strapagati del pianeta.
“C’era una volta a…Hollywood” arriva nelle sale cinematografiche venticinque anni dopo “Pulp fiction” e a distanza di qualche mese Tarantino ne fa uscire una versione romanzata, sovvertendo una vecchia prassi che vuole i film tratti dai libri e non il contrario. Quando scrivo queste poche righe non ho (ancora) visto il film con Brad Pitt e Leonardo Di Caprio; la cosa non mi dispiace, potendo parlare del romanzo più liberamente, senza condizionamenti, soprattutto senza sapere quanto il racconto scritto sia fedele o meno al film. La storia è ambientata alla fine degli anni Sessanta e del cast – parola quanto mai appropriata – fanno parte due protagonisti e altrettante seconde linee. Vediamoli.
Rick Dalton è una vecchia gloria del cinema costretta ad accettare un ruolo di prim’attore in uno spaghetti western diretto da Sergio Corbucci – “il secondo miglior regista di spaghetti western del mondo”, gli dice il nuovo impresario Marvin. Rick è un tipo alla buona, un po’ retrò, vissuto all’ombra di Steve McQueen.
Cliff Booth è la sua spalla, la sua controfigura. A dirla tutta, Cliff “è stato” la sua controfigura; sì perché, da quando sul set de “Il calabrone verde” diede una bella lezioncina di karate nientemeno che a Bruce Lee, la collaborazione tra Cliff e Rick si è ridotta al ruolo di autista e poco altro. Gli altri due personaggi del libro sono Sharon Tate, un’avvenente autostoppista che se n’è andata dal Texas sognando di diventare un’attrice, e Charles Manson, un ex detenuto con ambizioni da rockstar. Ma accanto a questi quattro protagonisti ce n’è un quinto, un po’ defilato sullo sfondo, è il vicino di casa di Rick: Roman Polanski. Rick lo vede entrare e uscire dalla sua villa a bordo di una fuoriserie; “La vita è troppo breve per non guidare una spider” è la migliore battuta pronunciata da Polanski, la leggiamo a poche pagine dalla fine.
Più che un romanzo “C’era una volta a Hollywood” è un saggio sul cinema mascherato da fiction. Tarantino si diverte a raccontare aneddoti, alcuni realmente accaduti, altri meno – il libro è pieno di nomi di attori e attrici, titoli di film, di canzoni – mescolandoli alle vicende dei suoi personaggi. Il risultato è decisamente apprezzabile, per quanto l’autore abbia, come dire, giocato in casa; la prova del nove l’avremo col secondo romanzo, semmai Tarantino dovesse pubblicarlo. Non stupisce che il ritmo del racconto sia cinematografico, a mo’ di sceneggiatura, con sequenze molto evocative. La scrittura di Quentin Tarantino ricorda quella di Joe Lansdale: veloce, tagliente, battute fulminanti. Rick e Cliff non saranno Hap e Leonard ma la simpatia è la stessa. Provaci ancora, Quentin.
Angelo Cennamo
