UN ANNO DI LIBRI

Brutta parola bilancio. Cercherò di evitarla, ma un paio di cose su questo 2021 le voglio dire. Un ottima annata, come il titolo di quel vecchio film con Russell Crowe, ve lo ricordate? Intanto due esordi pazzeschi, entrambi finiti nella shortlist di Telegraph Avenue, quelli della giovanissima afroamericana Raven Leilani con “Chiaroscuro”, e dello scozzese Douglas Stuart con “Storia di Shuggie Bain”, vincitore del Booker Prize nel 2020. Il ritorno ai vecchi fasti di Chuck Palahniuk dopo una serie di prove opache: “L’invenzione del suono” è un libro coraggioso e geniale, un raro esempio di avanguardismo in tempi in cui si sperimenta pochissimo. I racconti di “Scusate il disturbo”, un altro bel tassello che si aggiunge alle precedenti raccolte del minimalista Richard Ford, perfetto nella forma breve quanto nella lunga distanza. “Un piede in paradiso” di Ron Rash ha fatto un giro immenso prima di approdare in Italia, ci sono voluti vent’anni e l’intraprendenza de “La Nuova Frontiera”, editore sempre attento alla narrativa made in Usa. Rash è tra i migliori scrittori americani viventi, qualcuno lo sa? 

Il 2021 ha segnato anche l’atteso ritorno di Don DeLillo, il suo brevissimo “Il silenzio” è stata però la più grande delusione della stagione insieme a “L’arresto” di Jonathan Lethem, che con questo libro di flop consecutivi ne ha inanellati almeno tre. “Billy Summers”, preceduto dalla raccolta “Later”, ha invece riportato Stephen King agli standard di altri tempi. Se non sai cosa leggere, vai alla voce Stephen King: otto volte su dieci ti andrà bene. Tre bellissimi romanzi sono quelli dei premi Pulitzer Louise Erdrich (“Il guardiano notturno”) e Richard Powers (“Smarrimento”), e “Crossroads” di Jonathan Franzen, il primo episodio della saga familiare degli Hildebrandt. C’erano aspettative altissime su Franzen e non sono state deluse.

Veniamo agli italiani. “Due vite” di Emanuele Trevi è un romanzo intimo, accorato, ben scritto, ma poi? Sul premio Strega sarebbe meglio stendere un velo pietoso. I libri migliori erano altrove. Tre su tutti: “Di chi è la colpa” di Alessandro Piperno, romanzo maestoso sulla identità e l’impostura, “Sembrava bellezza” di Teresa Ciabatti, “Gli invernali” di Luca Ricci, terzo capitolo della sua quadrilogia sulle stagioni. Una citazione a parte merita “Dice Angelica” di Vittorio Macioce, opera che sfugge a qualunque canone: visionaria, originale, anzi unica. I romanzi citati sono autenticamente italiani, nel senso che potevano essere scritti solo qui, per voce, stile, mood ecc.

Un’ultima annotazione sul Giallo. Accanto alle belle prove dei collaudatissimi Antonio Manzini (“Vecchie conoscenze”) e Alessandro Robecchi (“Flora”), aggiungerei il trittico di Davide Longo (Longo, Scuola Holden, avrebbe meritato lo Scerbanenco con “Una rabbia semplice”); il romanzo sulla Lucania di Piera Carlomagno (“Nero Lucano”), il noir in salsa texana di Omar Di Monopoli (“Brucia l’aria”), i thriller di Antonio Lanzetta (“L’uomo senza sonno”) e Piergiorgio Pulixi (“Per mia colpa”).  

Angelo Cennamo

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