
La raccolta “Why visit America” (“Perché l’America”), uscita negli Stati Uniti nel 2020 e da qualche settimana in Italia con le traduzioni di Veronica Raimo e Marco Rossari, sta incontrando i favori di un certo lettorato, abbastanza esigente e orfano di una narrativa più o meno avanguardista, fondamentalmente nordamericana. Matthew Baker – appuntatevi il nome di questo scrittore – è oggi tra le voci più innovative di quella cultura; il look da ragazzo punk: volto emaciato, felpe e giacche di pelle fuori misura, e l’asimmetria della bizarra capigliatura, lo fa somigliare alla vorticosa rappresentazione dei suoi mondi: stratificati, folli, iperbolici, stupefacenti.
I racconti di Baker – “tredici, uno per ogni striscia della bandiera americana” – richiestissimi anche dalle case cinematografiche (per “Ergastolo” si è scatenata un’asta feroce) – ci mostrano un’America del futuro prossimo distopica, o utopica se preferite, ridisegnata col compasso e il righello della provocazione: settantenni improduttivi che decidono volontariamente di uscire di scena, criminali puniti con la rimozione dei ricordi anziché con il carcere, maschi che si lasciano schiavizzare da femmine superbe e dominatrici sessuali.
Baker nemico di un Occidente assuefatto al consumo e ossessionato dal desiderio di piacere? Il ragazzo è ironico, diverte e si diverte; in ognuna delle sue storie finiamo per riconoscerci tutti, non ci serve che allungare lo sguardo, proiettarlo poco più in là delle conquiste del digitale, lavorare di fantasia (quello sempre). Racconti spiazzanti, dunque, diversi l’uno dall’altro, (quasi) mai noiosi, coraggiosi/oltraggiosi, originali o emulativi di un’originalità perduta (nella giovane coppia che si mette alla ricerca di uno sponsor per finanziare i costi del matrimonio è impossibile non rivedere la cronologia di “Infinite jest” di David Foster Wallace, anzi sembra quasi che al genio di Ithaca Baker voglia concedere un tributo).
Baker lavora per sottrazione, gioca a ribaltare la realtà costruendone una nuova, parallela, secondo la logica dantesca del contrappasso, dispensando equità e giustizia, invertendo regole e convinzioni, e ricorrendo a una scrittura chirurgica, millimetrica, sinuosa quanto basta. Baker è fluido, camaleontico, sceglie di essere disturbante e cinico; a volte pecca di narcisismo (chi non lo è stato alla sua età?). Scrivere e riscrivere questi racconti più o meno brevi, armonizzarli in un flusso vitale che rifiuta il reale e lo sostituisce con il profetico, inventare questo lungo viaggio, epico, attraverso un’America altra che si riflette nell’America vera, non dev’essere stato facile, il risultato tuttavia mi è parso eccellente: in “Perché l’America” riconosciamo il tratto dei libri imprescindibili, quelli che sfidano il tempo e le mode del momento, sparigliando canoni, generi, architetture, significati. Lo stile di Baker è stato accostato a quello di giganti come Houellebecq, Atwood, Borges, Calvino, prima ho citato Foster Wallace, in una specie di mimesi del tutto cambia ma tutto si tiene, reminiscenze di un cut-up che procede per immagini impresse nella mente: letture precedenti, affinità elettive. Esiste ancora uno spazio incontaminato nella letteratura moderna, una foresta di parole vergini, un suolo lunare levigato e senza orme? Non lo so, ma Baker sembra averlo trovato.
Angelo Cennamo