
“Solo chi è nato in una zona sismica o alle falde di un vulcano attivo può farsi un’idea relativamente adeguata di cosa significa venire al mondo in una famiglia indebitata fino al collo”.
A parlare è un ragazzino senza nome, figlio unico di una famiglia romana piccolo borghese, disfunzionale, litigiosa, che non ama avere gente in casa né accettare inviti altrui. La madre è un’insegnante di matematica, il padre un piazzista di elettrodomestici, professionalmente inetto e smisuratamente ottimista, capro espiatorio di un collasso finanziario che mina qualunque ipotesi di sopravvivenza.
A cinque anni dal suo ultimo romanzo, Alessandro Piperno torna nel luogo a lui più congeniale, la famiglia, per raccontarci una storia di menzogne, di colpe e di imposture. Una storia lunga quanto la sua vita: inizia negli anni Settanta e prosegue fino a nostri giorni.
Di questo nucleo familiare autarchico e male assortito sappiamo poco, è una famiglia reticente, che sembra avere rotto i ponti con chiunque. Fino a che quel passato tenuto nascosto non irrompe con una una brutalità non prevista e foriera delle “peggiori intenzioni”. Più o meno a metà del racconto scopriamo che la madre del ragazzino senza nome è ebrea e proviene da una famiglia dell’aristocrazia romana molto in vista. Ma il riavvicinamento insperato, anziché risollevare le sorti finanziarie degli indebitati, li farà sprofondare in una spirale tragica e paradossale.
Siamo alla prima traccia di questa Pastorale Italiana: l’identità. L’incontro del ragazzino con un cugino di sua madre segna un nuovo inizio.
Gianni Sacerdoti è uno dei personaggi chiave della storia. Giurista di chiara fama, scapolo impenitente e amante della bella vita, Sacerdoti appartiene a quella schiera di ebrei secolarizzati nati dopo la guerra, per i quali il giudaismo “non era una cosa seria” ma “una coccarda da ostentare in società, un brand”. Sacerdoti seduce il ragazzino, lo introduce nel ramo ricco e blasonato della famiglia. L’iniziazione è graduale e non contempla ripensamenti. Cosa vuol dire essere ebrei nella Roma secolarizzata dell’ultimo scorcio del Novecento. E cosa vuol dire essere scrittori ebrei in un tempo che confligge con qualunque forma di ortodossia. È un tema ricorrente nella letteratura ebraica americana soprattutto, dalle opere di Isaac Bashevis Singer a quelle più recenti di Jonathan Safran Foer. È raro imbattersi in un autore ebreo che si sottragga ad una simile vocazione, quella cioè di esplicitare il dilemma etico in questione. Non fa eccezione Alessandro Piperno, “l’uomo in bilico” tra Philip Roth e Saul Bellow per stile ma anche per molti degli argomenti affrontati nelle storie che lui racconta: la ferocia e il cinismo della vita borghese, lo strabismo religioso di certi personaggi incapaci di allinearsi ai precetti della torah.
Il dualismo nel quale il giovane protagonista si ritroverà calato a seguito del dramma che colpirà i suoi genitori, dà il senso e la misura di questo richiamo.
Cosa è accaduto al padre e alla madre del ragazzo senza nome? Chi è il colpevole dei fatti? Gianni Sacerdoti avrà l’autorevolezza, il potere, l’arroganza di imprimere agli eventi la direzione sbagliata. Ne seguirà una spirale di false convinzioni della quale il nipote ritrovato sarà sia vittima che carnefice.
L’altra traccia del libro è l’impostura, ovvero il desiderio di essere qualcun altro. L’impostore vuole migliorarsi, è “l’immaginifico che rischia il tutto per tutto inventando passati implausubili e scommettendo su un avvenire di riscatti”. L’impostura è l’illusione, la gabbia dorata nella quale finirà per autorecludersi il giovane Sacerdoti, lo stravolgimento comprenderà anche il cambio del cognome. Ma verrà un tempo per ristabilire la verità, a caro prezzo, e risarcire i danni, nei limiti del possibile. Siamo alle battute finali, le pagine più introspettive e surreali di questo meraviglioso romanzo intitolato “Di chi è la colpa”.
Angelo Cennamo