CAVALLI ELETTRICI – Shannon Pufahl

Shannon Pufahl è cresciuta nelle campagne del Kansas. Come tanti scrittori americani ha un curriculum abbastanza variegato: barista, autrice musicale freelance, poi docente alla Stanford University. “Cavalli elettrici” è il suo primo romanzo. Edizioni Clichy, editore attentissimo ai nuovi fermenti d’oltreoceano – “Nomadland” di Jessica Bruder è stato uno dei migliori colpi del 2020 – lo ha portato in Italia con la traduzione di Giada Diano. 


È una storia diversamente western, ambientata nel secondo dopoguerra tra il Kansas e la costa californiana. I protagonisti sono due giovani coniugi e il fratello di lui. Quello tra Lee, Muriel e Julius non è esattamente un triangolo ma tra Muriel e suo cognato c’è una strana alchimia fatta di pensieri sconci, di sguardi furtivi, di parole non dette. 
Muriel è il personaggio più interessante del libro: lavora in una tavola calda fuori San Diego, frequentata da ex fantini e allenatori. Muriel sente le loro conversazioni, prende appunti, e nei giorni liberi, all’insaputa di Lee, corre a scommettere all’ippodromo di Del Mar. La vita segreta di Muriel, le sue puntate vincenti, le inquietudini che ha ereditato dalla madre, donna travagliata che ha avuto diversi amanti, occupano la prima parte del romanzo, la più promettente. Personaggio speculare a quello di Muriel è il cognato Julius, uno sbandato, un uomo infido, attratto da Muriel ma innamorato di Henry, un baro che ha conosciuto in un casinò di Las Vegas. 

“Cavalli elettrici” è una storia di bugie e di scommesse. Le esistenze di Muriel e di Julius – Lee rimane più sullo sfondo – sono governate dall’azzardo e dalla menzogna. Per almeno cento pagine il romanzo è perfetto: la Pufahl sa scrivere, i luoghi della storia, dal Kansas all’Ovest passando per Tijuana, sono uno scenario meraviglioso, vibrante, evocativo; le vicende ambigue di Muriel e di Julius, un propellente ben calibrato. Poi però la storia diventa inspiegabilmente lenta, prende direzioni incompatibili col nucleo centrale del plot, le tracce aumentano, si aprono nuove scene nelle quali entrano ed escono decine di altri personaggi ininfluenti, che distraggono il lettore dal senso del racconto. E allora si ha la sensazione che il romanzo imploda come un castello di carte – troppe – messe senza criterio una sull’altra, fino a che l’azzardo (quello della Pufahl ) non si risolve in un bluff smascherato.

 
Peccato, “Cavalli elettrici” poteva essere un capolavoro, le premesse c’erano tutte: l’inseguimento del sogno, il viaggio dal Midwest alla California, il sobborgo della “Revolutionary road” di Richard Yates, i tradimenti, il gioco, la perdizione. Ma la Pufahl ha voluto strafare, aggiungendo pezzi e divagazioni che hanno allargato la storia senza misura, rovinandola. 

Angelo Cennamo

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